Il cammino del dialogo
Camminare insieme significa dialogare con coloro che, in qualche modo, percorrono la stessa strada così da incontrare idealmente o in comunione di fede e di amore chi fa il percorso con te. Dialogare significa “entrare” in una persona passando attraverso la luce della sapienza: impresa ardua! La sapienza, dice la Santa Scrittura, è sottilissima! Spesso, purtroppo, si usa come arma di discordia. La sapienza è impalpabile, inafferrabile, è energia di profonda vitalità e penetra nell’intimo di ogni cosa. Dialogare, quindi, è lasciarsi “penetrare” dal Logos divino, unica e insostituibile sapienza che fa comprendere ogni realtà. E’ lacerante la conflittualità interiore provocata da sogni, da attese, da speranze e, nello stesso tempo, da tristi sconfitte e da amare delusioni. Il cammino è arduo e spinoso col pericolo di rimanere soli. Ma non si rimane mai da soli. Questa conflittualità non si verifica intorno al Logos che è sempre di estrema chiarezza e linearità; il conflitto viene favorito e fomentato dalle interpretazioni che gli uomini danno al Verbum Dei.
Il rapporto dei credenti tra di loro o con chi non crede o con chi vacilla nella fede è sempre configurato al rapporto d’amore che Dio tesse con l’umanità. Talvolta, nell’ambiente in cui si vive e si opera, ci sembra di abitare in un mondo popolato da estranei. Molti sono vittime di un’ostilità generata dal timore, dall’oppressione, dall’aggressione, dalla sfiducia, dalla prepotenza, dalle tante diaboliche intimidazioni. In un mondo che soffre l’alienazione dell’estraniamento, il cammino del dialogo potrebbe dare una nuova dimensione alla comprensione di un rapporto fraterno e alla formazione di comunità che vivono la civiltà della concordia, aldilà di cortesie da convenevoli, di trattenimenti all’ora del tè o di effimere conversazioni in atmosfere salottiere. Dove c’è “ostilità” (hostes) non ci potrà mai essere “ospitalità” (hospes). Nel momento in cui l’”ostilità” si trasforma in “ospitalità” viene a crearsi quello spazio di libertà in cui l’estraneo diventa amico e fratello e nel dialogo fiorisce l’unità tra persone differenti. Il dialogo comporta sempre creare lo spazio libero dove l’altro possa entrare per colloquiare con te.
Dialogare non significa portare forzatamente chi ti ascolta dalla tua parte. Il dialogo non è cortese intimidazione per imporre il tuo punto di vista, non è incastrare il prossimo per non dare soluzioni alternative, non è subdola oppressione per fare adottare il tuo modo di vedere, di pensare e di operare. Ogni incontro-dialogo in carità non dovrebbe avere mai il timbro della violenza e del conflitto: se lo avesse, non sarebbe vera carità. L’incontro in carità è l’alveo fecondo in cui si cammina insieme nel dialogo della fraternità. E’ questo l’itinerario di costruzione del divino che s’incarna nell’umano. Ogni conflitto, si sa, è sempre provocato da quel diabolico dissidio interiore che è causa di ogni peccato. Il diavolo è l ”egoista”: perciò egli è invidioso e omicida. Torniamo sempre alla necessità di avere una vita nuova e un risanamento al livello del cuore. La verifica va fatta sulla purezza della fede, sulla trasparenza dell’interiorità, sulla concretezza dell’amore accolto, vissuto e donato. E’ urgente e indispensabile, perciò, compiere quel cammino di dignità, di civiltà, di gentilezza, di cortesia, di compostezza uguale a quello che Dio ha realizzato e continua a realizzare con noi in Cristo Gesù. Non si può diventare “come Dio” volendo rimanere solo uomini. Occorre che l’uomo si trasfiguri, perda, cioè, la “sua figura” per “configurarsi” pienamente a Cristo. Grida in entusiasmo san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Se ogni cristiano guardasse il prossimo come “ostensorio vivente” della presenza di Cristo, l’ipocrisia, che sfigura il volto dell’uomo, sarebbe debellata e il rapporto in concordia con gli altri diventerebbe stile di vita; tutti i credenti sarebbero credibili perché “sacramenti” dell’Amore trinitario. All’interno della creazione c’è una sfida: quella dell’alterità. L’altro non è il tuo sosia: solo il sepolcro rende, non simile, ma uguale all’altro. L’incontro con l’altro è fecondità di vita. L’alterità è incisa nell’uomo sin dal grembo materno. Solo la sfida dell’alterità crea la sinfonia della vita: essa è legge della creazione in bellezza. Solo la sfida dell’alterità armonizza la concordia tra gli uomini: essa è legge della redenzione in carità. Per realizzare questo è indispensabile possedere, come atteggiamento spirituale, due forme di povertà: povertà di mente e povertà di cuore. Chi crede di “saper tutto” non ha capacità di ascolto e impedisce l’interscambio delle idee. Un cuore pieno d’invidie, di gelosie, di pregiudizi, di preoccupazioni è un cuore chiuso e ottenebrato, è quindi incapace ad aprirsi alla vasta gamma di esperienze degli altri. Quando la “diversità” si trasforma in “opposizione”, tutto diventa divisione, astiosità, rivoluzione, guerra d’ogni genere. Nell’opposizione non c’è né dignità, né saggezza, né sapienza; ma orgoglio, invidia, gelosia, insofferenza, presunzione: si vuole fare prevalere se stessi, il proprio modo di pensare, di vedere e di agire.
Il “pluralismo” diventa “guerra civile” che, a volte, indossa la toga dei magistrati o la parrucca dei politici; se poi si riveste di abiti religiosi e si pone gli uni contro gli altri, questo è chiaro segno che la religione in cui si crede e che si professa è idolatria del proprio io che da consistenza pseudo-divina alla propria illusoria ragione. Non esiste, non può esistere un “Dio che divide e frantuma! Mi ha sempre colpito in meraviglia quel passo che san Gregorio Nazianzeno scrive di san Basilio: “Quando, con il passare del tempo, ci manifestammo vicendevolmente le nostre intenzioni e capimmo che l’amore della sapienza era ciò che ambedue cercavamo, allora diventammo tutti e due l’uno per l’altro: compagni, commensali, fratelli. Aspiravamo a un medesimo bene e coltivavamo ogni giorno più fervidamente e intimamente il nostro comune ideale. Ci guidava la stessa ansia di sapere, cosa, fra tutte, eccitatrice d’invidia; eppure, fra noi nessuna invidia, si apprezzava invece l’emulazione. Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permetteva all’altro di esserlo.
Sembrava che avessimo un’unica anima in due corpi… L’occupazione e la brama unica per ambedue era la virtù, e vivere tesi alle future speranze e comportarci come se fossimo esuli da questo mondo, prima ancora d’essere usciti dalla presente vita”. Guardiamoci attorno e osserviamo: si trovano ancora simili esempi? E se esistono, dite dove si trovano! “Gridatelo sui tetti” dei mezzi di comunicazione! La carità non si dà pace finché il dialogo della fraternità non è restaurato!