Restituire la speranza ad una Terra Santa grondante di sangue. La buona politica è al servizio della pace. 8° viaggio di solidarietà e di speranza (18-22.03.2015) – Striscia di Gaza 2

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 10.10.2023 – Luigi Ginami] – Il terzo viaggi nella Striscia di Gaza si svolge in un momento storico, in cui le relazioni all’interno del complesso e frammentato mondo islamico si stanno complicando ancora di più. Lo scenario generale è quello dell’ISIS in Siria ed Iraq, ma anche Libia e Tunisia; di Boko Haram in Nigeria e di Al Shabaab in Somalia ed in Kenya. Nella Striscia di Gaza l’ISIS non è presente e Hamas, con le milizie Qassam si ispirano di più al mondo salafita che soggiace altresì ai Fratelli musulmani presenti in Egitto.

È di questi giorni, subito dopo il mio rientro [25 marzo 2015], uno sviluppo di straordinaria importanza nelle relazioni tra ISIS e Palestinesi. Per la prima volta, l’ISIS aggredisce direttamente Hamas, il partito estremista palestinese, e lo fa decapitando l’imam Yahya Hourani nel campo palestinese di Yarmuk in Siria. Dunque sembra apparire una evidente e stridente contrapposizione tra due modi fondamentalisti di concepire l’Islam, quello dell’ISIS, e quello di Hamas e dei Fratelli Musulmani presenti nella Striscia di Gaza.

Per capire la vita a Gaza che illustreremo di seguito, dobbiamo contestualizzare l’uccisione di Yahya Hourani e del significato più profondo di tale gesto, che ancora una volta svela il mondo islamico in profonda ebollizione ed in una apparente contraddizione. La decapitazione dell’imam Yahya Hourani, considerato la principale autorità religiosa del campo palestinese di Yarmuk, e la sua testa conficcata per spregio su un palo da parte dei miliziani jihadisti dell’ISIS e di Al Nusra, infrange l’ennesimo tabù.

I seguaci del sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi, nella loro offensiva terroristica per la leadership sull’islam sunnita, sono disposti a calpestare anche la causa palestinese. Tabula rasa.

I tagliagole conoscono perfettamente il valore simbolico di Yarmuk, trasformatosi lungo oltre mezzo secolo in una vera e propria città: di fatto la capitale della diaspora palestinese, suo centro culturale e terminale di una rete di assistenza sociale egemonizzata da Hamas. Dunque, uno schiaffo in faccia ai Fratelli Musulmani, la galassia integralista che non si è lasciata annettere dal progetto dello Stato Islamico, evitando che l’onda nera dilagasse anche nella Striscia di Gaza. Così come l’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita finora a reprimerne la diffusione in Cisgiordania.

«Quando lavoravo sul genocidio degli Yazidi, Internet era pieno di foto, video e persino riviste che propagandavano i crimini dell’ISIS contro le vittime. Ancora una volta, dopo il conflitto del Karabakh, film di torture e decapitazioni. Ora lo stesso in Israele. Tutto filmato in diretta e condiviso in rete. In passato, gli eserciti e anche i criminali più feroci cercavano di nascondere i propri crimini. Oggi, li condividono in modo sistematico, cercando di raggiungere quanti più spettatori possibile. È un’arma, contro le vittime innanzitutto, ma anche contro ciascuno di noi. Un’arma devastante da cui nessuno ha ancora capito come difendersi. Cercate, se potete, di proteggere le persone più fragili da questo terribile materiale» (Simone Zoppellaro, 8 ottobre 2023).

La brutalità omicida è l’unico linguaggio riconosciuto come efficace dai jihadisti: se i Palestinesi non aderiscono spontaneamente al loro progetto di conquista del potere, viene demolita anche la loro funzione di popolo-simbolo dei soprusi perpetrati in terra musulmana dagli occidentali. Più precisamente, l’ideologia premoderna del ritorno all’Età dei Califfi, salta a piè pari la vicenda novecentesca. Il popolo-martire non serve più a unire i Musulmani, essendo ormai giunto il tempo apocalittico di una islamizzazione globale, la cui prima tappa è espugnare le grandi città della tradizione post-coranica: oggi Damasco, Aleppo, Bagdad; domani la Mecca, Istanbul e il Cairo. Alle quali si aggiungono come bottino necessario, Beirut e Damasco.

