Eutrepelia
Si racconta che un illustre maestro insegnava ai suoi alunni un’arte poco conosciuta e, forse, per niente praticata. Quest’arte si trova elogiata negli scritti di celebri personaggi: Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino… È un’arte che nel corso di oltre duemila anni ha subito vari cambiamenti, tant’è che da positiva ha finito per essere considerata persino arte negativa.
Presso i Greci, quest’arte era ritenuta indispensabile per la persona saggia e intelligente. Essa doveva comprendere le note della gioia e della serietà. L’uomo ideale doveva essere capace di trattare argomenti importanti sapendo sfruttare anche l’umorismo, di modo che, insieme alle vicende serie della vita o del lavoro, sapesse attuare anche la necessaria distensione. Però, in epoca bizantina, quest’arte assunse un valore negativo, come a significare sarcasmo, buffoneria e persino insolenza.
Essa, tuttavia, rimane una virtù simpatica il cui nome è eutrepelia. La parola, evidentemente, viene dal greco: eu che significa “bene” e trepelia che significa “conversione, cambiamento”. Eutrepelia, dunque, è capacità di trasformare in bene e in qualcosa di piacevole, senza avvilenti superficialità o volgarità, tutto quello che si pensa, si dice e si fa, sapendo distinguere sempre e con chiarezza il bene dal male: il male per rigettarlo, il bene per compierlo sempre, dovunque e nonostante tutto.
Oggi, quest’arte non è certo facile da praticare, nondimeno è necessario possederla, perché favorisce la flessibilità dello spirito, la serenità dell’anima e la distensione del corpo, da cui sgorga la gioia di saper vivere in entusiasmo, nonostante le quotidiane difficoltà della vita e il soffocante respiro in atmosfere non salubri e nocive.
Saper vivere nella serenità di chi pratica l’evangelica beatitudine dei poveri in spirito, dei pacifici e dei miti è gioire. Gioia dei semplici, cioè dei puri di cuore, serenità dei veraci, cioè di chi ha cuore e occhi limpidi. Virtù che sono preziosi doni dall’alto e squisiti frutti dello Spirito che si conquistano ogni giorno col sacrificio della “conversione”. In mezzo ai gemiti della creazione schiava (cf Rm 8), la vita diventa libero canto di lode perché la forza della Risurrezione è sempre congiunta con la comunione nella Passione di Cristo. Il luogo della serena gioia è l’amore creativo e nello stesso tempo sacrificale di Dio.
Oggi, purtroppo, l’uomo continua a stravolgere la trasparenza delle cose, restaurata in Cristo, nello specchio di Narciso, pretendendo di volersi divinizzare con le proprie forze, e così, anziché accogliere la nuova Gerusalemme, costruisce Babele. Non si potrà far nulla senza una serena e buona “conversione” della mente e del cuore. Questa santa metamorfosi esige non solo che Dio si faccia uomo in Cristo, ma che anche l’uomo si lasci trasfigurare in Cristo dallo Spirito Santo. Questa trasfigurazione, dono del Risorto, dà la capacità di gioire in entusiasmo vivendo in serenità la trama drammatica e affascinante della vita.
E’ cosa certa che la tristezza insana e malvagia è il peggiore di tutti gli spiriti cattivi. L’uomo ripiegato su stesso e preoccupato solo dei suoi interessi, l’uomo che non pensa al bene altrui, che non è proiettato verso l’altro per renderlo felice, non sarà mai persona di trasparente verità, di gioiosa concordia e di serena pace. La letizia dello spirito accompagna sempre una vita dedita agli altri. Chi si fa il centro di tutto, chi si ritiene il primo, l’unico e il migliore, non potrà mai vivere in armonia né con se stesso né con gli altri, si rinchiude in sé vivendo in una spettrale e triste solitudine. Il libro dei Proverbi esprime chiaramente questo stato d’animo: “Il cuore felice rende lieto il volto, il cuore in pena, abbatte lo spirito” (15,13). Anche il Siracide conferma che “il cuore dell’uomo modella il suo volto, sia in bene, sia in male” e poi, leggendo il cuore dell’uomo guardando il suo volto, dice che “il viso ilare è indice di animo sereno, il volto triste è segno di preoccupazioni e di affanni” (13,25-26).
E’ cosa certa che soltanto la Verità si fa nostra felicità nell’amore. Questa felice verità si chiama fede, non quella superficiale e fragile ricamata sul sentimento, ma quella potente e trasfigurante che in Gesù Cristo e per Gesù Cristo trova significato e valore riscattando tutta la nostra vita, come acqua del mare che si fa dolce elevandosi al cielo. Il cristiano vero vive elevandosi a Dio, solo così gusta la gioia della vita e immette gioia nella vita.
Sappiamo per esperienza che al cuore umano non mancano mai i motivi di trepidazione dovuti al senso d’inquietudine, d’incertezza, d’instabilità e di ogni sorta di precarietà creaturale. Ci sono poi le gravi ragioni della sofferenza che tutti, più o meno acutamente, avvertiamo. Esistono, come dicevamo, ragioni più forti e più profonde per vivere nella serenità e nella gioia interiore e che sono sottratte alla volubilità delle circostanze: il Mistero dell’Incarnazione e della Redenzione è risposta piena e definitiva al bisogno umano della serenità gioiosa. Lo smarrimento umano è superato definitivamente e la solitudine è pienamente colmata dalla presenza di Dio.
Indubbiamente, per vivere in quest’alveo di gioia occorre la fede che è fiducia piena in Colui che la genera e l’alimenta. La serenità gioiosa non la si crea con la suggestione della fantasia e con la bravura intellettuale ed erudita o con i casi positivi delle circostanze della vita: la gioia come la fede è dono che scende dall’Alto e, come ogni dono, si può liberamente accogliere o anche respingere.