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Papa Francesco invita alla comunione tra Chiese

In mattinata papa Francesco ha ricevuto in udienza il personale sanitario degli ospedali di Catanzaro, Cosenza, Crotone e Vibo Valentia, a cui ah consegnato il discorso a motivo di problemi salutari, nel quale ha ‘esaltato’ la professione delle ostetriche e dei ginecologi: “In effetti, in Italia, e anche in altri Paesi, sembra si sia perso l’entusiasmo per la maternità e la paternità; le si guarda come fonte di difficoltà e di problemi, più che come lo spalancarsi di un nuovo orizzonte di creatività e di felicità”.

E’ stato un appello ad invertire la ‘rotta’ della denatalità, soffermandosi su tre parole: “E questo dipende molto dal contesto sociale e culturale. Per questo voi, come Ordine professionale, vi siete dati un obiettivo programmatico: invertire la tendenza della denatalità. Bravi! Mi congratulo con voi. E allora vorrei riflettere con voi su tre ambiti complementari e interdipendenti della vostra vita e della vostra missione: la professionalità, la sensibilità umana e, per chi crede, la preghiera”.

Per il papa, innanzitutto, è necessario essere professionali: “Il continuo miglioramento delle competenze è parte non solo del vostro codice deontologico, ma anche di un cammino di santità laicale. La competenza è lo strumento con cui potete esercitare al meglio la carità che vi è affidata, sia nell’accompagnamento ordinario delle future mamme, sia affrontando situazioni critiche e dolorose. In tutti questi casi la presenza di professionisti preparati dona serenità e, nelle situazioni più gravi, può salvare la vita”.

Però, oltre la professionalità, occorre possedere la sensibilità: “In un momento cruciale dell’esistenza come quello della nascita di un figlio o di una figlia, ci si può sentire vulnerabili, fragili, e perciò più bisognosi di vicinanza, di tenerezza, di calore. Fa tanto bene, in tali circostanze, avere accanto persone sensibili e delicate. Vi raccomando perciò di coltivare, oltre all’abilità professionale, anche un grande senso di umanità”.

Infine ha invitato anche a mettere al centro della professione la preghiera: “E veniamo al terzo punto: la preghiera. E’ una medicina nascosta ma efficace che chi crede ha a disposizione, perché cura l’anima. A volte sarà possibile condividerla con i pazienti; in altre circostanze, la si potrà offrire a Dio con discrezione e umiltà, nel proprio cuore, rispettando il credo e il cammino di tutti…

Vi incoraggio perciò a sentire nei confronti delle mamme, dei papà e dei bambini che Dio mette sulla vostra strada, la responsabilità di pregare anche per loro, specialmente nella Santa Messa, nell’Adorazione eucaristica e nell’orazione semplice e quotidiana”.

Inoltre ha incontrato anche i sacerdoti ed i monaci delle Chiese Autocefale Orientali, a cui ha detto (sempre nel discorso consegnato) di essere contento della visita: “Questa è la quinta visita di studio per giovani sacerdoti e monaci ortodossi orientali organizzata dal Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Visite simili per sacerdoti cattolici sono state preparate dal Catholicossato armeno di Etchmiadzin e dalla Chiesa Ortodossa Sira Malankarese. Sono molto grato per questo ‘scambio di doni’, promosso dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali, perché permette di affiancare il dialogo della carità al dialogo della verità”.

Quindi ha ricordato l’importanza del Concilio di Nicea: “La vostra visita ha una rilevanza particolare nell’anno in cui si celebra il 17° centenario del Concilio di Nicea, il primo Concilio ecumenico, che professò il Simbolo della fede comune a tutti i cristiani. Vorrei quindi riflettere con voi sul termine ‘Simbolo’, che ha una forte dimensione ecumenica, nel suo triplice significato.

In senso teologico, per Simbolo s’intende l’insieme delle principali verità della fede cristiana, che si completano e si armonizzano tra loro. In questo senso, il Credo niceno, che espone sinteticamente il mistero della nostra salvezza, è innegabile e ineguagliabile”.

