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Alasdair MacIntyre (1929-2025), dopo la virtù… il diritto naturale!

Il 21 maggio scorso è morto all’età di 96 anni il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, fondatore della scuola neo-comunitarista, autore di oltre duecento articoli scientifici e di più di venti libri. Dopo la conversione allo stesso tempo religiosa (dall’ateismo al cattolicesimo) e filosofica (dal relativismo alla scuola aristotelico-tomista) dell’età matura, MacIntyre ha applicato ai vari ambiti della filosofia sociale i principi della teoria neoclassica della legge naturale.

In questo modo ha superato quel relativismo culturale o sociologico che lo caratterizzava prima, confutando la teoria multiculturalista in cui il “bene” relativo ad una certa cultura viene prima del “giusto”, un modello com’è evidente nel quale così non c’è spazio per l’affermazione di diritti universali dell’essere umano. Questo tipo di relativismo caratterizza, ad esempio, la sua principale opera Dopo la virtù (1981), le cui idee sui diritti e sulla conoscenza della natura sono poi cambiate profondamente.

In questo libro, che non si configura come un testo accademico, la filosofia morale e politica di MacIntyre, recuperando la tradizione delle virtù fino ad allora (e ancora oggi) abbandonata dall’esaltazione dei diritti posta dalla tradizione liberal, recupera le energie per tornare a pensare l’uomo in comunità e la sua vita quindi al di fuori delle astrazioni e delle utopie individualistiche.  

Dopo la virtù, in ultima analisi, su una base filosofica friabile, ha avuto però il merito di provare a proporre un progetto alternativo sia alla modernità razionalistico-empirista d’impronta illuminista sia alla deriva nichilistica-libertaria della postmodernità, aspirando «alla costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale possa essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale abbiano la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità».

Tale attacco al liberalismo di matrice individualistica assieme all’anticonformistica critica ai “professionisti della filosofia” hanno portato Macintyre ad un progressivo isolamento negli anni Ottanta e Novanta. Un ostracismo fondamentalmente motivato dall’aver toccato il “nervo scoperto” del pensiero liberal e dell’utilitarismo occidentale, ovvero la denuncia dell’emotivismo e dell’ideologia che impediscono la costruzione di una comunità e la pratica di ogni virtù.

Nato nel 1929 a Glasgow, Alasdair MacIntyre aveva studiato nelle università-simbolo del liberalismo anglosassone, Londra, Manchester e Oxford, per poi dedicarsi all’insegnamento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Dotato di una chiarezza esemplare nello stile e di una strategia di pensiero iconoclasta dinanzi ai dogmi utilitaristi, è passato dalla fase marxista degli anni giovanili, alla successiva fase etico-laica della mezza età, per approdare infine, dall’età di 55 anni, alla riscoperta della tradizione aristotelico-tomista.

Questa svolta avvenne, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, grazie al confronto di MacIntyre con i lavori di Elisabeth Anscombe (1919-2001) e, soprattutto, all’influsso delle opere del cardinale John Henry Newman (1801-1890), influenze che lo portarono, in una delle sue ultime monografie, a riflettere ed a riprendere la filosofia di santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein (1891-1942) (cfr. la tr. It.: Edith Stein. Un prologo filosofico, Edizioni EDUSC, Roma 2010, pp. 330).

Anglicano per nascita, dopo una fase atea, MacIntyre si è convertito al cattolicesimo attraverso la lettura di San Tommaso d’Aquino che, con Aristotele, gli ha permesso di confutare l’individualismo e l’economicismo del XX secolo identificati, come accennato, in quello che il filosofo scozzese ha chiamato emotivismo, vale a dire la convinzione che la gran parte dei giudizi morali nascondano, dietro una dichiarata verità generale, una inclinazione (o “vizio”, secondo la terminologia della morale cattolica) personale.

Tale critica, che in fondo afferisce senza esplicitarlo alla «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» denunciata dal card. Joseph Ratzinger nell’Omelia della Missa Pro Eligendo Romano Pontifice pronunciata nella Basilica di San Pietro il 18 aprile 2005, il filosofo di Glasgow la presenta, nel 1988, nei due volumi di Giustizia e razionalità (tr. It. per Anabasi).

MacIntyre vi spiega infatti che non esiste una morale astratta e universale, ma in ciascuno dei costumi specifici e delle pratiche locali esistenti nel mondo è possibile riconoscere una concezione condivisa della virtù, del coraggio, della magnanimità. La ripresa e la pratica delle virtù gli offrirà quindi l’occasione di uscire dal disordine morale dei tempi della tarda modernità e di riproporre l’idea di una comunità edificata da quelle reti di solidarietà che sono al cuore dell’ultima tappa della vita di MacIntyre, testimoniata ad esempio nell’opera Animali razionali dipendenti (tr. It. Vita e Pensiero).

L’ultimo suo titolo tradotto in italiano è L’etica nei conflitti della modernità (Mimesis), nel quale identifica un insieme di beni essenziali il cui contributo a una vita buona quale che sia la cultura o l’ordine sociale di appartenenza è indispensabile. Questi sono almeno otto, ovvero una buona salute e un buon tenore di vita – del cibo, dei vestiti, dell’abitazione –, delle buone relazioni famigliari, una sufficiente istruzione che consenta di far uso delle opportunità di crescita, un lavoro che sia proficuo e remunerativo, dei buoni amici e, infine, del tempo a disposizione al di fuori del “lavoro per il mercato” che permetta di dedicarsi ad attività sociali, sportive, estetiche, intellettuali et. Ottavo e ultimo dei beni è la capacità di dare un ordine alla propria vita individuandone i limiti ed errori così da imparare anche a migliorare a partire da essi.

In fondo, questa è quella fra le lezioni filosofiche di MacIntyre che ritengo più preziosa per noi cittadini della società liquida e artificiale. La ricerca, cioè, di quel pensiero profondo che permetta di sapersi riconoscere e di saper riconoscere gli altri, riscoprendo nella relazione il senso più vero della propria dignità umana. Una dignità che non è subordinata a misurazioni o calcolo e si riconosce nel valore della propria unicità e irripetibilità a dispetto di qualsivoglia materialismo e massificazione.

La dignità, e quindi anche i diritti umani, non possono perciò essere sottoposti a giudizio, sono indisponibili a noi stessi e hanno un fondamento naturale e oggettivo. Siamo esseri degni e quindi liberi e, come lo stesso filosofo scozzese ha preveggentemente dichiarato, sebbene non ancora su quelle basi così solide del dopo-conversione, solo il riconoscimento di questa verità ci permetterà di ritornare a dialogare senza quella sorta di «guerra civile condotta con altri mezzi» che è divenuto ormai il dibattito pubblico [cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli (1988), p. 302].

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