Restituire la speranza ad una Terra Santa grondante di sangue. La buona politica è al servizio della pace. 35° viaggio di solidarietà e speranza (28.12.2018-02.01.2019) – Striscia di Gaza 3

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 11.10.2023 – Luigi Ginami] – Atterro nella notte di sabato 29 dicembre 2018 a Tel Aviv e mi dirigo a casa a Gerusalemme dove arrivo alle ore 05.30. Mi sveglio alle ore 11.00 dopo una dormita molto profonda. Da Gaza mi giunge la notizia che all’alba, mentre in Sharut mi recavo sulle colline della Giudea, l‘esercito israeliano lanciava un attacco aereo contro una postazione di Hamas a est di Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Mi dicono che non ci sono stati feriti. L’esercito israeliano ha affermato di aver bombardato la postazione di Hamas dopo che un razzo sparato da Gaza era atterrato in una zona aperta a sud del territorio israeliano, venerdì notte. Nella giornata di venerdì, i soldati israeliani hanno ucciso un giovane palestinese e ne hanno feriti altri sei in attacchi contro le proteste della Grande Marcia del Ritorno, nelle aree di confine di Gaza.
«Continuo a seguire con lacrime e apprensione quanto sta succedendo in Israele e Palestina: tante persone uccise, altre ferite. Prego per quelle famiglie che hanno visto trasformare un giorno di festa in un giorno di lutto e chiedo che gli ostaggi vengano subito rilasciati. È diritto di chi è attaccato difendersi, ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti. Il terrorismo e gli estremismi non aiutano a raggiungere una soluzione al conflitto tra Israeliani e Palestinesi, ma alimentano l’odio, la violenza, la vendetta, e fanno solo soffrire gli uni e gli altri. Il Medio Oriente non ha bisogno di guerra, ma di pace, di una pace costruita sulla giustizia, sul dialogo e sul coraggio della fraternità» (Papa Francesco – Udienza Generale, 11 ottobre 2023).

Hamas ha avvertito l’esercito israeliano di rappresaglie per gli attacchi contro i manifestanti di Gaza. Questo è il clima in cui preparo il mio ingresso a Gaza nel giorno del compleanno di Santina. Tutto è pronto. Il mio permesso è il numero identificativo FN-1509963, lunedì 31 dicembre 2018 partenza dal patriarcato alle ore 06.00. Mi manca ancora il permesso di Hamas. Per entrare nella Striscia di Gaza occorre il permesso israeliano, il permesso dell’Autorità Palestinese e il permesso di Hamas. Da Gaza Padre Joseph mi chiede foto del passaporto e una foto tessera. Oggi si recherà dalle autorità di Hamas per avere quel permesso. Per avere quello israeliano ho impiegato ben 2 mesi, per rimanere a Gaza una manciata di ore, dalle ore 08.00 il 31 dicembre 2018 alle ore 12.00 del 1° gennaio 2019. Ho scelto questa data perché è la Giornata Mondiale della Pace.
Scrivo comodo al caldo da casa a Gerusalemme. Vado in una zona di profondi odi, sofferenza e violenza a celebrare la pace con la frase di Papa Francesco: la buona politica è al servizio della pace. Chiudo IPad, il Nunzio Apostolico Mons. Leopoldo Girelli sta arrivando per la Santa Messa delle ore 18.00 alla tomba di Santina.
Scrivo da casa. La mia casa vera. L’unica casa che ho costruito con mie mani, qui a Gerusalemme. Ultimo piano Esarcato armeno cattolico. Sotto le coperte dopo una doccia calda. No proprio bollente. Attorno ancora il vapore acqueo che stempera nel freddo invernale. Dicevo, questo è il punto più sfigato di Gerusalemme vecchia. Dove si ammazzano più persone.
Se qualcuno vuole venire, tristemente posso dire che fuochi di artificio un po’ speciale potrebbero avvenire. Infatti proprio ancora venerdì scorso, alcuni palloncini colorati che trasportavano ordigni esplosivi sono stati lanciati da Gaza e sono caduti in un villaggio israeliano del Neghev, nei pressi di un asilo nido. Lo ha riferito la radio statale, secondo cui un artificiere della polizia ha provveduto a neutralizzare la minaccia. Non si segnalano vittime. Questo episodio è avvenuto solo a poche ore dalla ripresa di manifestazioni di massa organizzate da Hamas al confine fra Gaza ed Israele, nel contesto della cosiddetta Marcia del Ritorno. La tensione sta salendo, anche perché la settimana scorsa, nel corso di analoghe dimostrazioni, quattro Palestinesi sono stati colpiti a morte dal fuoco di militari Israeliani.
Purtroppo, oggi [inizio 2019] Gaza non fa più notizia davanti al marasma della Siria! La Siria e le sue atrocità inghiottano tutte le altre minori brutte notizie, ma forse per capire meglio la Siria e quanto sta avvenendo si dovrebbe meglio capire Israele, la Striscia di Gaza, il Libano, la Giordania, l’Iraq, il Qatar e mettendo in causa anche Arabia Saudita. Quello che dobbiamo tutti capire è, che la buona ed autentica politica deve essere tutta al servizio della Pace, come Papa Francesco non si stanca di ripetere.
