Caso Shalabayeva. La Cassazione annulla le assoluzioni per un “crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione”
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 20.10.2023 – Vik van Brantegem] – Ieri, il Collegio dei giudici della Quinta sezione della Corte di Cassazione ha annullato le assoluzioni con formula piena perché “il fatto non sussiste”. stabilite dal collegio giudicante Corte d’Appello di Perugia presieduto da Paolo Micheli, nei confronti di Renato Cortese, Maurizio Improta, Francesco Stampacchia, Luca Armeni e Vincenzo Tramma, accusati di sequestro di persona per le presunte irregolarità legate al rimpatrio di Alma Shalabayeva, espulsa verso il Kazakhstan nel 2013 insieme alla figlia Alua. L’assoluzione fu impugnata dalla Procura generale di Perugia, mentre i legali degli imputati avevano chiesto che il ricorso venisse dichiarato inammissibile. La Cassazione ha accolto la richiesta del Sostituto Procuratore generale della Suprema Corte, Luigi Giordano, dell’annullamento delle assoluzioni impugnata dalla Procura generale di Perugia e il rinvio degli atti a Firenze per un processo d’Appello bis.
La vicenda – che fu approfondita da Report Rai 3 nell’inchiesta di Paolo Mondani L’ostaggio, andata in onda il 25 novembre 2013 [QUI] – risale alla notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, quando in una villetta nei pressi di Casal Palocco, nell’Agro Romano, circa 50 agenti e funzionari della Digos fecero irruzione. Le forze dell’ordine cercavano il marito di Alma Shalabayeva, il dissidente Kazako Mukhtar Ablyazov, ricercato dalle autorità del suo Paese per una presunta truffa bancaria di cui sarebbe stata la mente e di cui il principale istituto di credito kazako sarebbe stato la vittima (di seguito riportiamo un articolo di Il Foglio sulla questione). All’interno della villetta, invece di Ablazov, le forze dell’ordine trovarono la Shalabayeva e la figlia. Entrambe erano ospiti di Venera, sorella di Alma, e del suo marito. La donna sarebbe stata poi trasferita in un Centro di identificazione ed espulsione, a causa di un passaporto ritenuto falso e del cognome indicato (Ayan) che la donna portava da nubile. Due giorni dopo, firmata l’espulsione, la Shalabayeva fu rimpatriata in Kazakhstan con la figlioletta Alua di sei anni, nonostante avesse diritto all’asilo politico, su un aereo privato affittato dall’ambasciata kazaka. Poi, il 27 dicembre 2013 sono ritornati a Roma, con un visto Schengen per poter lasciare il Kazakhstan. Nell’aprile 2014 a Shalabayeva è stato riconosciuto l’asilo politico in Italia.
“Il nostro governo subito si è mosso con il governo kazako per il bene della signora, da questo punto di vista siamo tranquilli ma resta il fatto della gravissima irregolarità delle nostre forze di polizia compiuta all’insaputa del governo”, aveva dichiarato Vincenzo Cerulli Irelli, uno dei tre legali di Alma Shalabayeva, ai microfoni di TgCom24. La Farnesina si era immediatamente attivata per aiutare Alma Shalabayeva, una volta venuta a conoscenza del suo rimpatrio forzato e di cui non era stata messa a conoscenza. Fonti della Farnesina avevano specificato che le autorità kazake avrebbero dato il loro impegno scritto affinché fossero rispettati tutti i diritti della donna. Sembra inoltre che Shalabayeva non fosse stata riconosciuta come moglie del dissidente kazako nel fax del 29 maggio inviato dalla Farnesina all’ufficio immigrazione della Questura di Roma in quanto la donna era indicata con il nome da nubile.
Con il caso Shalabayeva-Ablazov, furono accesi i fari sugli intrecci economici tra Italia e Kazakhstan. Sono 53 le aziende italiane con sede in Kazakhstan, tra cui Eni e Impregilo, secondo le stime dell’Istituto nazionale commercio estero, aggiornate a gennaio 2013. A farla da padrone, quelle che operano nei settori di petrolio e gas.