Ed ha spiegato il significato ecclesiologico di questo Simbolo: “Tuttavia, il Simbolo ha anche un significato ecclesiologico: infatti, oltre alle verità, unisce anche i credenti. Nell’antichità, la parola greca symbolon indicava la metà di una tessera spezzata in due da presentare come segno di riconoscimento. Il Simbolo è quindi segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti”.

Ecco l’importanza del Simbolo: “Ognuno possiede la fede come “simbolo”, che trova la sua piena unità solo assieme agli altri. Abbiamo dunque bisogno gli uni degli altri per poter confessare la fede, ed è per questo che il Simbolo niceno, nella sua versione originale, usa il plurale ‘noi crediamo’. Andando oltre in questa immagine, direi che i cristiani ancora divisi sono come dei ‘cocci’ che devono ritrovare l’unità nella confessione dell’unica fede. Portiamo il Simbolo della nostra fede come un tesoro in vasi d’argilla”.

Infine il terzo significato è quello ‘spirituale’: “Non dobbiamo mai dimenticare che il Credo è soprattutto una preghiera di lode che ci unisce a Dio: l’unione con Dio passa necessariamente attraverso l’unità tra noi cristiani, che proclamiamo la stessa fede. Se il diavolo divide, il Simbolo unisce! Come sarebbe bello che, ogni volta che proclamiamo il Credo, ci sentissimo uniti ai cristiani di tutte le tradizioni!”

Ed ha auspicato che tale ‘fede comune’ possa diventare comunione: “La proclamazione della fede comune, difatti, richiede prima di tutto che ci amiamo gli uni gli altri, come la liturgia orientale invita a fare prima della recita del Credo: ‘Amiamoci gli uni gli altri, affinché in unità di spirito, professiamo la nostra fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo’.

Cari fratelli, auspico che la vostra presenza diventi un ‘simbolo’ della nostra comunione visibile, mentre perseveriamo nella ricerca di quella piena unità che il Signore Gesù ha ardentemente desiderato”.

(Foto: Santa Sede)

Giornata delle persone disabili: l’inclusione dipende dalla sensibilità culturale

“L’affermazione dei diritti delle persone con disabilità è misura della civiltà di un popolo. Questa giornata offre l’opportunità per valutare il cammino sin qui percorso dalla Repubblica nella applicazione dei principi di eguaglianza dei cittadini, sanciti dalla Costituzione. La Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 ha posto le basi per un nuovo approccio, riconoscendo che la comunità è, troppo spesso, in ritardo nell’accogliere le diversità.

La riforma della condizione della disabilità in Italia, con il suo focus sulla vita indipendente, sui progetti personalizzati e sull’inclusione lavorativa, rappresenta un’opportunità preziosa per costruire una società più equa e rispettosa della dignità di ogni persona. La sua attuazione richiederà un impegno costante e un forte coordinamento tra i vari livelli istituzionali e la società civile, con la diretta partecipazione delle persone con disabilità.

‘Nulla su di noi, senza di noi’ è principio fondamentale che esprime l’idea che nessuna decisione che riguardi la vita delle persone con disabilità possa essere presa senza il loro consenso. L’inclusione si nutre di scelte quotidiane, basate sulla capacità di valorizzare talenti e aspirazioni di ciascuno”.

Questo è stato il messaggio del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata mondiale delle persone disabili, che si celebra oggi. Infatti il 3 dicembre di ogni anno ricorre la Giornata internazionale delle persone con disabilità, istituita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) nel 1992, con l’intento di promuovere la piena inclusione, la tutela dei diritti e la valorizzazione della dignità delle persone con disabilità in ogni ambito della società.

Nel 2006, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ha sottolineato l’esigenza di difendere e salvaguardare, anche attraverso la ricorrenza del 3 dicembre, la qualità della vita delle persone con disabilità rispetto ai principi di uguaglianza e partecipazione alla sfera politica, sociale, economica e culturale della società.