La popolazione della Striscia di Gaza si compone oggi di circa 1.800.000 abitanti tutti Musulmani. Esiste infatti solo una esigua minoranza di Cristiani. Questi Musulmani sono in lotta tra loro. Il partito di Hamas, che è di fatto al potere a Gaza, lotta strenuamente contro il partito di Al Fatah. Non è una lotta politica, ma un vero e proprio scontro tra due clan, che sono irriducibili tra di loro. Dall’anno 2007 nella Striscia di Gaza la lotta armata tra Hamas e Al Fatah produce molti morti ed il recente conflitto israeliano dell’anno 2014 è stata l’occasione per regolare segretamente i conti tra queste bande rivali. Hamas e Al Fatah si uccidevano tra loro e poi gettavano i cadaveri nei luoghi bombardati dagli Israeliani.
A seguito della Battaglia di Gaza nel 2007, Hamas prese il controllo completo dell’omonima Striscia. Nel quadro di tali eventi e tra accuse di illegalità, a loro volta i funzionari eletti di Hamas furono eliminati fisicamente o allontanati dalle loro posizioni dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e i loro incarichi furono assunti da esponenti di Al Fatah e da membri indipendenti.
Il 18 giugno 2007, il Presidente palestinese Mahmud Abbas (Al Fatah) ha emesso un decreto che mette fuorilegge le milizie di Hamas. Hamas è elencata tra le organizzazioni terroristiche dal Canada, dall’Unione Europea, da Israele, dal Giappone e dagli Stati Uniti. È bandita dalla Giordania. Australia e Regno Unito elencano solo l’ala militare di Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, come organizzazione terroristica. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno adottato misure contro Hamas a livello internazionale. Secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti il gruppo ottiene finanziamenti da Arabia Saudita, Iran, espatriati palestinesi e finanziatori privati.
Entrare nella Striscia di Gaza richiede anche un’ora. Uscirci molto di più. Ci vuole pazienza; occorre sottoporsi alle meticolose perquisizioni dei soldati Israeliani, ai raggi X, ai body scanner. A volte anche spogliarsi, come proprio a me è successo, ed attendere senza indumenti in una stanza fredda. Il valico di Erez, il punto pedonale di accesso da Israele per la Striscia di Gaza, è il paradigma di come questo martoriato fazzoletto di terra, lungo 41 km e largo 12, sia divenuto da 12 anni una prigione a cielo aperto. La situazione di Gaza ha radici antiche, ma che ancora oggi spiegano molto bene la situazione.
Negli anni passati i Palestinesi, frustrati per l’onnipresente corruzione dei dirigenti di Al Fatah, non potevano più tollerare di vedere i convogli delle loro grandi fuoristrada nere sfrecciare per infilarsi nelle ville costruite con marmo di Carrara, a poche centinaia di metri dai campi profughi. Queste bellissime case ci sono ancora, proprio oggi, solo che i loro padroni sono oggi gli alti esponenti di Hamas. Dunque, ancora una volta, la Signora di questa guerra di clan è la corruzione. Uno schifo incredibile, che vedi e palpi nelle strade. Penso che nella Striscia di Gaza la corruzione sia presente in un modo così forte da essere forse tra i primi luoghi corrotti del mondo. E la Signora Corruzione non ha religione e non ha partiti: sono corrotti Musulmani ma anche Cristiani, è corrotto Hamas, ma lo era come abbiamo visto anche Al Fatah.
Interpretare la Striscia di Gaza solo con il contesto religioso è compiere un grave errore: non si deve dimenticare la Signora assoluta della Striscia, la Regina della Striscia che si chiama Corruzione, ammazza i poveri facendoli crepare miseramente, e premia i ladri, che vivono a Gaza in un lusso sfrenato, Musulmani e Cristiani. La corruzione si veste di opportunità e convenienze. E così, miliardi di euro di aiuti umanitari non cambiano la situazione e non cambiarono proprio negli anni passati. La situazione era sempre la stessa. Tragicamente la stessa.
Proprio in questa situazione allora vinse il partito che per la prima volta si era presentato come un partito: Hamas. Perché era il più onesto. Perché la sua leadership viveva nei campi profughi accanto agli elettori. La forza di Hamas non è stata prima di tutto politica, ma sociale. Hamas per anni aveva fatto quello che l’Autorità Nazionale Palestinese da anni faceva male, o non faceva quasi del tutto: provvedere ai bisogni ed ai servizi basilari della popolazione, tessendo un’organizzata rete di assistenza socio-religiosa. Quello portato avanti da Hamas era un welfare sociale parallelo. Visite mediche gratis, istruzione, materiale didattico, alimenti, favori a chi non riusciva a tirare avanti. In cambio si richiedeva “soltanto” riconoscenza al movimento islamico, a volte anche una frequentazione più assidua delle moschee. L’attività di Hamas fu insomma prima sociale che politica.