Il Collegio di giudici della Terza sezione del Tribunale di Perugia presieduto da Giuseppe Narducci, il 14 ottobre 2020 aveva condannato a cinque anni di reclusione l’ex capo della Squadra Mobile di Roma ed ex questore di Palermo Renato Cortese e l’ex capo dell’ufficio immigrazione ed ex capo della Polfer Maurizio Improta; a due anni e mezzo di reclusione l’allora giudice di pace Stefania Lavore; a cinque anni i funzionari della mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia; rispettivamente a quattro anni e tre anni e sei mesi di reclusione i funzionari dell’Ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. Cortese, Armeni, Stampacchia, Tramma, Leoni e Improta erano stati riconosciuti responsabili di sequestro di persona nei confronti di Alma Shalabayeva e della loro figlia Alua.

Del caso Shalabayeva mi sono occupati il 19 gennaio 2021, quando avevo trovato quella mattina a colazione, insieme ad un riassunto-sintesi degli argomenti di cui ci siamo occupati con cronaca, analisi e ipotesi, il suggerimento del mio Staff del Blog dell’Editore di ritornarci su, perché repetita iuvant… e l’avevo accolto, dedicandoci la giornata. Al suggerimento erano allegati anche tre articoli: 1. Il Vaticano non chiede più l’estradizione. Arrestata per niente l’assistente di Becciu (Brunella Bolloli – Libero, 19 gennaio 2021); 2. Papa Francesco, le sue riforme stanno migliorando il sistema vaticano? (Andrea Gagliarducci – Monday Vatican, 18 gennaio 2021); Il caso Shalabayeva. Deportazione di cittadino straniero e diritti dell’uomo (Fonte Report Rai 3 e Rai News).
Così, questa mattina a colazione ho trovato una nuova segnalazione del mio Staff del Blog dell’Editore, riguardante il caso Shalabeyeva, che ho riassunto nell’incipit. Analizzare significa essere persone devote e con la particolare devozione di porre fatti e situazioni sotto la lente (come disse Papa Francesco in riferimento al suo Segretario di Stato). E noi, che ci riteniamo devoti della lente, analizziamo. Così facendo, lo Staff del Blog dell’Editore passa le serate frenetiche da smartworking, in equilibrio tra lavoro, vita privata, affetti cari, animali domestici, vicini rumorosi, video conferenze, faccende di governo, guerra Russa-Ucraina, guerra Hamas-Israele e minacce di guerra Azerbajgian/Turchia/Russia-Armenia. Ma lo Staff senza indugio continua imperterrito a tenere sott’occhio gli abusi transoceanici in entrambi gli emisferi, ma anche quelli d’Oltretevere, nel Caucaso meridionale e nel Kazakhstan , uno Stato transcontinentale a cavallo tra Asia ed Europa, dichiaratosi indipendente dall’Unione Sovietica il 16 dicembre 1991.

Il caso Shalabayeva
Deportazione di cittadino straniero e diritti dell’uomo
Per il Tribunale di Perugia fu “crimine di lesa umanità”, “realizzato mediante deportazione”
Nelle 280 pagine delle motivazioni della sentenza con cui il 19 ottobre 2020 il Tribunale di Perugia aveva condannato sei dirigenti di polizia per il trattenimento di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, e della loro figlia Alua e la loro successiva espulsione, i giudici scrivono che l’indagine preliminare e il dibattimento “non hanno permesso di acquisire elementi concreti” in grado di fornire una risposta alla domanda se “vi fu un intervento al più alto livello politico-istituzionale dello Stato italiano che indirizzò l’operato della Polizia per conseguire la deportazione di Alma Shalabyeva e della figlia e compiacere, in tal modo, la Repubblica del Kazakhstan” ma comunque “durante tre interi giorni del maggio 2013, si realizzò, di fatto, una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale”, un evento che “sarebbe preferibile definire un crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione”, nonché “un caso eclatante non solo di palese illegalità-arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana”.
Nel testo delle motivazioni si legge inoltre: “Gli imputati hanno perpetrato un crimine di eccezionale gravità, lesivo dei valori fondamentali che ispirano la Costituzione repubblicana e lo Stato di diritto. La norma incriminatrice del delitto di sequestro di persona, cioè il reato più grave contestato nel processo” appare “quasi non adeguata a rappresentare, compiutamente, le dimensioni della condotta delittuosa e le devastanti conseguenze che essa ha cagionato”.