Lo shock per l’occupazione jihadista di Yarmuk sarà grande anche nelle moschee dell’islam europeo, dove finora si è predicata la solidarietà attiva con il popolo palestinese come primo dovere di ogni buon fedele. Perfino riconoscendo legittimità religiosa agli attentati suicidi, purché insanguinassero la terra “occupata dall’entità sionista”. Impossessandosi del campo profughi di Yarmuk – con totale indifferenza per le sofferenze inflitte ai suoi abitanti, liquidati anch’essi come infedeli che non meritano di vivere – i jihadisti non esitano a ribaltare le priorità della guerra mediorientale. Lo stesso Israele diviene per loro un dettaglio secondario. Il mondo arabo che da oltre un secolo cerca la sua faticosa unità –dapprima col panarabismo di stampo nasseriano, poi con l’integralismo religioso – nella riconquista di Gerusalemme empiamente occupata, viene chiamato per prima cosa all’obbligo di assoggettarsi al Califfato. La distruzione di Israele e la causa dei Palestinesi vengono dopo.

Con un salto all’indietro di nove secoli, il nemico da sopprimere ovunque tornano ad essere “i Crociati e gli Ebrei”. Cui si aggiungono gli eretici, primi fra tutti i Musulmani sciiti, senza nessuna pietà per gli stessi sunniti che osano frapporsi al disegno oscurantista del Califfo. C’è, naturalmente, una buona dose di disinvoltura storica in questo salto all’indietro della storia. Poco importa ai seguaci di Al Baghdadi (ISIS) e Al Zawahiri (Al Qaeda) che gli Ebrei, insieme ai Cristiani bizantini, fossero anch’essi tra le vittime dei cavalieri crociati, nel XI secolo: oggi viene comodo confonderli nella nozione indistinta di Occidente pagano, arrogandosi la missione di unico monoteismo legittimato a dare la morte per abbattere l’idolatria.

Diviene così assai significativo, che la conquista del campo profughi palestinese di Yarmuk sia un’altra azione congiunta sul campo dell’ISIS e di Al Nusra, finora organizzazioni jihadiste spesso concorrenti fra loro. Ciò che rende purtroppo credibile la loro prossima unificazione sotto il comando militare di Al Baghdadi, trapelata nei giorni scorsi. I due eserciti, forse prossimi a riunirsi sotto la bandiera nera, hanno già dimostrato in Siria di considerare almeno tatticamente prioritario il braccio di ferro con il regime di Assad, rispetto a un confronto diretto con l’esercito d’Israele. Lo conferma la prudenza con cui si sono mossi finora sull’altopiano del Golan, cioè al confine con lo Stato ebraico, nonostante quella regione sia da tempo sottoposta al loro controllo.

I tagliagole avranno di certo calcolato di non essere attrezzati, per il momento, a uno scontro diretto con Tsahal [le forze di difesa israeliane (in ebraico traslitterato Tzva HaHagana LeYisra’el), anche note con la sigla IDF, in inglese Israel Defense Forces, spesso semplicemente chiamate Tzahal o Tsahal, sono le forze armate dello Stato di Israele]. Circostanza che ha alimentato fantasiose teorie del complotto sul sostegno di cui i jihadisti avrebbero goduto da parte degli Israeliani, come se questi ultimi fossero masochisti. Additare l’ombra del Mossad dietro l’ISIS resta così l’ultima formula auto-assolutoria di un Islam che non riesce a capacitarsi della proliferazione di un tale mostro crudele dal suo utero. Come è noto, il dilagare della guerra dalla Siria alla Mesopotamia ha già prodotto più di quattro milioni di profughi, venuti a sommarsi ai Palestinesi che dal 1948 vivono senza diritti di cittadinanza riconosciuti in Libano, Siria, Giordania e a Gaza.

I campi di raccolta dei nuovi profughi non riescono a soccorrere adeguatamente una popolazione vittima di una vera e propria catastrofe umanitaria. La distruzione di Yarmuk, il campo profughi palestinese trasformatosi nei decenni in una vera e propria nuova città alle porte di Damasco, ci rammenta che le ferite del passato, mai curate, sono fonte di nuove infezioni devastanti. Per affrontare l’esodo palestinese, disseminato in ben 59 campi riconosciuti, le Nazioni Unite istituirono fin dal 1949 una apposita agenzia: l’UNRWA. Ma da almeno un decennio all’interno dei campi palestinesi si sono organizzate, grazie ai petrodollari del Golfo e alla propaganda salafita, pericolose fazioni qaediste come Fatah al Islam, che ne contendono con le armi la leadership all’ANP e a Hamas.

