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Dal Giubileo della comunicazione un invito a sanare le divisioni

“Volevo soltanto dire una parola sulla comunicazione. Comunicare è uscire un po’ da sé stessi per dare del mio all’altro. E la comunicazione non solo è l’uscita, ma anche l’incontro con l’altro. Saper comunicare è una grande saggezza, una grande saggezza!.. Comunicare quello che fa Dio con il Figlio, e la comunicazione di Dio con il Figlio e lo Spirito Santo. Comunicare una cosa divina. Grazie di quello che voi fate, grazie tante! Sono contento”: con queste brevi parole papa Francesco ha accolto i giornalisti ed i comunicatori in occasione del Giubileo della Comunicazione, che ha visto la partecipazione della giornalista filippina, che è stato Premio Nobel per la pace, Maria Ress, e dello scrittore americano Colum McCann, autore di ‘Apeirogon’, che ha sottolineato che ‘il mondo è fatto dalle storie degli altri’, raccontato attraverso l’epistolario tra Sigmund Freud ed Albert Einstein:
“Stiamo vivendo un’epoca straordinariamente umana e al contempo profondamente disumana. Da un lato, abbiamo raggiunto traguardi spettacolari nella scienza, nella medicina, nell’arte e nella tecnologia. Siamo in grado di connetterci istantaneamente gli uni con gli altri, di cogliere le sfumature delle vite altrui anche a grandi distanze. I nostri telefoni funzionano, i nostri interruttori rispondono, dai nostri rubinetti scorre l’acqua. I nostri satelliti orbitano. Le nostre medicine curano. Le macchine della nostra esistenza pulsano a un ritmo ininterrotto”.
A distanza di 100 anni da questo epistolario le domande fondamentali restano le stesse: “Come possiamo prevenire le guerre che minacciano di annientarci? Come possiamo contrastare gli effetti devastanti del cambiamento climatico? Come possiamo gestire le immense pressioni geografiche e sociali legate alla migrazione? Come possiamo affrontare le complesse questioni di identità e appartenenza? Come possiamo imparare a riconoscerci e comprenderci l’un l’altro, nonostante le crescenti divisioni? E, soprattutto, come possiamo mettere al servizio della comunicazione e della comprensione reciproca la nostra indiscutibile genialità: la tecnologia, la medicina, l’intelligenza artificiale, la fede?”
A tali domande lo scrittore ha invitato a rispondere con le storie: “Se il mondo è fatto di molecole e atomi, è anche fatto di storie. La distanza più breve tra noi non si misura in millimetri né in centimetri: è una storia. E’ attraverso le storie che ci connettiamo davvero. Le nostre vite si intrecciano. Le nostre idee risuonano. Ci alimentiamo reciprocamente. Creiamo nuova energia. I quark delle nostre esperienze si combinano fra loro per formare nuovi mattoni della realtà. Lanciamo una rete che abbraccia una comprensione molto più ampia, dando al mondo una struttura più profonda”.
Quindi le storie possono salvare solo se siamo in grado di narrarle e di ascoltarle: “La triste e brutale verità è che, nel mondo di oggi, un numero sempre maggiore di noi può farlo. L’essenza del nostro attuale dilemma non risiede tanto nel silenzio, quanto nell’atto di zittire. Quando ci rifiutiamo di ascoltare le storie degli altri o, più dolorosamente, quando impediamo loro di raccontarle, o ancora peggio, quando cancelliamo del tutto quelle loro storie, il mondo si riduce a uno spettacolo di meschinità. Il nostro rifiuto di andare oltre noi stessi ̶o almeno oltre chi non ci somiglia, chi non parla come noi, chi non vota come noi ̶è il nucleo della nostra possibile rovina”.
La chiusura alla narrazione è pericolosa: “Questa chiusura pericolosa ha il potere di annientarci. Come un’arteria ostruita, blocca il flusso vitale della nostra umanità. Il cuore si ferma. Non ci resta che confinarci nella prigione del nostro ego. Non riusciamo più ad amare il prossimo, perché abbiamo ridotto il concetto di ‘prossimo’ alla nostra immagine riflessa. E quando non vediamo altro prossimo che noi stessi, perdiamo ogni significato che vada oltre il nostro sguardo solipsistico”.