”La circostanza che aveva sconcertato maggiormente il Collegio è che nessun dirigente o funzionario della Polizia di Stato, in nessuna fase di questa vicenda, abbia avvertito la necessità di soffermarsi, e soprattutto di far soffermare l’intera struttura, per ragionare sul fatto che la possibile estradizione di Ablyazov (se fosse stato catturato a Roma) e, soprattutto, la successiva espulsione della moglie e della figlia sarebbero avvenute in favore di un paese, il Kazakhstan, messo all’indice, nella comunità internazionale, proprio perché nazione che violava i diritti umani, anche praticando la tortura e la eliminazione fisica degli oppositori”, si legge nelle motivazioni della sentenza.
”Tra il 28 maggio e le prime ore del 29 maggio, si creava una surreale situazione nella quale i più alti livelli della più importante forza di polizia del nostro paese restavano con il ‘fiato sospeso’ in attesa che la Squadra Mobile e la Digos romane realizzassero la cattura di una persona che assumeva le sembianze di un Bin Laden kazako, cioè di un pericoloso terrorista internazionale, quasi certamente armato, che metteva in ‘pericolo la sicurezza del nostro paese’ (furono queste le parole usate dal Ministro dell’Interno nel colloquio con il suo Capo di Gabinetto, sollecitandolo ad incontrare i rappresentanti del Kazakhstan)”.
”Tuttavia le autorità kazake mentivano spudoratamente nel tentativo di presentare Ablyazov come soggetto legato ad ambienti terroristici e, soprattutto, come persona pericolosa che avrebbe potuto adoperare le armi in caso di arresto poiché non solo i reati che lo riguardavano in realtà attenevano alla sfera economica (appropriazione di fondi bancari, truffa, ecc.) e non certamente al terrorismo, ma inoltre, nel maggio 2013 gli investigatori privati Italiani e Israeliani, che lavoravano per conto dei committenti Kazaki, non avevano mai avuto occasione di constatare che Ablyazov circolasse armato o disponesse di una scorta armata”.

Ablyazov è il capo dell’opposizione kazaka, e nessuno gli presta attenzione
di Adriano Sofri
Il Foglio, 12 gennaio 2022
Nelle cronache viene di volta in volta descritto come un delinquente comune o come un dissidente coraggioso. Ora lancia accuse clamorose, che coinvolgono anche la più importante banca italiana. Possibile che non si voglia verificare quello che dice?
Non è facile raccapezzarsi col giornalismo italiano, e l’attenzione pubblica in genere. La premessa è nell’intervista di Francesco Battistini, per il Corriere della Sera del 7 gennaio, a Mukhtar Ablyazov, nella sua casa di Parigi. Ablyazov, 58 anni, fisico, in Kazakhstan era stato Ministro e beniamino del despota Nazarbayev, fino alla rottura nel 2003, alla fondazione del partito “Scelta democratica”, alla accanita denuncia della corruzione del regime. Che rispose condannandolo a 6 anni, incarcerandolo e torturandolo. Lo rilasciò dieci mesi dopo per le pressioni internazionali, a condizione che rinunciasse a ogni impegno politico. Operando fra Kazakhstan e Russia, dal 2005 al 2009 fu a capo di una delle maggiori banche kazake e la usò per finanziare attività di opposizione, finché, trasferito a Londra, fu imputato dal suo Paese e dalle autorità russe di una colossale truffa finanziaria. (Tra i truffati, secondo gli accusatori, c’erano anche banche italiane, per 250 milioni di dollari, per la gran parte di Unicredit). Cominciò allora una trafila giudiziaria che non si è mai conclusa, che ebbe il suo osceno capitolo italiano nel 2013, col rapimento romano di Alma Shalabayeva, sua moglie, e della piccola Alua.