È la peste jihadista che si propaga nella miseria della diaspora palestinese, dal campo di Nahr al Bared limitrofo a Tripoli di Libano, fino alla polveriera di Ain al Helwe nei pressi di Sidone. Campi che ospitano ciascuno più di centomila disperati, di fatto reclusi in balia delle fazioni in guerra tra loro. Anche Yarmuk, che si proponeva come capitale della diaspora palestinese, è stata oggetto di una contesa che vi ha visto dapprima prevalere il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, fuggito nel 2012 in Qatar essendo venuta meno, a causa della guerra civile siriana, la sua intesa con Assad. Ma non basta.

L’altro leader del campo di Yarmuk, rimasto fedele ad Assad, è Ahmed Jibril, fondatore del FPLP Comando Generale, organizzazione nemica dell’ISIS che di fatto ha circondato Yarmuk nel mentre veniva ridotta in macerie. Così adesso i diciottomila sopravvissuti in quell’inferno si trovano imprigionati fra due fuochi. E i palestinesi che volevano mantenersi neutrali dentro la guerra civile siriana, vengono trattati da traditori da entrambe le fazioni. La memoria inevitabilmente corre ad altri momenti storici in cui i campi palestinesi furono oggetto di violenze atroci, di cui spesso si resero colpevoli i confratelli arabi.

Come nel 1970 in Giordania, dove il tristemente celebre Settembre Nero provocò fra i tre e i cinquemila morti ad opera delle truppe beduine di Re Hussein di Giordania.

E poi Tell Al Zaatar, nell’agosto 1976 in Libano, dove furono i Siriani a uccidere circa duemila Palestinesi.

Fino a Sabra e Chatila, nel settembre 1982, dove i falangisti maroniti protetti dall’esercito israeliano sterminarono più di ottocento innocenti. Le cifre dell’odierna ecatombe siriana fanno impallidire le stragi del passato. E forse, più ancora delle crudeltà commesse a Yarmuk, il mondo è spaventato dalle bandiere nere giunte alla periferia di Damasco. Ma ancora una volta sono i Palestinesi le vittime sacrificali di un passaggio storico che annuncia guerra totale.

Sono tornato nella Striscia di Gaza per la terza volta [18-22 marzo 2015], dopo il mese di ottobre 2014 e il capodanno 2015 per vedere i lavori che la nostra Associazione Amici di Santina Zucchinelli Onlus sta realizzando nella parrocchia cattolica. Con questo motivo ho potuto approfondire e riflettere sulla vita difficile e dura a Gaza.

Molte volte si pensa a Gaza ed alla guerra dell’estate 2014: quei mesi di luglio ed agosto sono nel ricordo di tutti e le immagini portano a case distrutte, feriti, morti. Tutto questo è vero, ma costituisce solo la cornice di un quadro più complesso e strutturato che riguarda il mondo islamico che sta divenendo all’interno della Striscia di Gaza sempre più violento e spietato.

Il mio viaggio inizia nel giorno stesso in cui a Tunisi sono stati uccisi diversi turisti in un museo dagli islamisti legati all’ISIS. Dopo il volo notturno che mi porta a Tel Aviv e in seguito ad Askelon, dopo aver riposato presso l’Holiday Inn ha inizio la mia avventura a Gaza.

Giungo al valico di Erez alle ore 11.00 e dopo aver ottenuto il permesso dal governo israeliano, è la volta dell’Autorità Palestinese e poi di Hamas. Si devono avere tre lasciapassare: Israele, Autorità Palestinese e dal partito islamista che governa la Striscia.

Da più parti si sostiene con verità, che Hamas non è un partito, ma un gruppo terroristico, che usando la forza vuole la distruzione di Israele. Il primo nemico di Hamas è però non Israele o l’Occidente, ma il partito palestinese di Al Fatah che a Gaza non ha nessun valore e che spesso e volentieri è vittima di soprusi e di vessazioni da parte di Hamas. La strategia è la stessa dell’ISIS ed è quella di colpire prima di tutto il mondo moderato dell’islam, che non condivide la violenza ed il modo di procedere di Hamas, e così spesse volte le strade di Gaza diventano teatri di violenza tra musulmani.

Questo fatto in Europa non è sufficientemente chiaro, come non è chiara la galassia dell’intero mondo islamico in ebollizione sempre più grande. A Gaza immagini forti fanno comprendere questo.