Da anni il movimento islamico però era inserito, come abbiamo detto, nella lista delle organizzazioni terroristiche di Israele e degli Stati Uniti. I suoi kamikaze avevano seminato la morte ed il terrore nelle città israeliane durante la seconda Intifada dal 2000 al 2005, ma Hamas aveva scelto il terrorismo già nel 1994 con i suoi primi attentati. Gli elettori palestinesi non se ne curarono, anzi ripagarono con il loro voto chi pensavano fosse meno corrotto degli altri, e più vicino a loro. Nemmeno Hamas si attendeva una vittoria di quella portata. Disorientato propose a Al Fatah di partecipare ad un governo di coalizione in cui gli uomini del movimento islamico detenevano le poltrone più importanti. Al Fatah si rifiutò. Israele chiuse i confini. Stati Uniti ed Europa interruppero in parte l’invio dei loro aiuti. Al Fatah e Hamas erano sempre più ai ferri corti.
In quei tempi Gaza era un territorio dove spadroneggiavano gang armate e fazioni dei rispettivi gruppi, che si dedicavano non di rado anche a estorsioni, furti e atti criminali. Ma questi fatti in modo molto nascosto permangono anche oggi, anzi oggi sono molto più forti. Le estorsioni sono normali, come in Messico, ed è molto pericoloso muoversi per Gaza da soli. Nel frattempo in quegli anni le carceri si erano riempite di “onorevoli” del Parlamento appartenenti ad Al Fatah, le loro case annerite, molti dei palazzi crivellati di colpi.
Ma come ogni regime, in poco tempo Hamas mostrò il suo vero volto. Quello di chi ha paura, di chi diventa intollerante verso il dissenso, di chi fonda le proprie politiche solo sulla minaccia di un nemico esterno. Via via che le operazioni militari israeliane acquisivano forza, Hamas si piegava su sé stessa. Diffidente verso tutto e tutti. Anche verso i giornalisti, che in principio godevano di una grande libertà di movimento nella Striscia. Uomini di Hamas sempre alle spalle, permessi particolari, zone off limits. Dal check point quando si entrava nella Striscia. Dove venivano aperte e controllate persino le bottigliette di acqua per capire se contenevano vodka o altre bevande alcooliche. I numerosi Internet caffè, simbolo di una supposto deriva occidentale, venivano presi d’assalto, mentre le donne coperte dal niqab, la veste islamica nera che nasconde il viso lasciando solo una feritoia per gli occhi, erano ormai la maggior parte.
Per arrivare ad oggi [inizio 2019], un recente rapporto della Banca Mondiale tratteggia la drammatica situazione nella Striscia di Gaza: il tasso di disoccupazione è il più alto del mondo, oltre il 43% dei residenti, ma tra i giovani il 60% non ha un lavoro. Il Pil pro capite è calato di oltre un terzo negli ultimi 20 anni. Ma anche il Pil non è un indice reale, perché rappresentato in gran parte dagli aiuti internazionali (peraltro in calo). Negli ultimi due anni l’economia si è così ridotta di almeno mezzo miliardo di dollari, mentre il tasso di povertà ha raggiunto il 42%, nonostante l’80% della popolazione riceva aiuti umanitari. Con la conseguenza che oggi la maggior parte dei quasi due milioni di Palestinesi della Striscia di Gaza non ha quasi nessun accesso a servizi essenziali, come acqua corrente e servizi igienici. L’elettricità è ormai un problema strutturale; molte persone devono convivere con 2-4 ore di corrente elettrica al giorno.
Questi i danni all’economia. Ma vi sono anche quelli, meno evidenti e eppur drammatici, sulla salute psichica dei minori. Secondo diverse agenzie umanitarie internazionali sarebbero 350.000 i bambini traumatizzati dalla sola guerra del 2014. La maggior parte dei 950.000 bambini di Gaza soffre di sintomi psicologici e comportamentali propri del disturbo da stress post-traumatico (Ptsd). In un rapporto delle Nazioni Unite del 2015 si affermava che se la situazione economica non cambierà entro il 2020, il territorio di Gaza diventerà invivibile.
Certo, in questa tragedia anche Hamas ha le sue grandi responsabilità. Il futuro dei ragazzi è circondato da muri e reticolati. A Gaza si nasce, e a Gaza, quasi sempre, si muore. Tra una guerra e l’altra. Quando si parla di Gaza bisogna parlare anche della loro rabbia. Una rabbia ormai antica. Anche nei più giovani.

Il soggiorno a Gaza si rivela più complicato e complesso del previsto, anche a seguito della mia ostinata scelta di viaggiare fuori dal mondo cristiano per incontrare le fasce più profonde di miseria. Eppure proprio in questa situazione di profonda disperazione ho vissuto il mio primo giorno del nuovo anno in un contesto di profonda fede. L’incontro infatti più forte e più provocante è stato con loro: con le Missionarie della Carità, con le suore più conosciute con il nome di suore di Madre Teresa di Calcutta. In questo viaggio per non farmi condizionare non ho voluto incontrare neppure un piccolo bambino del loro orfanatrofio, come del resto non ho incontrato neppure uno degli anziani del loro ricovero.