Nelle cronache Ablyazov viene di volta in volta descritto come un delinquente comune, solo molto più grosso, o come un dissidente coraggioso. Questa volta, nel contesto della rivolta esplosa in Kazakhstan , Battistini lo descrive sensatamente come “ex-ministro, ex-banchiere e dissidente… di fatto il capo dell’opposizione in esilio”. Ruolo che Ablyazov rivendica in modo perentorio. Il punto che richiama l’attenzione è questo: “Da voi ci sono tesori e proprietà di Nazarbayev… Una grande banca italiana come Unicredit ha avuto un ruolo nell’acquisto e nella vendita di asset della famiglia Nazarbayev. Nel 2007 un affiliato del dittatore, Bulat Utemuratov, ha venduto la sua banca Atf a Unicredit per 2,1 miliardi di dollari. Sei anni dopo, Unicredit l’ha rivenduta per 493 milioni a un ricco affarista kazako, Akhmetzhan Yessimov, già sindaco di Almaty, che a sua volta l’ha girata a una banca di proprietà di Nazarbayev. Nessuno ha mai fermato quest’operazione: quando già c’era stato il rapimento di mia moglie e di mia figlia, il dittatore guadagnava centinaia di milioni…”.
L’accusa di Ablyazov ritorce pienamente quelle rivolte contro di lui. E dà i numeri, sui quali è competente. Secondo quei numeri, la più importante banca italiana avrebbe comprato e rivenduto una banca kazaka alla corte di Nazarbayev facendole guadagnare (e rimettendoci) un miliardo e 607 milioni di dollari. Ho fatto male il conto? Della complicata questione si trattò già nelle varie puntate della vicissitudine giudiziaria di Ablyazov nel Regno Unito e in Francia. Ma mi sarei aspettato che un’accusa così voluminosa, da parte del capo di fatto dell’opposizione kazaka in esilio, pubblicata sul maggior quotidiano italiano, sollevasse ben altra attenzione, da parte di ispettori più esperti di me di finanza.

Un attivista ci racconta come funziona il sistema di repressione in Kazakhstan
di Maurizio Stefanini
Il Foglio, 11 gennaio 2022
Il Paese, occupato dalle truppe di Putin e Lukashenka, è chiuso da una cortina di ferro all’interno della quale si continua a sparare ai civili protagonisti della più massiccia protesta pacifica dopo 30 anni di terrore, corruzione e propaganda. E l’UE sta a guardare.
Il sistema di Nursultan Nazarbayev ha costantemente eliminato ogni tipo di dissenso durante i suoi trent’anni al potere. I più importanti esponenti dell’opposizione e della società civile sono stati uccisi o imprigionati. Per questo non ci sono leader chiaramente riconoscibili nella protesta all’interno del Kazakhstan ”, dice al Foglio Barlyk Mendygaziyev, attivista per i diritti umani in esilio ora residente negli Stati Uniti con una moglie cittadina americana. In origine Mendygaziyev era un imprenditore: nel 1998 aveva creato la Karachaganak Support Services (KSS), specializzata nel trattamento dei fanghi oleosi che restano nei serbatoi: “L’unica in Kazakhstan ad applicare le tecnologie più avanzate per evitare danni all’ambiente”, dice. Nel 2016, con un valore di mercato di 40 milioni di dollari, aveva deciso di dare la sua società ai 120 dipendenti, rimanendo come investitore e consulente, ed era poi andato negli Stati Uniti. “All’inizio del 2020 ho creato la fondazione Freedom Kazakhstan per sostenere la società civile kazaka di fronte alla repressione di massa del regime di Nazarbayev – ricorda – Ma alla fine del 2020 ho ricevuto una minaccia diretta da Karim Massimov, il capo del Comitato per la sicurezza nazionale del Kazakhstan: o interrompevo la mia attività per i diritti umani, o i miei parenti e i miei colleghi sarebbero stati presi in ostaggio”. Sì, si tratta proprio di quel Karim Massimov, che è stato arrestato nel fine settimana e accusato di alto tradimento. “Rifiutai, e a quel punto il regime kazako chiese la mia estradizione per terrorismo. Ovviamente l’Interpol rifiutò ma degli uomini armati e mascherati andarono a casa di mio fratello maggiore Kalyk, che è disabile, in sedia a rotelle e quasi cieco, accusandolo di aver rubato 10 cavalli e 300 metri di cavo. All’altro mio fratello Bekizhan è stata messa della marijuana in tasca per accusarlo di traffico di droga, oltre che di finanziamento di estremisti, riciclaggio di denaro, organizzazione di un gruppo criminale ed evasione fiscale. In custodia cautelare dal 3 giugno 2021, dovrebbe essere ricoverato perché si è aggravata una malattia cronica. Alcuni parlamentari europei hanno chiesto il suo rilascio e anche di visitarlo, ma il regime non dà il permesso”. E non lo darà certo oggi.