Però da un sondaggio della Swg emerge che “sette italiani su dieci pensano che in Italia l’inclusione delle persone con disabilità sia ferma al palo: sotto accusa sia la cittadinanza che lo Stato. Le politiche governative messe in atto non sono considerate efficaci da metà della popolazione italiana”.

Inoltre da questo sondaggio emergono troppe criticità, come ha sottolineato Simone Fanti, vicepresidente del premio ‘Bomprezzi-Capulli’: “A tre anni dal primo Osservatorio è il tema dell’inclusione quello su cui c’è il giudizio più negativo la stragrande maggioranza degli italiani ritiene che sia lo Stato (71%) che i cittadini (68%) facciano poco o nulla per garantire la partecipazione paritaria delle persone con disabilità.

Con un’aggravante rispetto al 2021: cresce lo spostamento dalla voce ‘fare poco’ sforzo verso la voce ‘fare nulla’ per l’inclusione, segnando così un’accusa severa sia verso le Istituzioni nazionali e locali che verso se stessi. Poco più del 30% degli italiani valutano come positive le politiche del Governo dal suo insediamento con il Ministero della Disabilità. Attorno alla metà, invece, non giudica efficace la sua azione”.

Inoltre manca una sensibilità culturale: “Per l’atteggiamento culturale della società cresce dal 2021 a oggi quello della sensibilità e solidaristico, ma fanno ancora da contraltare negativo la tendenza al pregiudizio (da 66 a 62) e all’indifferenza (61) e quella alla discriminazione (da 44 a 40), cresce invece l’idea che si risponda alle esigenze della disabilità con impreparazione (da 53 a 56).

Un mondo che riguarda oltre il 15% degli italiani, che vede crescere il numero delle famiglie in situazione di povertà con una o più persone con disabilità e che vivono in una condizione di isolamento creata da muri relazionali, istituzionali e di contesto, come confermato da una ricerca qualitativa condotta da CBM Italia”.

Ed è anche mancante una vera ‘presa di coscienza’ sui diritti delle persone con disabilità: “Dal primo Osservatorio lanciato dal Premio Bomprezzi Capulli nel 2021 a oggi registriamo una scarsa presa di coscienza della società italiana sui diritti delle persone con disabilità. Nonostante ci siano stati alcuni miglioramenti, sono gli italiani e le italiane a dirci che ci sono ancora tanti diritti negati, una presa di consapevolezza di vivere in una società non inclusiva.

Il giudizio di poca incisività ed efficacia delle politiche governative è un segnale per la premier Meloni: nonostante si siano tenuti l’Expo sulla disabilità e il primo G7 sul tema, l’opinione pubblica non percepisce un impegno significativo. Facciamo quindi un appello per potenziare il Ministero della disabilità, e per rendere disponibili nuove risorse per rispondere alle esigenze di chi vive ogni giorno in una condizione di disabilità”.

Anche per il presidente della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (FISH), Vincenzo Falabella, molte barriere (fisiche, culturali, sociali) continuano a limitare la piena partecipazione delle persone con disabilità alla vita sociale, culturale e lavorativa: “Il 3 dicembre rappresenta un momento fondamentale per porre al centro dell’attenzione pubblica e istituzionale i diritti delle persone con disabilità. Non è solo una celebrazione simbolica, ma un’occasione in cui i riflettori si accendono sulle sfide quotidiane che milioni di persone affrontano, ma soprattutto sulle opportunità per costruire un futuro più equo e inclusivo.

Trasformare le sfide in opportunità è una responsabilità condivisa. Rinnoviamo il nostro impegno per una società davvero inclusiva, che sappia non solo riconoscere ma valorizzare le capacità di ogni individuo. Lavoriamo insieme per trasformare le sfide in opportunità, affinché la disabilità non sia più vista come un limite, ma come una condizione.