Eppure, proprio questa volta l’incontro con loro è stato di una potenza incredibile, quella forza capace di ridestare in me le ragioni più profonde del credere e il loro insegnamento si chiama Testimonianza: donne del genere hanno nel loro cuore la potenza di una bomba atomica, e loro sono state capaci di farla esplodere nel mio cuore. La scelta di queste semplici e povere donne è quella di uscire dal “cerchio magico” dei cristiani di Gaza, di uscire dal piccolo gruppo di persone che vivono sostanzialmente bene. Tali Cristiani sono professionisti con buoni stipendi: insegnano, sono medici e la Chiesa aiuta molto la vita comunitaria. Alla Santa Messa del Te Deum il 31 dicembre erano in chiesa, pochi, ben vestiti.

Le Missionarie della Carità a Gaza non frequentano i Cristiani o i Musulmani, ma frequentano i poveri ed io ero andato a Gaza non per incontrare Cristiani e Musulmani ma per vedere la miseria. E allora, dovevo seguire la loro pista, la loro strada e vivere anche i loro disagi e i loro pericoli.
L’incontro con la piccola comunità delle suore, il parlare con loro e il pregare con loro mi ha fatto tanto bene, mi ha curato dentro. Dopo aver calpestato strade polverose, visitato case come quella di Amina o di Ibrahim, tocchi con mano la disperazione, l’angoscia, il terrore e la paura. Nel cervello e nel cuore sei scombussolato. Dopo aver passato alcune ore nella centrale della polizia segreta di Hamas o dopo aver sostato nudo al check point israeliano sei spaventato, umiliato. Tutti questi elementi insieme sono destabilizzanti e ti senti disorientato e perso.
Così mi sono addormentato la notte dell’ultimo dell’anno con nel cuore tutto questo, ma mentre nel cuore avevo tutto questo, nella silenziosa e spartana stanza dove riposavo mi sentivo al sicuro, custodito dalla preghiera e dalla santità di vita di Suor Delfina, la superiora e delle altre sorelle. L’esperienza vissuta con loro è stata quella della preghiera: quelle sante donne hanno iniziato l’anno 2019 con il sacramento della confessione. Alle 06.00 del mattino, una per una sono venute a ricevere il sacramento della Penitenza, felici di questo momento. Nel cuore mi veniva alla mente la medesima richiesta avuta poche settimane prima in Kenya, dove a Chakama le due suore mi chiesero di confessarsi. Che meraviglia queste donne sante! Dopo la loro confessione abbiamo celebrato insieme la Santa Messa e poi mi hanno chiesto di svolgere una meditazione spirituale all’inizio del nuovo anno.

Mentre trascorrevo il tempo in preghiera con loro, le guardavo avvolte nel loro semplice sari bianco con i bordi blu e mi veniva in mente la scelta di quel vestito da parte di Madre Teresa che, nel 1950 quando fondò la Congregazione delle Missionarie della Carità, la prima cosa che fece fu abbandonare l’austero abito nero del suo ordine, e per essere più vicina alla gente del popolo andò in una bancarella di un mercato per comprare un sari. La sua unica richiesta era che fosse economico. Allora il commerciante le mostrò quel tessuto bianco grezzo che era disponibile in due versioni: con i bordi blu o rossi. Madre Teresa scelse quello blu, colore dedicato alla Madonna. Le tre righe rappresentavano i tre voti dell’ordine che stava per fondare ovvero povertà, castità e obbedienza. Da quell’anno quel vestito povero e semplice ha continuato a contraddistinguere queste umili e forti donne, che scelgono di vivere con i più poveri dei poveri e a Gaza i più poveri dei poveri non sono i Cristiani ma i Musulmani.
Sicuramente l’incontro con Amina e con Ibrahim è stato molto forte per me, ma la preghiera con le suore mi ha pulito dentro e regalato una grande pace. Arrivare fino a Gaza per pregare? Si, alla fine devo dire che la cosa più bella che ho potuto fare in quell’inferno sono state le ore di preghiera con le suore, con queste donne pazze che in mezzo a mille rischi decidono di servire Dio! Mi devo confessare, alcune volte nella vita di ufficio a Roma mi interrogo guardando la cupola di San Pietro: ma tutta questa ricchezza e sfarzo cosa ha a che fare con Gesù? Ma Gesù sarà davvero esistito? Sono un illuso? Ma la religione è un oppio alle mie domande di senso?
Qui a Gaza tutte queste domande sono polverizzate dall’esempio di Suor Delfina. Ma se una donna corre tutti questi rischi per il nome di Gesù, se vive in questa miseria umiliante con il sorriso sulle labbra o è pazza o Dio esiste! E sì, perché l’altra componente formidabile della mia esperienza spirituale con loro è quella di aver catturato il loro disarmante sorriso e di averlo rinchiuso come un tesoro nel mio cuore. Queste meravigliose donne curano i bambini disabili ed handicappati dei Musulmani, queste donne lavano e nutrono i vecchi Musulmani nel loro ospizio e spesso queste donne vengono odiate per la loro fede.