Ecco il punto centrale della narrazione, per cui senza essa gli altri si dissolvono: “Senza una storia, la presenza e persino l’esistenza degli altri si dissolvono. Questo accade in modo evidente in molti luoghi: Ucraina, Gaza, Sudan. Ma accade anche vicino a noi, nel profondo dei nostri cuori. L’annientamento delle storie di coloro che percepiamo come nemici (che in realtà non sono altro che il nostro prossimo) rappresenta una delle armi più insidiose al mondo. La nostra incapacità di accedere alle storie degli altri, ricche di sfumature e di significato, unita al rifiuto di creare spazi di ascolto e di dialogo, costituisce uno dei pericoli più gravi della nostra epoca”.
Il racconto è un modo di salvezza: “Anche il racconto di storie possiede qualità emergenti e, in questi tempi turbolenti, condividere le nostre storie e ascoltare quelle degli altri, potrebbe essere una delle poche cose in grado di salvarci. Raccontare storie è un invito all’azione. Ascoltare storie è una forma di preghiera”.
E’ l’esempio di ‘Narrative4’, network in cui si raccontano i cambiamenti: “In Narrative 4, un’organizzazione globale no-profit che dà ai giovani il potere di creare cambiamenti attraverso il racconto e l’ascolto delle storie, abbiamo scoperto una formula semplice ma potente per avviare una trasformazione. Tu racconti la mia storia, io racconto la tua. In prima persona. Faccia a faccia.
Non una storia didattica, ma una storia profondamente personale. Non qualcosa per dominare in una discussione, ma qualcosa capace di scuotere l’anima. Una parabola, se volete. Qualcosa che accede alla verità senza bisogno di fare dichiarazioni. Qualcosa che è umile. Qualcosa che abbassa la testa”.
Partendo dal suo racconto, ‘Apeirogon’, in cui narra la storia di amicizia tra un padre israeliano ed un padre palestinese, l’autore sprona a raccontare storie: “Viviamo tempi pericolosi. Non possiamo permetterci di ignorare le esperienze degli altri. Raccontare e ascoltare storie salverà il mondo? Forse sì, forse no… ma sicuramente offrirà, se non altro, uno spiraglio di luce e di comprensione. E dove c’è uno spiraglio di luce, c’è la possibilità che se ne presentino molti altri, agendo e collaborando insieme, fino a quando almeno una parte delle tenebre non verrà squarciata”.
Tali racconti offrono spunti per la reciproca comprensione: “Alla base, anche il solo fatto di essere interessati gli uni agli altri è già un trionfo. Immaginate quanti trionfi si verificano quando impariamo a comprenderci, a piacerci o, magari, anche ad amarci. Persone ordinarie, con le nostre storie straordinarie, e la nostra capacità di entrare in connessione. La distanza più breve tra il nemico e il prossimo è una storia”.
Attraverso il racconto di storie è possibile riconnettere il mondo e ciò non è sentimentalismo: “La distanza più breve tra il nemico e il prossimo è una storia. I cinici diranno che stiamo sbagliando. Che siamo degli ingenui sentimentali. Ma è davvero ingenuo e sentimentale rifiutare la speranza? I cinici sono intrappolati nelle loro convinzioni. Non sono disposti a intraprendere un cammino altrove. Restano immobili. Chiudono le tende. Spengono il GPS della loro immaginazione”.
Per un vero cambiamento il compito consiste nell’ascoltare le loro storie per approfondire la conoscenza: “Significa forse che dovremmo isolare i cinici e lasciarli dove sono? No, certamente no. Al contrario: dobbiamo abbracciarli con fiducia, ascoltarli, chinare la testa. Condividere le nostre storie e ascoltare le loro. Trovare un terreno comune. E poi andare avanti, con la speranza di aver lasciato dietro di noi un’impronta di guarigione.