La prima immagine forte è a pochi metri dal terzo check point, quello di Hamas. Edward mi ha appena accolto e sono salito sul furgoncino scassato della parrocchia della Sacra Famiglia, quando davanti a noi appare una camionetta con a bordo una decina di uomini armati, dalle immagini televisive mi viene da identificarli con i soldati dell’ISIS. Sono vestiti di nero, la testa è mascherata da un passamontagna nero, attorno alla fronte vi è una striscia verde, sono armati fino ai denti, le mani coperte da guanti neri, un kalashnikov in mano carico e pronto a colpire, coltelli nelle fodere attorno alla vita accuratamente serrati con una cintura nera. Mi incutono paura, un brivido mi percorre la schiena. Edward mi dice: “Monsignore, sono i soldati della milizia di Hamas chiamata Qassam. In questi ultimi tempi sono divenuti più aggressivi. Non dica nulla, stia calmo e lasci fare a me”.

Edward saluta cortesemente i militari che, dopo avermi scrutato, ci lasciano passare. Tiro un respiro di sollievo, ma dopo neppure trecento metri, un’altra camionetta mi provoca un altro brivido nella schiena. Un conto è vedere questi soldati negli schermi della televisione, un conto è vederseli davanti, con bandiere verdi che sventolano sopra la Jeep o sopra le camionette. Anche questa volta ci lasciano passare. Il nostro viaggio verso il centro di Gaza continua ma, ancora dopo neppure duecento metri incontriamo militari Qassam che procedono a piedi. Sono otto soldati. Edward non si scompone, un suo terzo intervento e finalmente la strada diventa libera. Mi riprendo dalla paura e chiedo ad Edward: “Ma questi militari hanno promesso obbedienza allo Stato Islamico?”. Il giovane mi risponde: ”Gigi, assolutamente no! Anzi Hamas qui nella Striscia non è ben visto, ma questo non è un bene! L’integralismo di Hamas è forse peggiore di quello del Califfato. Alcune settimane fa l’ISIS ha chiesto di poter aver un luogo di riunione ad Hamas per poter creare un coordinamento. Hamas ha concesso il luogo ed ha favorito l’incontro, ma poi li ha arrestati tutti. Per loro non è ancora giunto il momento di usare violenza verso i cristiani, ma anche questo non è buono. Il loro integralismo preoccupa noi Cristiani: cercano motivi per farci lasciare le nostre case e meglio ancora cercano di convertirci all’Islam. La loro polizia segreta è presente dappertutto.

“Scusa, ma quanti sono nella popolazione?” “Gigi, a Gaza siamo circa un milione e ottocentomila abitanti, come ben sai. I Cristiani tutti insieme sono solo 1.300. Il partito che governa Gaza può contare su 200.000 uomini. Cosa ti pare, 200.0000 uomini sono i padroni di tutta la Striscia: sono potenti, si autofinanziano e i tunnel producono per loro ricchezza; anche noi per vivere spesso dobbiamo rifornirci da loro. La sera è pericoloso uscire, la città è divisa in quattro parti e l’elettricità è presente solo in una parte. Con il sole che scende queste bande che hai incontrato escono per regolare conti e fare scorribande di ogni genere perché l’elettricità non vi è ed i generatori non sono presenti in tutte le case. Dunque a Gaza regna l’insicurezza e su questa insicurezza incombe un nuovo terrore di una nuova guerra di Israele che vuole finire il lavoro iniziato a luglio-agosto. Finire di colpire le postazioni ritenute strategiche di Hamas”.

Mentre parliamo giungiamo alla parrocchia e Padre Jorge e Padre Mario Da Silva, il Superiore dei Missionari del Verbo Incarnato, mi attendono per il pranzo. Ho per loro un bel regalo inviato da Papa Francesco: una Madonnina di Lujan in Argentina. I due sacerdoti baciano con devozione la statuina e la poniamo in cappella con una fotografia ricordo.

Il giorno seguente, con Padre Jorge usciamo per incontrare alcune famiglie povere e colpite dalla guerra. Saliamo in macchina e partiamo per Rafa, al sud della Striscia. Questa prigione a cielo aperto è lunga più o meno 40 chilometri ed è larga 6. In una mezz’ora possiamo percorrere il territorio e giungere a 6 chilometri dalla frontiera con l’Egitto. Durate il viaggio di ritorno da quella visita, avviene una cosa molto strana che nuovamente mi fa provare i brividi e mi dice della gravità della situazione.

