Il grembiule dell’ Agape

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L’amore di Gesù verso i suoi non era puro sentimento d’amicizia e neppure solo gesto di paternità che anima un maestro per i propri discepoli. Quell’amore veniva dal Padre e al Padre tornava. Non era eros, ma agape. L’eros è lo slancio radicale dell’essere finito che ricerca la propria completezza al di fuori di sé. E’ figlio di povertà carnale in cerca di ricchezza, come notava Platone. L’agape, invece, è figlio della ricchezza e cerca povertà, come insegna Gesù. Nel suo limite estremo, l’agape è accettazione della morte per donare agli altri la vita. Gesù non solo lo dice, ma lo realizza: “Nessuno ha amore più grande di colui che da la vita per i propri amici”. Il suo annientamento lo consuma sulla croce. Quella di Gesù non è solo una vita piena d’amore, essa è rivelatrice di un altro tipo d’amore. I discepoli non comprendono perché trovano l’ostacolo nel loro eros. Nell’ultima cena Gesù da il segno di questo capovolgimento: chi volesse farne solo un banchetto di buoni sentimenti di fraternità, lo svuoterebbe del suo realismo scandaloso.

Giovanni non ripete il racconto dell’Istituzione eucaristica ormai vissuto dalle comunità cristiane, egli, per mettere in evidenza il senso di quell’istituzione e l’efficacia salvifica dell’agape, racconta il gesto della lavanda dei piedi. In questo gesto troviamo due capovolgimenti: Non è il servo che compie la lavanda, ma Lui, il Maestro e il Signore che, invece di lavare le mani, lava i piedi. Un detto di Gesù esprime bene questo cambiamento: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve?…Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Intanto, Pietro, spinto dai moti della natura dettati dall’eros, reagisce giustamente a quel gesto sconveniente del Maestro. Ma è la natura umana che respinge l’agape. Pietro, come anche gli altri, per ora non possono capire, capiranno in seguito, dopo l’epilogo dell’agape. Gesù infatti dice a Pietro che quell’amore che lui gli mostra non giova a nulla. Pietro deve entrare nell’oscura e misteriosa potenza di quell’amore il cui segno visibile non è il potere, ma il servizio. Gesù, alla parola “servizio” da un nuovo contenuto e un nuovo stile. Il “servizio”, la diakonia, era presso i greci qualcosa di indegno. Un vero uomo non doveva servire, doveva dominare, solo qui raggiungeva il perfetto sviluppo della propria personalità.

Gesù, collegandolo col precetto dell’amore di Dio, lo ha capovolto nella sua valutazione morale e ne fa l’atteggiamento che rende l’uomo suo discepolo. Se il discepolo non comprende questo sarà come Nicodemo: non potrà né rinascere, né entrare nel regno di Dio. Pietro si arrende anche se non comprende. Ma, se Gesù, Maestro e Signore, ha lavato i piedi ai discepoli, anche i discepoli devono lasciarsi lavare i piedi a vicenda. E’ questo l’amore che salva. E’ questa l’eucaristia in cui dovrà riconoscersi sempre la comunità dei credenti in Cristo.

O la comunità recupera nella Celebrazione dell’Eucaristia la vera coscienza di sé e la prassi dell’Agape, o la sua memoria cultuale sarà in contraddizione diretta con la parola da cui essa, come chiesa di Cristo, trae il diritto della propria esistenza.

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