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Controsensi umani o libertà di opinione? Da ‘La casa nella prateria’ al true crime: cosa vuole vedere la gente?

In questo periodo ci sono tante lamentele. Sono finiti da poco i film dedicati al giorno della memoria. È concluso anche Sanremo dove, invece di godere delle canzoni più significative, ci siamo azzuffati politicamente. Le ideologie cambiano, vero, ma dobbiamo ricordarvi sempre da dove partiamo. Si parla sempre di più di programmi woke o non woke. Si critica tutto col potere di un ditino freneticamente in movimento che scrive tutto quello che gli passa per la testa per vari motivi. Veniamo al sodo: la gente va in TV e dice che è stufa di brutte notizie e opere (libri da cui si traggono film e serie, film…) ‘pesanti’, tristi e così via. Cose, però, cin una morale, istruttive che toccano temi importanti.
Sempre nello stesso periodo, una certa conduttrice va in un talk show di intrattenimento televisivo italiano e dice che la gente vuole vedere sui suoi social cose più seriose, impegnate, non solo ‘leggere’. Dopo è venuta Netflix che desidera lanciare una nuova versione de ‘La casa nella prateria’. Questa serie è stata replicata anche negli anni in cui i Millennials erano appena usciti dalle scuole superiori e l’hanno vista. Generazioni di giovani, dagli anni ’70 ad oggi hanno visto e apprezzato l’opera originale.
Ma questa serie è davvero così ‘leggera’ e non woke? Si tratta di una delle serie più popolari degli anni ’70/’80, La casa nella prateria diretta, interpreta e prodotta da Michael Landon, il quale interpretava il capofamiglia (Charles Ingalls), nel corso degli anni ha trattato argomenti scomodi. Ad esempio aveva parlato di razzismo, isolamento, diversità, problemi adolescenziali, anche se il tutto era racchiuso nella dolce cornice di una famiglia laboriosa che lotta per farsi strada nell’America di fine 1800.
Questo perché, da un certo punto in poi, il programma devia dalla serie di libri omonimi scritti da Laura Ingalls Wilder, nei quali lei racconta la sua infanzia. Chi ha realizzato il prodotto ha preferito descrivere gli effetti del body shaming, le difficoltà dei disabili, e numerosi tabù dell’epoca.
Persino una delle protagoniste della serie TV originale difende il remake e l’originale da una polemica sul woke che, per alcuni è sinonimo anche di ‘argomento pesante’ e non solo legato al politicamente corretto. Tra le varie cose, la Gilbert scrive: “A quanto pare Megyn ha twittato (non sono su quella piattaforma) chiedendo che Netflix non wokizzasse il suo remake de La casa nella prateria. Ummm… guarda di nuovo l’originale. La TV non è molto più woke oggi di quanto abbiamo fatto noi. Abbiamo affrontato razzismo, dipendenza, indiani nativi, antisemitismo, misoginia, stupro, abusi coniugali e ogni altro argomento ‘woke’ che possa venire in mente”.
Ora, se la gente in tutto il mondo è stufa di woke nel suo verso significato: reale comprensione, inclusione e attenzione alle persone e alle situazioni problematiche, se davvero non ne può più storie di vita difficili, vere o immaginarie che siano, perché riguarda prodotti come La casa nella prateria? Perché ancora guarda film dedicati al giorno della memoria, a parte motivazioni scolastiche e famigliari specifiche?Perché guarda film e serie TV su storie vere ? Perché segue programmi TV e podcast web su storie crime e problemi di attualità? E le domande potrebbero essere infinite. Perché i fan di quella conduttrice la tacciano di essere ‘leggera’?
Se davvero si seguono certi programmi solo perché ‘non c’è altro’, perché non spegnere gli apparecchi tecnologici per dichiarare il nostro scontento? Perché non dedicare queste ore della nostra vita ad attività che ci piacciono davvero come uscire e divertirsi, fare volontariato o altro?