“In questo momento il Paese è occupato dalle truppe di Vladimir Putin e Aljaksandr Lukashenka – dice – ed è chiuso da una cortina di ferro all’interno della quale si continua a sparare ai civili protagonisti della più massiccia protesta pacifica dopo 30 anni di incessante terrore, corruzione e propaganda. La richiesta è: ‘Shal, ket’”, vecchio, vattene. “Non sappiamo quanta gente sia stata uccisa, perché gli obitori di Almaty sono presidiati dai cecchini. E i parenti che stanno cercando disperatamente di ritrovare i loro cari dispersi o morti finiscono agli arresti a loro volta”.
Si parla però anche di gravi violenze da parte dei manifestanti. E c’è questo scenario su un tentato golpe montato proprio da Massimov, con la partecipazione armata di stranieri. “La cosa peggiore è che governi e media stanno ripetendo la propaganda di Nazarbayev – dice Mendygaziyev – In realtà, questo è uno schema consolidato da tempo per screditare i manifestanti pacifici. Esattamente lo stesso scenario che si verificò a Zhanaozen, durante le proteste del 2011. Anche allora agenti di polizia e criminali controllati dai servizi di sicurezza organizzarono pogrom in modo da consentire alla polizia di aprire il fuoco sui cittadini pacifici, imporre lo stato di emergenza e bloccare le informazioni su quanto accaduto. Il principale flusso di informazioni sui pogrom viene infatti da Almaty, dove operava la banda di criminali del boss Dikiy Arman, che era in realtà sotto il controllo del Comitato per la sicurezza nazionale. Così il regime di Nazarbayev ha avuto il pretesto per introdurre lo stato di emergenza e far uccidere impunemente i manifestanti. Ha dovuto far venire gli occupanti Putin e Lukashenka, perché la polizia e l’esercito del Kazakhstan si stavano schierando dalla parte del popolo”.
Davvero la protesta è iniziata per il gpl?
“La comunità internazionale crede che la protesta sia iniziata il 2 gennaio, ma in realtà è cominciata molto prima. La situazione stava montando da tempo, e come accade nei paesi autoritari non si sa mai quale sarà la scintilla finale. Negli ultimi cinque anni più di novemila persone sono state vittime di persecuzione politica in Kazakhstan per aver partecipato a proteste o criticato le autorità, ci sono stati sei omicidi politici, e ogni mese c’erano notizie di retate per prevenire altre proteste. Ci sono 16 prigionieri politici e più di 200 attivisti condannati a varie restrizioni, in base alle sentenze segrete con cui sono stati messi al bando i movimenti di opposizione pacifica Koshe Partiyasy e Scelta democratica del Kazakhstan , definiti entrambi estremisti. Qualsiasi critica in Kazakhstan è trattata come estremismo, sullo sfondo di una baldoria senza fine per la famiglia Nazarbayev, che si crogiola nel lusso a spese di cittadini che sono costretti a indebitarsi per comprare da mangiare. L’aumento del prezzo del gpl non è stata che l’ultima scintilla. E’ anche significativo che le proteste siano iniziate a Zhanaozen, dove le autorità non permettevano ai residenti di partecipare a cerimonie di commemorazione dei cittadini che erano stati uccisi nel 2011. I Kazaki hanno approfittato delle vacanze per uscire finalmente in massa e protestare. La polizia non è stata in grado di reagire rapidamente e ne è seguita una reazione a catena, con adesioni in tutte le città. Alle richieste sociali si sono subito aggiunte quelle politiche: ‘Shal, ket’, licenziamento del governo, rilascio dei prigionieri politici. Nemmeno la concessione del regime di abbassare il prezzo del gpl e il licenziamento del governo sono bastati. I Kazaki sono uniti da una chiara richiesta: il regime di Nazarbayev deve finire”.
Ma chi è che manifesta?
“Kazaki comuni, di tutte le professioni ed età – dice Mendygaziyev – Persone che in questi anni si sono rese conto di vivere in povertà nel paese più ricco del mondo e che i loro diritti venivano sistematicamente violati, e non hanno potuto più sopportarlo”.
Quali sono i rapporti tra l’opposizione storica e questa protesta?