Fermo suor Delfina nel piccolo giardino dell’orfanatrofio. La buona superiora è una vecchia amica e insieme iniziamo una lunga chiacchierata, simile a quella di due amici che da tanto tempo non si incontrano. Guardo negli occhi la suora e le dico: “Ma suor Delfina, sono tanti anni che sei qui, non hai paura che qualche Musulmano ti possa fare del male?” Lei sorride, mi guarda silenziosa e poi con il volto illuminato da un tiepido sole invernale ripete a memoria lentamente delle parole a me note, ma che nel contesto di Gaza sembrano un tuono: “Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Suor Delfina non aggiunge neppure una parola, sta zitta e il suo silenzio parla al mio cuore.
Rispondo lentamente: “È vero amica mia, tu da molto tempo rischi la tua vita per Gesù in questo inferno, ma proprio tu, cocciuta e testarda come sei, sei sorretta dalla sua promessa che ‘neppure un capello del tuo capo perirà’. Grazie Suor Delfina, avevo bisogno del tuo esempio, avevo bisogno della tua testimonianza. Ti prego dammi la tua benedizione, me la voglio portare tutta in Italia nel mio ufficio, voglio lasciare la Striscia con il segno della croce da te tracciato sulla mia fronte”.
La superiora, sorride, alza il braccio destro e lentamente traccia il segno della croce sulla mia fronte. Mi fa bene quel segno di croce, è una medicina, mi riabilita. Scavo in me il cuore e vado a cercare le motivazioni più profonde per le quali giro il mondo nei posti più schifosi e pericolosi. No, non sono un social worker, sono un prete e la motivazione per la quale sono a Gaza è quella di incontrare Gesù nella sua carne e la sua carne sono i poveri.
La preghiera con le suore porta al mio cuore una grande pace. Quanto è strano questo viaggio: nel quale in mezzo alla miseria, alla guerra, alla mancanza di acqua, di elettricità, alla mancanza di siringhe per una iniezione ad un bimbo, mi metto a pregare con cinque suore! Proprio la preghiera è stata il cuore della mia esperienza a Gaza e questa esperienza è stata tanto, ma tanto bella.
Scrivo nella mia cella monastica essenziale e sobria nella quale sono ospite, dalla finestra posso vedere le tombe del piccolo cimitero cattolico della parrocchia di Gaza. Un viaggio complesso e complicato dai risvolti inquietanti. Alla fine del mese di novembre qui a Gaza ha avuto luogo una sensazionale operazione del Mossad, che si è conclusa con l’uccisione di un capo di Hamas e di altre cinque persone. Gli agenti dei servizi speciali israeliani si erano infiltrati per più di un mese sotto mentite spoglie di agenti umanitari in nome di qualche Onlus. Due donne e quattro uomini hanno vissuto sotto copertura a Gaza facendo beneficenza ed alloggiando in un hotel della città. Poi la spettacolare azione di forza con la quale hanno ammazzato un capo di Hamas, ma hanno scatenato una reazione tanto forte quanto imprevista nella quale per essere salvati hanno dovuto far intervenire elicotteri Apache israeliani.
Questa premessa non mi era molto chiara fino ad alcune ore fa. Scrivo o non scrivo? È l’ultimo dell’anno e la giornata è stata pesante ed anche problematica in senso critico. Scrivo in questo ultimo dell’anno da matti vissuto qui.

Erez, lo vedi da lontano da parte israeliana o dalla Striscia di Gaza e l’impressione è la stessa: un peso forte, soffocante sullo stomaco. Prova a mettere entrambe le mani sullo stomaco e a spingere forte, fino quasi a perdere i sensi: questa è l’esatta percezione del peso di quel muro che ti entra nel cuore attraverso il suo grigiore cupo, freddo e minaccioso.
La prima reazione, che subito nascondi a te stesso con un profondo respiro, è quella della paura. Il muro ti fa paura, ma non è la paura del muro messicano, o di quello che divide Betlemme da Gerusalemme, no il muro di Erez è molto diverso perché in quel valico chiamato Terminal per Gaza si concentra tutto: un confine, uffici di burocrazia, luoghi di perquisizione, celle di interrogatorio. Circondato da filo spinato, da telecamere, da palloni aerostatici per sorvegliare il territorio vicino, quando lo attraversi per entrare ti fa venir in mente la frase dantesca posta alla porta dell’Inferno: lasciate ogni speranza voi che entrate! Forte dei miei ricordi mnemonici di liceo, perché ai miei tempi ancora si studiava a memoria qualche cosa, ecco la frase che ripetevo attraversavo quel muro maledetto:
”Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ‘l primo amore.
inanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”
(Inferno, Canto III).
L’ingresso nell’Inferno, questo è il sentimento. Mentre invece l’uscita da Gaza, perché di questa voglio parlare, il muro è visto come ultimo ostacolo da superare per la libertà dalla enorme prigione di due milioni e mezzo di persone che li vivono. La prigione più grande del mondo, carcere a cielo aperto, che tenta di scimmiottare uno Stato palestinese.

Dopo la dura esperienza dell’incontro con la polizia segreta di Hamas, pensavo di aver esaurito le esperienze forti e nuove della mia visita a Gaza, ma mancava la classica ciciliegina sulla torta, o meglio il pezzo forte.