In questa era esponenziale, mentre la frattura continua ad ampliarsi, l’essenza stessa della riparazione risiede nella necessità di imparare a conoscerci. E per conoscerci davvero, dobbiamo ascoltarci e comunicare. E dopo aver ascoltato, dobbiamo cercare di comprendere. Solo allora, con rispetto, gioia e coraggio, potremo cominciare a innescare il cambiamento”.
Mentre il Premio Nobel, Maria Ress, ha affermato l’importanza di tale momento giubilare: “Questo arriva proprio al momento giusto, mentre stiamo vivendo una profonda trasformazione del nostro mondo. L’ultima volta che è successo qualcosa di simile a ciò che stiamo vivendo oggi, quando le nuove tecnologie hanno permesso l’ascesa del fascismo, è stato 80 anni fa.
E’ stato più o meno l’ultima volta che un giornalista ha ricevuto il premio Nobel per la pace, tranne per il fatto che Carl von Ossietzky non è stato fortunato come me. Languiva in una prigione nazista e non poteva accettare il premio. Da molti anni ormai, ho lanciato l’allarme: proprio come a Hiroshima, una bomba atomica è esplosa nel nostro ecosistema informativo”.
Ed ha raccontato la sua storia: “Sono stato arrestato e per la prima volta ho pagato la cauzione, non posso dimenticarlo, perché è stato il regalo che il mio governo mi ha fatto per San Valentino nel 2019. In poco più di un anno, il mio governo ha presentato 10 mandati di arresto contro di me. Ho iniziato a fare un flusso di lavoro per pagare la cauzione. Non sapevo cosa sarebbe successo, ma Rappler e io abbiamo solo cercato di fare ciò che era giusto.
Ed ora 8 anni, quasi un decennio dopo, quelle 10 accuse penali sono scese a 2. Due, ancora due. Per essere qui di fronte a voi oggi, devo chiedere alla Corte Suprema delle Filippine l’autorizzazione a viaggiare. Quindi, perdi i tuoi diritti. La parte triste? Scherzo sempre dicendo che le Filippine sono passate dall’inferno al purgatorio, ma la parte triste è che vedo quello che è successo a noi nelle Filippine accadere in paesi molto più sviluppati in tutto il mondo”.
Per questo ha parlato di un ‘capitalismo della sorveglianza’, che consiste in un progetto per creare profitto: “Il capitalismo della sorveglianza, quel modello di business, è costruito su un tradimento fondamentale della dignità umana, dove la privacy dei dati è diventata un mito e l’intelligenza artificiale e gli algoritmi ci hanno clonato e manipolato.
Tre cose: ha creato camere di risonanza che esacerbano i pregiudizi esistenti; ha dato priorità al conflitto rispetto alla comprensione; ha monetizzato l’attenzione umana, ognuno di noi, a scapito della coesione sociale. Questo non è un incidente. E’ un progetto deliberato, un’architettura per il profitto che porta centinaia di miliardi di dollari all’anno a queste aziende”.
E’ una denuncia contro questa guerra dell’informazione: “A livello globale, ci sono due principali linee di frattura della società aperte, indipendentemente dal paese o dalla cultura. Sono genere e razza, e gli attacchi sono spesso alimentati dalla religione. Il sessismo che si trasforma in misoginia; e il razzismo che trova la sua strada in costituzioni come quella ungherese, dove è chiamato ‘teoria della sostituzione bianca’. Lo senti nelle notizie come immigrazione o inflazione, ma se scavi più a fondo vedrai genere e razza.
Ed ha sottolineato che la tecnologia alimenta le fake news: “Poiché siamo in Vaticano, voglio sottolineare tre cose: primo, la tecnologia premia le bugie. Pensateci. La prima volta che ho incontrato papa Francesco, gli ho detto: questo è contro i Dieci Comandamenti; gli uomini che controllano questa tecnologia trasformativa esercitano un potere divino, ma non sono Dio. Sono solo uomini, la cui arroganza, mancanza di saggezza e umiltà sta portando il mondo su un sentiero oscuro. Sempre più spesso, secondo le loro stesse definizioni e parole, il loro potere incontrollato e incontrollabile assomiglia a una setta”.