La gente, forse ha una doppia personalità? No, semplicemente ci sono gusti e idee diversi ma, in definitiva, alla maggior parte delle persone piace vedere e sentire cose brutte o tristi, anche solo in parte. Si dice mal comune mezzo gaudio. La gente si immedesima nei drammi in cui si riconosce, anche se, a volte, chi ha a che fare con queste persone dichiara di non vedere nessuna connessione tra il conoscente e il personaggio in cui egli si rispecchia
La gente non vuole soffrire, vuole uno spazio per riconoscersi, sfogarsi e sognare che, almeno in un altro universo, possa farcela. Se le storie sono reali è meglio, sono di ispirazione e si può provare a contattare gli interessati o i loro parenti. Tale atto non avviene solo per esprimere i propri sentimenti e condividere esperienze simili. Si può farlo anche per chiedere consiglio. Da casi del genere possono nascere anche amicizie e non è fantasia, capita.
Si segue l’onda e ci si iscrive a mille social, ma poi se ne usano pochi, quei due o tre su cui ci si trova bene ma, pur di essere alla moda, dobbiamo essere iscritti in 100 posti. La moda non prevede di elogiare, bensì di dividere l’opinione pubblica circa brani di Sanremo quali quelli di Cristicchi che, però, ci insegna che la sofferenza c’è e va vissuta, non dimenticata. Va ridimensionata con qualcuno accanto che ti dà amore, affetto, comprensione.
Io non seguo Sanremo, ascolto solo le canzoni. Mi sembra che quella di Cristicchi sia una delle migliori. Anche cristianamente dà dei buoni valori: rispetto della madre anche se è malata, occuparsi dei bisognosi con affetto, accettare la vita nelle sue fasi di inizio e di fine.
Ultimamente, molti artisti raccontano nelle proprie canzoni un dolore vissuto. Se persino loro che sono famosi hanno bisogno di gridare al mondo la propria sofferenza, forse c’è proprio da ragionare sulla crisi dei valori umani. Qui non c’entra più il politicamente corretto, il pesante, il woke…
Sembra solo che ci si voglia chiudere nel proprio mondo col proprio cellulare per cercare una felicità irraggiungibile. Ci si vuole dimenticate degli altri nei fatti ed includerli a parole. Like, share, dislike, commenti, tag… Tutte cose che creano finti legami e barriere sociali perché non puoi avere la certezza di cosa vogliano davvero dire. Se non si condivide, nel bene e nel male, l’esperienza delle vita, se si escludono gli altri, saremo sempre più infelici. Vorremmo affetto per noi, ma noi diamo qualcosa agli altri? Cosa diamo? Siamo sicuri di poter dare anche semplicemente la parola giusta al momento giusto?
Una frase che mi ha sempre colpita era quella di cinque anni fa detta da papa Francesco: ‘Nessuno si salva da solo’. La società e molte sfere del coaching ( costa ammetterlo per chi lo ha studiato sperando di usarlo per il bene comune) puntano solo all’autorealizzazione, autoguarigione. Questo esclude gli altri. Ti viene detto che ti puoi salvare da solo, ma se non ti senti parte di qualcosa quel prossimo che può aiutare, ma anche essere salvato, non puoi. Siamo creati per essere collegati, altrimenti saremmo tutti onnipotenti, dei piccoli dèi capaci di autosostenersi. È ben chiaro che così non è.
Quindi cosa possiamo fare? Qual è la verità? Il mondo di oggi è frenetico, ognuno è per sé, ogni gruppo, ogni famiglia, ogni rapporto sul lavoro. C’è utilitarismo, tutti parlano, ma quasi più nessuno ascolta. Gli sfoghi non sono sempre ben accetti e non è giusto che la gente debba pagarsi uno psicologo solo per sentirsi ascoltata.
La gente segue l’onda dicendo di non volere più certe cose, ma poi le desidera. Maggari vorrebbe un mondo migliore, questo sì. Preferirebbe non avere brutte notizie al TG tutti i giorni, ma ciò che può smuovere l’opinione pubblica creando unità tra i popoli e non differenze è ben accetto. Difficoltà famigliari, bullismo, vecchi e nuovi tabù, inclusività, storie vere finite bene- anche se tristi- e altre conclusesi male per il protagonista buono che, però, viene ricordato come eroe saranno ricercate continuamente per dare forza all’anima e sentirsi meno soli.