“Gli slogan della protesta erano gli stessi di Scelta Democratica e del Koshe Partiyasi. Insieme, questi movimenti contavano oltre 200 mila follower nelle chat di Telegram, tra il 2017 e il 2020. Lì si discuteva di riforme politiche attraverso un processo pacifico, ma le autorità li hanno definiti terroristi. ONI, OSCE, Dipartimento di Stato americano, Parlamento Europeo hanno tutti denunciato come il Kazakhstan abusi della legislazione antiterrorismo per perseguitare il dissenso, e adesso il Presidente Qasim-Jomartč Tokayev col definire i manifestanti ‘terroristi’ continua con quel copione. Con la risoluzione dell’11 febbraio 2021 il Parlamento Europeo aveva raccomandato di imporre sanzioni personali ai trasgressori dei diritti umani in Kazakhstan, ma i diplomatici europei hanno preferito dare credito alle pseudo-riforme del regime. Sia le ambasciate sia la delegazione dell’UE ad Astana hanno generalmente evitato incontri con l’opposizione, e al contrario hanno appoggiato la propaganda di Nazarbayev, anche facendo pressioni per la rimozione dei nomi degli assassinati e dei prigionieri politici dalla risoluzione del Parlamento europeo. Fortunatamente, i deputati non li hanno assecondati, però il regime di Nazarbayev è rimasto impunito. Mentre Lukashenka e l’entourage di Putin sono soggetti a sanzioni dell’UE per crimini simili, i carnefici di Nazarbayev sono liberi di godersi il bottino e riposare all’estero. Il regime di Nazarbayev ha ben compreso questo messaggio e per questo ora si aspetta di rimanere impunito”.
Ma Nazarbayev non è stato ormai esautorato da Tokayev?
“Tokayev è totalmente dipendente da Nazarbayev, e la gente lo chiama ‘il mobile’. Come una sedia che il padrone sposta dove vuole: è assolutamente senza fegato. È sempre stato disprezzato, e la sua opinione non è mai stata presa in considerazione. Tutti capiscono che Tokayev è solo un esecutore testamentario degli ordini criminali di Nazarbayev. Anche adesso, le dimissioni di Nazarbayev dal Consiglio di Sicurezza non sono che un altro trucco per evitare la responsabilità di repressioni e sparatorie di civili, e salvare i beni di Nazarbayev dalle sanzioni personali. È la Costituzione stessa del Kazakhstan a dire che Nazarbayev è il ‘capo della nazione’. Il ‘Führer’. Ricopre la carica di Primo Presidente e Capo del Consiglio di Sicurezza a vita e può ‘reintegrarsi’ in qualsiasi momento. Nessuno della famiglia è stato colpito dalle epurazioni, e sia suo nipote Kairat Satybaldy sia il figlio di suo nipote Samat Abish sono rimasti nelle loro posizioni al vertice. Solo Masimov è ora usato come capro espiatorio. Teniamo conto che dal settembre del 2021 Tokayev è stato associato alla resa della sovranità del Kazakhstan a Russia e Cina attraverso un memorandum che prevede la piena cessione di tutti i dati del governo e i dati personali dei cittadini a un ente privato controllato da Putin e tecnologicamente mantenuto dalla cinese Huawei. Ora Tokayev è odiato non meno di Nazarbayev: è la personificazione della repressione, e il traditore che ha chiamato in Kazakhstan almeno 15 mila soldati russi”.
Come finirà?
“Il popolo del Kazakhstan ha sentito la forza della propria unità, ma purtroppo più a lungo i regimi di Nazarbayev, Putin e Lukashenka rimarranno impuniti per aver sparato sui Kazaki, più ci saranno vittime, più difficili saranno la crisi e la ripresa. È un grande fallimento dell’UE: l’acquiescenza dei suoi diplomatici verso il regime ha portato il Paese a essere completamente occupato dalla Russia. Sono sicuro che il popolo del Kazakhstan non accetterà l’occupazione. Dopo la caduta dei monumenti a Nazarbayev, inizierà una guerriglia contro gli occupanti. Per evitare che il Paese e l’economia sprofondino nel caos totale e ci sia una nuova ondata di profughi, il finanziamento del terrore sanguinario dei regimi di Nazarbayev, di Putin e di Lukashenka deve cessare. Ci devono essere nuove sanzioni personali, e immediate”.



