È da poco passato mezzogiorno. Abbiamo passato il check point di Hamas, dove i capi si scusano con me per avermi trattenuto in una centrale dei servizi segreti per due ore, in un pomeriggio da incubo. Arriva il momento del check point dell’Autorità Nazionale Palestinese, strette di mano e poi gli abbracci a Padre Imad e ad Edward, con la promessa di ritornare presto a Gaza.
Mi offrono il servizio del pulmino per il chilometro e mezzo che mi separa dal muro prima descritto, costruito dagli Israeliani. Lo rifiuto e cammino con lo zainetto in spalla, recito il rosario e lentamente il mastodontico, brutto muro si avvicina e il senso di oppressione cresce. Non vi è nessuno. Mi domando: ora quanto tempo mi faranno perdere? Prima che aprono, per i controlli? Andrà tutto bene? Arrivo vicino, la prima porta di cemento armato spessa mezzo metro è aperta. Entro, due metri dopo il cancelletto rotante è fermo e vi è il segnale rosso, alcuni minuti. Silenzio.
Le telecamere mi guardano. Scatta il verde con una specie di breve sirena. Giro il cancelletto e sono dentro. Salgo una salita di circa 80 metri. La porta della seconda barriera è aperta, entro e un uomo con una casacca rossa mi invita a compilare un formulario: quanti cellulari hai? Quanti tablet? Carica batterie? Computer? Asciugacapelli? Una infinità di domande sceme, rese ancora più sceme dal nuovo passaggio. Tre uomini con casacca rossa, addetti alle valigie mi fanno aprire lo zaino ed estraggono tutto, ma proprio tutto… fogli, bibbia, penne, mutande, camicie, penna usb, ecc… poca roba in verità, sembrano un po’ delusi dalle poche cose che devono togliere e sembrano addestrati ad essere rudi, io direi ad essere stronzi. Tono arrogante, secco, da imperatori.
In Israele anche un facchino messo in un luogo strategico si sente Presidente di Israele e il suo potere sembra immenso. Sembra un teatro fatto per intimidire, studiato nei minimi dettagli di escalation. Le comparse? Hanno tutte un ruolo e capisci il dramma solo alla fine. Da quel momento mi trovo senza nulla, nulla in tasca, senza documenti: scarpe, pantaloni, mutande, maglietta bianca e camicia grigia di fondazione santina. Nulla di più. Mi dicono di continuare. Il mio zainetto e tutta la roba scompare nella macchina a raggi X.
Altro squillo di sirena, si apre una porta a vetri. Altro facchino con casacca rossa, altra comparsa. Ti fa mettere davanti ad una macchina scanner sofisticatissima chiamata Total Body. Mi fa salire sulla piattaforma, mi fa allargare braccia e gambe, tolte le scarpe. Scendo. Il facchino dalla casacca rossa guarda in alto: lontano, dietro alcuni vetri una ragazza asciutta dai capelli lunghi guarda un monitor. La ragazza chiama al citofono: devo rifare lo scanner alzando camicia e maglietta, scendo. La ragazza chiama nuovamente al citofono: devo rifare lo scanner, salgo e scendo. Il facchino scompare e il silenzio piomba in quella specie di labirinto di corridoi del Terminal per Gaza, di quell’infame complesso costruito attorno al muro.
Il tempo che passa è di circa 5 minuti, ma il tempo nella sceneggiatura del dramma israeliano non è un accessorio, ma un elemento che unito al silenzio crea disagio, infonde subdolamente paura. Inghiotto e mi chiedo: qualche cosa non va? Ma che cosa? E la domanda ti martella il cervello, te lo riduce in poltiglia. Suona la sirena, si apre alla mia sinistra una porta di cristallo, dall’alto la ragazza mi dice di entrare. Si chiude la porta dietro di me e davanti ho un muro di cemento armato che incute soggezione: sta per andare in scena la parte centrale del mio passaggio della frontiera. Gli attori sono cambiati e li riconosci essere agenti della sicurezza, dal vestito scuro e dalle armi che portano. Mi dicono di entrare. Apro la pesante porta di cemento armato, faccio fatica, è proprio pesante… entro. La porta si richiude alle mie spalle e mi ritrovo in un bunker di pochi metri quadrati progettato per contenere eventuali esplosioni, ma l’effetto che fa è quello di entrare in una tomba che si è chiusa, in una cella, meglio dire, dalla quale non puoi scappare. Provo brividi, ma che cosa succede? Mai vissuta una cosa così.
Il silenzio pesante mi gela. Riesamino il mio soggiorno, prima di entrare a Gaza: tutto apposto; la mia permanenza a Gaza: le ore nella centrale di Hamas, ma qui non dovrebbero esser un problema. Ma perché sono in questo casino? Silenzio. Da una finestrella alta 30 centimetri e larga un metro si presenta un agente. Mi guarda, ora mi sembra di esser una cavia, fanno entrare del gas e ciao, ciao. Tutti i timori più incredibili concorrono a destabilizzarti. Devo stare calmo, non ho fatto nulla, più sono calmo e più le cose sono semplici. Il ragazzo lentamente mi dice di spogliarmi e di mettere tutto in una vaschetta: scarpe calze pantaloni, maglietta, mutante. Nudo, poi dopo venti secondi mi fa tenere le mutande. Metto tutto nella vaschetta che passa sotto un metaldetector attivato da fuori la cella. Mi fa sedere su una sedia di plastica grigia. Le mani sopra le ginocchia.