Con determinazione e senso di responsabilità, continuiamo a costruire un’Italia più giusta, solidale e accessibile per tutti. Celebriamo i traguardi raggiunti, ma manteniamo accesi riflettori perché le persone con disabilità e le loro famiglie possano essere riconosciute e realmente incluse”.

E presentando il bilancio etico e sociale dell’Istituto Serafico di Assisi la presidente Francesca Di Maolo, ha sottolineato che il prendersi cura coinvolge la comunità: “Al Serafico siamo consapevoli che la vera cura non si limita alla dimensione fisica, ma nasce da una relazione autentica che mette al centro la persona, i suoi talenti e il suo valore unico.

Lavoriamo ogni giorno per costruire un modello di cura che integri innovazione tecnologica, ricerca avanzata e attenzione ai bisogni più profondi, con la ferma volontà di contribuire a una società più giusta e inclusiva e crediamo profondamente che prendersi cura della vita più fragile significhi prendersi cura della nostra comunità e dell’ambiente che ci circonda, creando così un circolo virtuoso di solidarietà, sostenibilità e progresso.

Con una visione strategica chiara, dunque, il Serafico si prepara ad affrontare le sfide future rafforzando i propri servizi e la capacità di innovare. Grazie a una comunità di donatori fedeli e a una gestione solida, l’Istituto continuerà a essere un faro per la disabilità grave e gravissima in Italia”.

Un elefante dal cuore puro: riflessioni sul film  ‘The Elephant Man’ di David Lynch

C’era una volta, in una Londra in piena epoca vittoriana, un giovanissimo ragazzo di nome Joseph Merrick, che fin dall’età di tre anni fu colpito da una rarissima malattia che rese parte del suo corpo totalmente deforme. La sua infanzia trascorse in condizioni di povertà  tra numerose difficoltà: i suoi fratelli morirono giovani e la madre, affetta anch’essa da una grave disabilità, morì molto presto, lasciandolo alle cure del padre e della sua matrigna. La nuova compagna rimase  però inorridita dal suo mostruoso aspetto e convinse il marito a cacciarlo fuori di casa.

Da allora per il giovane Merrick iniziò una vita fatta di stenti e vessazioni: deriso da chiunque,  finì per lavorare come ‘fenomeno da baraccone’ in spettacoli noti all’epoca come ‘freaks show’. Questi non erano altro che circhi dove i cosiddetti ‘freak’ venivano derisi e umiliati per via delle loro caratteristiche fisiche considerate anormali. Furono anni durissimi per Joseph, fino a quando nel Regno Unito fu istituita una legge che impose la chiusura di questi disumani spettacoli di intrattenimento. Il ragazzo si ritrovò cosi disoccupato e a vivere per strada nelle peggiori condizioni di salute.

Si ammalò presto ma l’incontro fortuito con Frederick Treves, un giovane medico del più prestigioso ospedale di Londra, cambiò le carte in tavola per lo sfortunato giovane. Frederick fu la prima persona a guardare Merrick non come un mostro da schernire in pubblica piazza, ma come un essere umano. Si prese personalmente cura di lui, tanto da procurargli un alloggio permanente in ospedale e tra i due nacque così una sincera e potente amicizia.

Lo stesso Treves raccontò in seguito di non aver conosciuto mai prima di allora una persona dalla così grande sensibilità e intelligenza emotiva: il suo talento per la scrittura e la sua passione per la prosa e la poesia fecero di Joseph Merrick non più un ‘animale da palcoscenico’ ma un ‘esponente dell’alta società’. Tutti vollero conoscerlo e incontrarlo, il terrore negli occhi delle persone fece così posto all’ammirazione. La gente intrattenendosi e disquisendo in sua compagnia rimase colpita per la sua raffinatezza e i suoi modi eleganti e gentili, per il suo linguaggio forbito e per la sua incredibile cultura. Merrick per la prima volta nella sua vita si sentiva amato e benvoluto.