Sì , la solitudine è un male che colpisce tutte le fasce della popolazione da quando, persino i bambini, hanno in mano il cellulare dalla più tenera età. Questo mondo svuota le persone che si lanciano in queste cose(programmi, libri, canzoni…) per provare empatia con chi ha subito cose simili. Ricordiamoci che la realtà supera la fantasia e che spesso, la influenza. Molti racconti che seguiamo sono sicuramente ispirati a qualcosa di reale, anche se non per forza deve far parte dell’esperienza diretta dei creatori del prodotto.
Dunque basta con le polemiche su ciò che è triste, woke vero o politicamente corretto, leggero e pesante. Cerchiamo di farci una nostra idea e di non seguire l’onda. Tutto serve, sia il pesante sia il leggero. Solo di cultura si muore di noia, ma vivendo nel paese dei balocchi si diventa Lucignolo. A noi la scelta se essere Pinocchio, che alla fine trova la salvezza seguendo sia gioia che serietà , o l’asinello che sappiamo quale fine abbia fatto.
La sofferenza, il dolore, la morte come affrontarle da cristiani

I temi del dolore, della malattia e della morte sono racchiusi in un libro di don Francesco Scanziani, docente di antropologia teologia ed escatologia alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e della psicologa Cecilia Pirrone, docente di psicologia dello sviluppo alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, dal titolo ‘Vorrei starti vicino’, presentato al monastero ‘Santa Teresa’ delle Carmelitane Scalze di Tolentino nell’incontro ‘Accompagnare bambini ed adolescenti di fronte a sofferenza, malattia e morte’.
I relatori si sono interrogati su ‘cosa genera la sofferenza in un bambino, in un ragazzo o in un adolescente? Come stare loro accanto nella dura stagione della malattia? E’ possibile affrontare la morte, con parole di speranza?’ Domande essenziali per gli adulti, che diventano fondamentali nella vita di un bambino e bambina ed essenziali per ragazze e ragazzi,per cui i relatori hanno messo in evidenza che a nessuno ‘piace’ soffrire: “Nemmeno a Dio piace la sofferenza. Gesù sapeva piangere e arrabbiarsi, si prendeva cura dei malati e ha resuscitato Lazzaro. Egli stesso è passato attraverso la sofferenza e al morte, vincendola con la Resurrezione”.
Al termine dell’incontro abbiamo incontrato don Francesco Scanziani partendo dal messaggio della XXXIII Giornata mondiale del Malato: “Il messaggio di questa Giornata mondiale del Malato si colloca all’interno dell’anno giubilare, che ha come motto: ‘Pellegrini di speranza’. La stretta relazione tra malattia e speranza viene evocata nella riflessione dell’Apostolo ai Romani, rileggendo la condizione umana alla luce dell’evento pasquale di Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto. Il tema di questa Giornata ripropone a tutti i credenti la forza della speranza nel mistero pasquale di Gesù Cristo. In esso si coglie la pienezza dell’annuncio cristiano. Il tempo presente è caratterizzato dalle prove e dalle tribolazioni che segnano l’esistenza dei singoli e delle comunità. Il rischio più grande è rappresentato dalla mistificazione operata dei ‘falsi profeti’ e dalle loro illusorie speranze”.
Cosa significa ‘avere il limite’ come orizzonte cristiano?
“Innanzitutto significa riconoscere anzitutto quello che noi siamo: la nostra identità e la nostra natura. Ma non guardarle con uno sguardo pessimistico. Abbiamo voluto osservarla con quella provocazione di Baricco in ‘Oceano’, in cui dice che la natura ha le sue perfezioni proprio perché è limitata e fa il paragone di dove finiscono i giorni e le notti: lì esplode lo spettacolo, l’alba ed il tramonto. Allora, conoscere i limiti vuol dire scoprire qualcosa di profondo di noi stessi. Nella visione cristiana la notizia più sconvolgente è quella di Dio che è infinito si è incarnato, cioè si è fatto limitato. Il finito è un luogo dove Dio si è rivelato”.