È freddo. Ma soprattutto ti senti nudo, ti senti umiliato, ti spengono dentro. Passano i minuti. Per non pensare inizio a recitare il rosario. Conto le Ave Maria chiudendo a pugno un dito per volta. Scelgo i misteri dolorosi. Lentamente si forma il pugno della mano destra e poi il pugno della mano sinistra. I miei misteri del rosario in una cella fredda scorrono così lenti. Sono confuso, cosa mi succederà. Ho paura a muovermi. Meglio stare fermi le telecamere osservano. E il tempo mi mangia dentro. Mescolo Ave Maria a paure, illazioni, supposizioni, forti incazzature, ho paura a sbuffare, ho paura a parlare. Inghiotto amaro, cerco di calmarmi: non ho fatto niente. Ma la paura ha il sopravvento, sbaglio a contare, sbaglio a pregare: dico l’Ave Maria in italiano, poi passo all’inglese, poi allo spagnolo, a francese. Un misto di lingue che mi ubbriaca.
Poi mi viene in mente Hamas. Almeno la vi erano Kasim e Amal: mal comune mezzo gaudio, ma qui: nessuno, sono solo. Quarto mistero doloroso: “Gesù porta la croce al Calvario”. La mano destra chiude pollice, indice e medio: tre Ave Maria.
Al di là del vetro spesso 5 centimetri nel cemento armato riappare l’agente del Mossad. Mi dice: “Ora si alzi lentamente e si sposti dalla sedia due passi. Sono un automa. Mi alzo e faccio a piedi nudi due passi. Sento il freddo intenso del primo di gennaio, del cemento armato e della paura salire dalla pianta dei piedi. Suona una sirena tre volte: bip, bip bip. Nel copione la sirena è fortissima soprattutto dopo un quarto d’ora in silenzio assoluto, il cuore batte forte. Entra un israeliano armato fino ai denti, deve essere uno dei capi e mi punta un fucile a ripetizione al petto e mi dice: “Stai fermo e non ti muovere per nessun motivo”. Per la prima volta nella mia vita sento un’arma da fuoco puntata contro di me alla distanza di soli 30 centimetri, ed anche questo ti spaventa! Entra il ragazzino vestito di blu, con la radio trasmittente e un metaldetector in mano.
Viene avanti a me, mi ordina di allargare le gambe. Sento il metaldetector sul testicolo destro, poi passa lentamente sul sinistro, poi sotto al sedere, poi le gambe, le braccia, la pancia, il petto… l’operazione dura forse un paio di minuti, ma mi sento di un male incredibile: un vortice nero di non senso, di inquietudine e di paura. La sceneggiata del terrore e dello spaventare sta per finire. Il ragazzo dice ok, nessun pericolo. L’agente armato di carnagione scura mette la sicura ed abbassa il fucile a ripetizione. Riprendo a respirare. Mi dicono: non si muova, le diciamo noi cosa deve fare. Escono, la porta di cemento armato si richiude e il ragazzo mi dice esattamente gli indumenti da rimettermi: maglietta, camicia, pantaloni, calze e scarpe. Faccio quanto mi chiede estremamente lento e accondiscendente. Mi guarda, il portone di cemento armato si riapre, percorro il labirinto e in fondo al labirinto trovo in un cassone bianco lo zaino con tutto in disordine, la mia bibbia aperta con fuori tutte le immagini, il progetto di aiuto all’ospedale con tutti i fogli sparsi, i 30 dollari che ho in tasca sparpagliati sul fondo, orologio, catenina, Ipad, telefonino, cavetti e batterie tutti setacciati, sparsi e disordinati, raccolgo tutto: trovo anche il passaporto. Respiro profondamente, mi dirigo al banco dei passaporti, altri 10 minuti di attesa e sono fuori, sono libero!
Salgo in macchina, il Patriarca Pierbattista Pizzaballa mi ha mandato un’autista a prendermi. Mi sento bene: gusto la libertà, ma nel cuore questa profonda e lunga umiliazione mi ha fatto bene, mi ha fatto sentire piccolo, un pirla, mi ha schiacciato, mi ha annientato per brevi minuti. Brevi minuti, ma sicuramente per me i più lunghi di tutta la mia vita.
Essere in una centrale di Hamas il giorno prima e rischiare una colonoscopia israeliana il giorno dopo ha del sensazionale. Una esperienza forte, di paura, di meschinità, di non senso nella Giornata Mondiale della Pace. Ringrazio Dio per averla potuta vivere e per poterla ora avere rimeditata e pensata.