Ha concluso l’intervento con una frase di Thomas Stearns Eliot, affermando che è possibile rimarginare le divisioni: “C’è questa citazione di T. S. Eliot che adoro sul ‘momento presente del passato’. Questo momento in cui viviamo. Dico sempre ai Rappler: questo momento, vogliamo fare la cosa giusta, perché tra un decennio, quando guarderemo indietro, vorremo dire di aver fatto tutto il possibile…
In questo momento presente del nostro passato condiviso, abbiamo una scelta, e creerà il nostro futuro tanto quanto cambierà il modo in cui guardiamo al nostro passato. Possiamo permettere alle linee di frattura nella nostra società di rompersi. Oppure possiamo lavorare per sanare queste crescenti divisioni. Perché è questo. Questo momento è importante. Ciò che scegli di fare è importante… Immaginate se lavorassimo tutti insieme. Potremmo semplicemente arginare la marea, impedire che la diga crolli e guarire il nostro mondo”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: la comunicazione cattolica è uno spazio aperto a tutti

“E’ bello vedervi qui vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laiche e laici, chiamati a comunicare la vita della Chiesa e uno sguardo cristiano sul mondo. Comunicare questo sguardo cristiano è bello. Ci incontriamo oggi, dopo aver celebrato il Giubileo del Mondo della Comunicazione, per fare insieme una verifica e anche un esame di coscienza. Fermiamoci ancora a riflettere sul modo concreto in cui comunichiamo, animati dalle fede che, come è scritto nella Lettera agli Ebrei, è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”: il giorno successivo al giubileo della comunicazione oggi papa Francesco ha ricevuto in udienza ha salutato i vescovi, presidenti delle commissioni di comunicazione, ed i direttori nazionali degli uffici di comunicazione, che nei giorni scorsi hanno partecipato all’incontro promosso dal dicastero per la comunicazione.
Durante l’incontro il papa ha posto alcune domande riguardanti la trasmissione della speranza: “Comunicazione cristiana è mostrare che il Regno di Dio è vicino: qui, ora, ed è come un miracolo che può essere vissuto da ogni persona, da ogni popolo. Un miracolo che va raccontato offrendo le chiavi di lettura per guardare oltre il banale, oltre il male, oltre i pregiudizi, oltre gli stereotipi, oltre sé stessi. Il Regno di Dio è oltre noi. Il Regno di Dio viene anche attraverso la nostra imperfezione, è bello questo. Il Regno di Dio viene nell’attenzione che riserviamo agli altri, nella cura attenta che mettiamo nel leggere la realtà. Viene nella capacità di vedere e seminare una speranza di bene. E di sconfiggere così il fanatismo disperato”.
Come nei giorni precedenti, anche in questo incontro papa Francesco ha invitato i presenti a raccontare storie di ‘bene’ attraverso un lavoro che coinvolga tutti: “Questo, che per voi è un servizio istituzionale, è anche vocazione di ogni cristiano, di ogni battezzato. Ogni cristiano è chiamato a vedere e raccontare le storie di bene che un cattivo giornalismo pretende di cancellare dando spazio solo al male. Il male esiste, non va nascosto, ma deve smuovere, generare interrogativi e risposte. Per questo, il vostro compito è grande e chiede di uscire da sé stessi, di fare un lavoro ‘sinfonico’, coinvolgendo tutti, valorizzando anziani e giovani, donne e uomini; con ogni linguaggio, con la parola, l’arte, la musica, la pittura, le immagini. Tutti siamo chiamati a verificare come e che cosa comunichiamo. Comunicare, comunicare sempre”.
La sfida è quella di costruire un ‘modello diverso’ della comunicazione: “Sorelle, fratelli, la sfida è grande. Vi incoraggio pertanto a rafforzare la sinergia fra di voi, a livello continentale e a livello universale. A costruire un modello diverso di comunicazione, diverso per lo spirito, per la creatività, per la forza poetica che viene dal Vangelo e che è inesauribile. Comunicare, sempre è originale. Quando noi comunichiamo, noi siamo creatori di linguaggi, di ponti. Siamo noi i creatori. Una comunicazione che trasmette armonia e che è alternativa concreta alle nuove torri di Babele. Pensate un po’ su questo. Le nuove torri di Babele: tutti parlano e non si capiscono. Pensate a questa simbologia”.