Quella che potrebbe sembrare una bellissima e originale sceneggiatura, è in realtà frutto di accadimenti realmente avvenuti. Quando a fine anni settanta il produttore Mel Brooks, il Re delle commedie parodistiche americane,  lesse di questa storia, ne rimase talmente folgorato da convincersi fin da subito a realizzarne una trasposizione cinematografica. Nel frattempo un giovane David Lynch stava muovendo i primi passi nell’industria cinematografica americana: aveva già al suo attivo diversi cortometraggi, culminati nello sperimentale e avanguardistico ‘Eraserhead – La mente che cancella’ (1977), suo primo lungometraggio.

E proprio per uno strano disegno del destino lo stesso Lynch si ritrovò casualmente per le mani i libri sulla vita dell’ ‘uomo elefante’. Decise cosi di stendere una sceneggiatura adottandola al suo stile registico. Destino volle che finì sotto l’occhio della moglie di Brooks, una certa Anne Bancroft, che la girò subito al marito. Mel rimase soddisfatto del lavoro ma mostrò delle perplessità su Lynch stesso. Si convinse perciò a vedere ‘Eraserhead’ e ne rimase talmente estasiato dalla visione, che accantonò subito ogni dubbio.

Le riprese, sebbene con diverse difficoltà, partirono e il film uscì nei cinema nel 1980: fu un totale trionfo al botteghino, tanto da piazzarsi tra i migliori incassi della stagione cinematografica, sopratutto in Europa e in Giappone. Alla cerimonia di premiazione degli Oscar ottenne ben otto candidature.

Perchè consiglio questo film? E perchè i giovani dovrebbero vederlo? Perché ciò che vuole raccontare è un grosso limite che ancora oggi la nostra società si porta dietro: il pregiudizio verso ciò che non risulta conforme ai canoni estetici che la società stessa impone. Joseph Merrick è stato allontanato inizialmente perché nessuno ha guardato il suo cuore e il suo intelletto; lo hanno giudicato ancora prima di conoscerlo semplicemente perché ai loro occhi appariva come un mostro e tale doveva essere.

La grande umanità dell’uomo sta però nel non chiudersi in sé stesso e nel suo egoismo, ma al contrario, avere fiducia e speranza verso il prossimo. Non deve compiere un percorso di maturazione, non ne ha bisogno in quanto capace di amare fin dall’inizio e nonostante le derisioni e l’umiliazione, riconosce subito la lealtà del dottore e da questo si fa aiutare, dimostrandosi fin da subito riconoscente.

Ma se guardiamo alla letteratura classica, vengono in mente altre analogie. Pensiamo per esempio a Quasimodo, il gobbo campanaro protagonista del celebre ‘Notre Dame de Paris’, opera trasposta sempre da casa Topolino in un film d’animazione che si rivolge apparentemente ad un pubblico per bambini, ma che in realtà parla proprio a noi, adulti e ragazzi. Anche Quasimodo come lo stesso uomo elefante è emarginato dagli altri per la sua bruttezza esteriore ma si distingue per la purezza del suo cuore e la sua nobiltà d’animo.

Il gobbo sogna una vita di integrazione tra la gente, ma viene segregato all’interno del campanile da un giudice spietato e manipolatore, convinto di agire in nome del bene e di Dio, per ‘proteggere il mondo dalla sua mostruosità’. E’ lo stesso che capita a Merrick che passa la vita confinato in una gabbia per elefanti, sognando una vita diversa, una vita accettato veramente per quello che è realmente. Ma come dice il menestrello Clopin nel capolavoro disneyano del 1996, rompendo di fatto la famosa ‘quarta parete’ e chiamandoci in causa direttamente: “perché un uomo odia? perché un mostro ama? / chi è brutto dentro o chi è brutto a vedere?” 

Merrick risponde direttamente a questi quesiti già anni prima della Disney, in una delle scene più potenti di tutto il film, ribellandosi alla cattiveria e al razzismo in un urlo liberatorio passato ormai alla storia: “Io non sono un elefante! Non chiamatemi animale, io sono un uomo!”. Una lezione di umanità per tutti, ancora oggi.