Se arrivate a queste righe non pensate più a me, ma pensate alla Striscia di Gaza, pensate alla gente che nel mondo soffre ingiustamente, pensate a quanto non abbia senso la guerra e la violenza. Questa mia piccola e cretina esperienza vi farà bene se la utilizzerete come un modellino per leggere l’assurdità della guerra e di questi metodi che annientano le persone. Io ne sono uscito sconvolto e la notte dormendo sul pavimento dell’aeroporto di Tel Aviv in attesa di volare in Italia, due volte mi sono svegliato gridando. Ho bevuto un bicchiere di acqua e mi sono riaddormentato. Pensate quanto sono stupido mi sono spaventato per così poco, e allora gli altri che sono veramente umiliati dalla guerra e dalla violenza? Quanti urli faranno e quanti bicchieri di acqua dovranno bere nella loro lunga notte di disperazione?
Il report completo [QUI].
Mons. Luigi (Don Gigi) Ginami è Presidente dell’Associazione Amici di Santina Zucchinelli Onlus e della Fondazione Santina, con sede a Bergamo.
Postscriptum
«Non c’è niente come il valico di Erez – l’unica via tra Israele e la Striscia di Gaza bloccata – in qualsiasi altra parte del mondo. Il lato israeliano sembra un terminal aeroportuale, ma in realtà è una fortezza: palloni di sorveglianza e sensori di movimento monitorano sopra e sotto il mare e la terra che costituiscono di fatto i confini di Gaza, mentre robot semiautonomi, dotati di mitragliatrici, pattugliano la zona cuscinetto.
All’interno, il personale militare e di frontiera israeliano utilizza uffici collegati da passerelle rialzate per ridurre al minimo il rischio di attacco. Tornelli per una sola persona, labirinti di pareti mobili e passerelle in gabbia alla fine conducono al territorio palestinese.
Costruito negli anni 2000 per un costo di 60 milioni di dollari, Erez era stato progettato per agevolare circa 45.000 Palestinesi al giorno che lasciavano la Striscia di Gaza per andare a lavorare in Israele. Tuttavia, il gruppo militante Hamas subentrò appena quattro mesi dopo la sua fine, portando gli Israeliani – che occuparono Gaza dal 1967 al 2005 prima di ritirare le loro forze – a sigillare la frontiera. Per la maggior parte, la traversata è stata stranamente vuota negli ultimi 15 anni. Un’intera generazione di Palestinesi a Gaza non ha mai lasciato la piccola area di 41 km per 12 km, né ha mai incontrato un solo Israeliano.
Ora, questo sta cambiando un po’. Nel 2021, le autorità israeliane hanno iniziato a rilanciare i permessi di lavoro per un numero maggiore di persone come parte di uno sforzo per stabilizzare la Striscia di Gaza dopo la guerra di 11 giorni dello scorso maggio con Hamas, rilanciando un’economia che non può funzionare normalmente. Una ricerca pubblicata ad agosto dall’Istituto israeliano per gli studi sulla sicurezza nazionale ha rilevato che il salario medio di un Palestinese di Gaza che lavora in Israele è sei volte superiore a quello della Striscia, pari a 6.350 shekel al mese.
I permessi vengono conquistati a fatica, per i quali la maggior parte dei Palestinesi deve superare severi controlli di sicurezza israeliani, negoziare la burocrazia di Hamas e pagare intermediari che li mettono in contatto con i datori di lavoro dall’altra parte per il 20% dei loro guadagni.
Dall’occupazione di Gaza e della Cisgiordania nel 1967, Israele ha sfruttato sia la manodopera palestinese che le risorse naturali del territorio. L’economia israeliana fa affidamento sulla manodopera palestinese e l’economia palestinese, che è soggetta agli interessi e alle manipolazioni di Israele, fa affidamento sull’accesso ai posti di lavoro in Israele.
Nella prima parte del 2000, prima dell’inizio della Seconda Intifada, 26.000 lavoratori provenienti da Gaza registravano circa mezzo milione di uscite al valico di Erez, tra Gaza e Israele, ogni mese. Nel settembre 2000, quando iniziò la Seconda Intifada, Israele ridusse drasticamente il numero di permessi rilasciati ai lavoratori palestinesi nei territori occupati in generale e spesso impedì a coloro che avevano un permesso di entrare nel suo territorio, inclusa la chiusura del valico di Erez numerose volte e talvolta per tratti estesi negli anni successivi.
Nel marzo 2006, in seguito all’attuazione del Piano di Disimpegno da parte di Israele e circa due mesi dopo che Hamas aveva ottenuto la maggioranza dei seggi nelle elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese, Israele ha imposto la chiusura del valico di Erez per la festa ebraica di Purim. Al termine delle festività, ha bloccato l’ingresso dei lavoratori nel suo territorio e non li ha più ammessi fino alla fine del 2014. Dopo più di otto anni di divieto generale di accesso per i lavoratori di Gaza, Israele ha iniziato a consentire a un numero limitato di lavoratori da Gaza di entrare in Israele, ufficiosamente, con una quota di “permessi commerciali”, leggermente ampliata dopo la guerra del 2014.
Alla fine del 2021, pochi mesi dopo le ostilità del maggio 2021, quando Israele ha iniziato a revocare gradualmente la “chiusura del coronavirus” che aveva imposto al valico di Erez da marzo 2020» (Bethan McKernan, gennaio 2023).