E per tale costruzione il papa ha evidenziato due parole, quali rete ed insieme: “Solo insieme possiamo comunicare la bellezza che abbiamo incontrato: non perché siamo abili, non perché abbiamo più risorse, ma perché ci amiamo gli uni gli altri. Da questo ci viene la forza di amare anche i nostri nemici, di coinvolgere anche chi ha sbagliato, di unire ciò che è diviso, di non disperare. E di seminare speranza”.
L’invito è stato quello di raccontare la speranza, che però non significa affatto ottimismo: “Questo non dimenticate: seminare speranza. Che non è lo stesso di seminare ottimismo, no, per niente. Seminare speranza. Comunicare, per noi, non è una tattica, non è una tecnica. Non è ripetere frasi fatte o slogan e neanche limitarsi a scrivere comunicati stampa. Comunicare è un atto di amore. Solo un atto di amore gratuito tesse reti di bene. Ma le reti vanno curate, riparate, ogni giorno. Con pazienza e con fede”.
Quindi la speranza ha bisogno di una rete: “Rete è la seconda parola su cui vi invito a riflettere. Perché, in realtà, ne abbiamo smarrito la memoria, come se fosse una parola legata alla civiltà digitale. Ed invece è una parola antica. Ci ricorda, prima di quelle sociali, le reti dei pescatori e l’invito di Gesù a Pietro a diventare pescatore di uomini. Fare rete dunque è mettere in rete capacità, conoscenze, contributi, per poter informare in maniera adeguata e così essere tutti salvati dal mare della disperazione e della disinformazione. Questo è già un messaggio, è già di per sé una prima testimonianza”.
Quindi il compito è quello di costruire le reti della speranza, anche attraverso l’umorismo: “Il miracolo più grande fatto da Gesù per Simone e gli altri pescatori delusi e stanchi non è tanto quella rete piena di pesci, quanto l’averli aiutati a non essere preda della delusione e dello scoraggiamento di fronte alle sconfitte. Per favore, non cadere in quella tristezza interiore. Non perdere il senso dell’umorismo che è saggezza, saggezza di tutti i giorni”.
E la ‘rete’ della comunicazione cattolica è uno spazio aperto a tutti: “Sorelle, fratelli, la nostra rete è per tutti. Per tutti! La comunicazione cattolica non è qualcosa di separato, non è solo per i cattolici. Non è un recinto dove rinchiudersi, una setta per parlare fra noi, no! La comunicazione cattolica è lo spazio aperto di una testimonianza che sa ascoltare e intercettare i segni del Regno. E’ il luogo accogliente di relazioni vere… Dobbiamo fare uscire il Signore (bussa alla porta per uscire) e non averlo un po’ ‘schiavizzato’ per i nostri servizi. I nostri uffici, le relazioni fra noi, la nostra rete, sono proprio di una Chiesa in uscita?”
(Foto: Santa Sede)
Pietro Morello si racconta tra arte e volontariato

Nello scorso dicembre a Tolentino (residenza di allestimento), in provincia di Macerata, Pietro Morello ha debuttato a teatro con ‘Non è un concerto’, per la prima volta sul palcoscenico in uno spettacolo pensato per raccontare esperienze di vita vissute tra note musicali, missioni umanitarie e attività negli ospedali con i bambini, tutte accomunate da un unico fil rouge: la felicità. Prodotto da Compagnia della Rancia e Midriasi, con la regia di Mauro Simone, lo spettacolo è stato rappresentato anche al teatro Alfieri di Torino, città natale di Pietro, da dove ha proseguito nei teatri di Roma, Firenze, Bologna e Milano…
Nato nel 1999 a Torino, Pietro Morello è un artista e creator italiano e con il suo motto ‘la felicità è una scelta’, a soli 24 anni conquista ed ispira ogni giorno milioni di persone che lo seguono sui social (3.700.00 follower su TikTok, 410k su IG, 390K su YouTube) e che si sono appassionate alle sue esperienze in qualità di operatore umanitario in giro per il mondo, che ha scelto di dedicare la sua vita alla cura e al sostegno dei bambini che si trovano in difficoltà nelle zone di guerra.