Perché la società contemporanea evita temi come la sofferenza e il dolore?
“Rimuove il confronto con questi argomenti perché li ostenta; in questo modo la nostra cultura, che si vanta di aver superato tabù ancestrali, ne ha creato uno insuperabile. La paura della morte. Succede sempre di più anche in famiglia, certamente nel sincero desiderio di proteggere i figli. Il rischio, però, è che i figli si troveranno soli e impreparati, quando sofferenza e morte busseranno inevitabilmente alla loro porta”.
Che consigli offrite a tal proposito ai genitori, che debbono affrontare tali temi con i figli?
“La sofferenza fa parte della vita, la morte è l’altra faccia della vita. La nostra cultura esorcizza e allontana questi temi, poiché sembrano il fallimento della medicina o della tecnologia. E’ importante educare al tema del limite. E’ un discorso realista, non pessimista. Occorre avvicinarsi a chi soffre entrando in colloquio diretto con lui, oppure accompagnando chi è più piccolo per avvicinarlo gradualmente alla malattia con verità rassicuranti”.
Per quale motivo la Chiesa dedica una giornata al malato?
“La Chiesa mette al centro la persona. La malattia è un tratto della vita ed è l’occasione per dire che ognuno è persona anche nella malattia. Per valorizzare l’atteggiamento di Gesù, che ha dedicato tantissima parte della sua vita a stare accanto, ad ascoltare, ad entrare in contatto con il malato ed addirittura nel capitolo 25 dell’evangelista Matteo si è addirittura identificato con coloro che avevano fame e sete, con gli ammalati ed i carcerati. Più vicino di così si muore, verrebbe da dire. Gesù ha fatto anche quello: è morto per noi”.
Come si pone la fede di fronte alle pagine dolorose della vita?
“Il cristiano non ha soluzioni da offrire; tanto meno parole consolanti che pretendono di rispondere ai ‘perché’ drammatici della vita. Ha solo una storia da narrare quella di Gesù. Come scriveva lo scrittore francese Paul Claudel: Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza”.
Esiste un nesso tra il significato della morte ed il significato della vita?
“La prima cosa è domandarsi se hanno un senso il male, la sofferenza o la morte. Forse dovremmo accettare la durezza di esperienze che non hanno un senso. La Pasqua ci aiuta a capire che il male è il nemico dell’uomo e di Dio. Gesù è venuto nel mondo per combattere questo male, riempiendolo del Suo senso, cioè l’Amore. Nella Pasqua scopriamo la rivelazione di Dio ed il senso della vita”.
Quindi è più ‘facile’ rimettere i peccati o dire ‘alzati e cammina’?
“Solo Gesù può fare questo e soprattutto ci ha mostrato che Lui non ‘lega’ la malattia al peccato, ma mostra che sono tutte e due ‘nemici’ dell’uomo e di Dio. Quello che ci consola è che Dio è sempre in lotta contro il male in ogni sua forma: il peccato, la sofferenza e la morte”.
Quale è la ‘genesi di questo libro?
“Questo libro è nato dalla conoscenza e dalla stima reciproca maturata nell’esperienza parrocchiale e affinata dal lavoro comune nell’equipe dei coniugi Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini, pedagogisti lecchesi, noti per un approccio sistematico, ma anche dalla ricchezza di uno sguardo che unisse il taglia femminile a quello maschile, lo sguardo di una donna, moglie e madre confrontato con quello di un prete, la competenza psicologica e quella teologica. E’ uno stile che aiuta entrambi a crescere, arricchente per le proprie ricerche, ma anche uno stimolante stile di chiesa. Questo libro è nata dalle domande, spesso tacitate delle persone che incontriamo di fronte al dolore della morte e al dramma della sofferenza, accentuate in modo unico con l’esplosione della pandemia. Il desiderio non è dare soluzioni, ma accompagnare con rispetto le persone”.
(Tratto da Aci Stampa)