Il suo percorso inizia nel 2020, quando inizia a condividere sui social i suoi contenuti che spaziano dalla musica alle attività di volontariato. Le note per lui diventano un mezzo, un’espressione per trasmettere il valore dei diritti umani. Nel 2021 è selezionato come presentatore del pre-show di X Factor per TikTok, conducendo gli spettatori dietro le quinte dello show canoro più famoso del mondo in diretta sul profilo TikTok ufficiale del programma.
Ad agosto dello stesso anno si reca a Nairobi, nella discarica più grande dell’Africa, per dedicarsi alle famiglie e ai bambini che vivono nello slum di Korogocho. Successivamente è nominato dalla città di Torino ‘Ambasciatore di Torino nel mondo’ ed insignito del prestigioso premio per la Pace e i Diritti Umani ‘Giorgio La Pira per la pace’. Inoltre crea all’interno dell’ospedale Regina Margherita di Torino uno spazio settimanale in cui porta la musica all’interno del reparto oncologico per i bambini malati ed i loro genitori.
Nel 2022 pubblica il libro ‘Io ho un piano’, dove racconta il suo percorso come operatore umanitario ed è riconfermato come presentatore principale del pre-show di X Factor sul canale ufficiale del programma su TikTok. Inoltre in occasione dell’Eurovision Song Contest 2022 di Torino è ‘world ambassador’ per TikTok (selezionato insieme ad altri 19 in tutto il mondo), partecipando come host alle puntate pensate in occasione del festival.
Perché non è un concerto?
“Non è un concerto, perché è una serie di storie non connesse tra loro; storie di bambini incontrati nelle zone di guerra o negli ospedali. Il corso di musicoterapia mi ha portato a raccontare queste storie sul palco. Anche sul palco sono solo un ambasciatore: riporto le storie che mi hanno raccontato i bambini, le loro risposte alle grandi questioni, quelle che io non avrei saputo dare. Io suono al pianoforte e, vicino a me, ci sono anche una violoncellista e un fisarmonicista.
Ci sono poi video per immergere le persone nel racconto: le luci delle sale operatorie, i suoni delle sirene ed il silenzio della paura. Perché in guerra non ci sono eroi: ti tremano le ginocchia, sei terrorizzato. Ma io sento che devo andare là. Una volta, in Congo, ero stato ferito alla schiena, non avevo disinfettanti né un telefono che prendesse la linea. Ero disperato e ho chiesto a José, il bimbo che era con me, come facesse lui quando aveva paura: io penso, penso, penso così forte finché non penso ad altro. Ti va di giocare a palla?”.
Chi è un creator?
“Un creator è colui che fa contenuti ed in qualche modo racconta esperienze. Ci sono molti livelli nel mondo dei creator: chi lo fa nella musica e chi nei videogiochi”.
I social network possono essere un mezzo di comunicazione?
“La mia speranza è proprio che i miei followers vadano oltre: il fine ultimo è far sì che i valori che cerco di passare, arrivino al cuore delle persone. Sarebbe fondamentale far capire alle persone che strumenti abbiamo a disposizione: i social sono una macchina straordinaria, una macchina infernale che può essere cambiata in un mezzo di trasmissione culturale, un nuovo divulgatore, utile a cambiare la società attuale. Non è facile ma se lo capissero tutti sarebbe la rivoluzione perfetta. Io voglio regalare l’arte vera, io faccio arte, vorrei che la gente tornasse ad apprezzarla per quello che è, cancellando i contorni da show da milioni di euro e via dicendo”.
A giovani che sognano di fare l’influencer cosa direbbe?
“Che stanno sbagliando sogno, è un bel lavoro ma non può essere un fine. Se lo è, è malato, se arrivi a 100.000 follower ne vuoi 1.000.000, poi 4.000.000 ed avanti all’infinito diventando deleterio per salute e felicità. Direi di avere invece voglia di comunicare qualcosa e usare i social come mezzo e non come scopo. Se no ti schianti”.
Quale ‘piano’ ha Pietro Morello?
“Il piano è quello di raccontare a più persone possibili ciò che possa portare ad essere felici: cercare di essere felice per raccontarlo alle persone. Vivendo in un contesto famigliare molto propositivo ho sempre avuto voglia di aiutare, anche da bambino volevo donare a chi ne aveva bisogno, sia dal punto di vista della cultura che delle cose di primaria necessità, ho respirato sempre quest’aria, diciamo che è stata una conseguenza del mio background. Inoltre avevo voglia di partire, di cambiare, di avventura, di conoscenza; ho fatto la prima missione al confine tra Romania e Ucraina, una volta lì ho capito di volerlo fare spesso, sempre più spesso. Adesso capisco che tutto quello che di bello abbiamo nella nostra vita è merito nostro, non dobbiamo perderci nemmeno per un secondo.”.
Per quale motivo si è recato a Korogocho?
“E’ uno dei primi posti raggiunti nell’Africa centrale per fare aiuto umanitario. In particolare io faccio il volontario con l’associazione ‘Una mano per un sorriso’, con la quale difendiamo i diritti per l’infanzia. Da anni vado in Kenya, a Korogocho, uno slum della periferia di Nairobi: lì c’è la discarica più grande dell’Est Africa ed i bambini ci vivono dentro, cercando qualcosa da rivendere per pochi dollari al mese. Siamo molto sotto le condizioni igieniche necessarie alla sopravvivenza e, affiancando il lavoro di ‘Una mano per un sorriso’, una onlus italiana che sviluppa progetti umanitari rivolti alla difesa dei diritti dell’infanzia, cerco di tirar fuori questi bambini da quel contesto aberrante, coinvolgendoli in un percorso di scolarizzazione.
E funziona: i bimbi riescono a emergere. Joseph, per esempio, quando l’abbiamo trovato nella discarica aveva già 9-10 anni: non parlava, se non una lingua tutta sua, che sussurrava appena. Oggi, dopo solo due anni, Joseph canta, è molto più sicuro di sé, sa leggere e scrivere. Una gioia indescrivibile. Poi vado spesso in Congo, dove le problematiche sono altre: quella è una zona di guerra e lì, con l’associazione ‘Okapia’, sto seguendo un progetto legato alle miniere, veri tunnel della disperazione, dove i bambini vanno a grattare cercando i rimasugli d’oro di cui una volta le miniere erano ricche. Entrare in quelle gallerie sotterranee è stato straziante ed il mondo non può permettere che le persone stiano lì a bivaccare e a rischiare la loro vita. Non si può far finta di non sapere”.
Per quale motivo un’artista fa il volontariato?
“In realtà io ho iniziato prima di fare l’artista, perché sono un operatore umanitario eppoi mi si è aperto il mondo dei social. C’è una cosa che io dico spesso e che è diventato il mio slogan di vita: fate volontariato! Fare volontariato significa concedersi una formazione, che spesso è anche gratuita, ed esercitare quella formazione per capire dove vuoi andare nella vita, cosa vuoi essere un domani. Io ho provato a farlo e mi sono accorto che mi fa stare benissimo e che questo è ciò che voglio fare un domani, anche se magari non avrò un lavoro vero e proprio con i bambini, ma cercherò il modo per dedicarmi a loro. Il volontariato ti da un indirizzo di vita. Tutte le persone, senza nessun genere di distinzione, possono fare volontariato in Italia e ti permette di scoprire nuove cose, che altrimenti ti precludi, quindi fate volontariato, ovunque e in qualunque ambito”.
Quale messaggio di bellezza può lanciare la musica?
“La musica è un veicolo con cui poter parlare con se stessi e con gli altri e può aiutarci ad instaurare un buon rapporto”.
(Foto: Compagnia della Rancia)