Durante la mia permanenza ho scattato tante fotografie e forse tre fotografie tra le più innocue rischiano di divenire le più pericolose per la mia incolumità. Il vecchio pulmino di Padre Jorge attraversa la piazza di un centro abitato devastato dalla guerra. Vi è mercato, ma tale mercato, mi accorgo solo dopo, è popolato nella quasi totalità da uomini. Uno sparuto gruppo di donne rigorosamente in nero e con il volto velato, come avevo incontrato in Iraq, è impegnata nelle trattative di vendita. I colori mi colpiscono: dai neri vestiti delle donne e degli uomini, si passa al contrasto del rosso dei pomodori, del giallo delle banane, al verde delle verdure esposte alla vendita su pietosi carretti sgangherati. Pigri asini riposano al sole, alcuni giovani sono seduti su moto, le facce sono scure, oscurate da lunghe barbe nere, poche auto sono parcheggiate ai lati del suk.

Chiedo a Padre Jorge se sia possibile scattare fotografie. Mi dice di sì e così scatto tre fotografie molto generali, senza un soggetto particolare dalla macchina, mentre Padre Jorge gira a sinistra ed imbocca la via che porta alla strada principale verso Gaza. Stiamo tranquillamente chiacchierando e sono passati dai 3 ai 4 minuti, quando dietro a noi appare una moto con due giovani che ci intimano di fermare la macchina. Padre Jorge mi dice: “Gigi, sono della polizia segreta di Hamas, stai calmo e prepara i documenti”. Rispondo: “Jorge, i documenti li ho lasciati nella cassaforte della parrocchia, con me non ho nulla!” “Questo ora è un bel problema”. Padre Jorge scende dalla macchina ed inizia una tesa discussione, ma la sua abilità è sorprendente: “Scusate se vi abbiamo causato un inconveniente nel giorno della preghiera, perché oggi è venerdì. Questo mio amico ha scattato solo alcune fotografie turistiche, non è una spia”.

Alla mia mente ritorna l’Iraq, quando a Bagdad, entrando nella zona verde, imprudentemente avevo scattato delle fotografie. Quella volta, dopo lunghi discorsi, la mia imprudenza mi era costata la distruzione della scheda della macchina fotografica.

Questa volta il profilo era molto più discreto, ma molto più pericoloso appartenendo i due uomini alla polizia segreta. Meno male che con me vi era Padre Jorge. I due agenti iniziano il loro interrogatorio qualificandosi con i loro tesserini, dopo essersi qualificati chiedono al parroco i suoi documenti ed Jorge mostra patente e carta d’identità argentina. Poi è il mio turno. I due giovani mi chiedono di vedere le fotografie che ho scattato. Acconsento subito e per evitare la minaccia di vedermi confiscato il telefonino e per rassicurarli mostro ogni fotografia e senza che me lo chiedono cancello i tre scatti fotografici completamente innocui. Questo fatto distende il loro animo e permette a Jorge di continuare la trattativa. Padre Jorge dice di conoscere il capo della sicurezza di Hamas, ma i due militari non ci sentono e scattano a noi con il cellulare una fotografia. Questo un po’ mi impensierisce, ma Padre Jorge ha nel frattempo iniziato la telefonata con il loro capo. Passa il telefono a loro e a quel punto si apre un discorso cordiale, in cui i giovani ci invitano alla loro casa, secondo una formalità musulmana.

Padre Jorge ringrazia e gentilmente rifiuta, risaliamo in auto e partiamo verso la parrocchia. Dobbiamo stare ad Erez per mezzogiorno, perché il venerdì il valico israeliano chiude prima a motivo del sabato. Jorge mi dice: “Questa triste esperienza forse ti ha messo paura e devo essere sincero anche io mi sono preoccupato, ma ti mostra altresì come viviamo a Gaza ogni giorno. Questo è il mondo islamico in cui dobbiamo sopravvivere ogni giorno e nel quale la vostra opera di costruzione dell’oratorio porta un grande sollievo ed un grande aiuto. Non dimenticare quanto abbiamo vissuto questa mattina!”

Giunti in parrocchia, tutti e due prepariamo i bagagli e partiamo per Erez, nel primo pomeriggio rientriamo in Israele.

Il terzo viaggio a Gaza si poneva come obiettivo quello di verificare, come del resto il secondo viaggio, lo stato di avanzamento dei lavori di ristrutturazione dell’Oratorio parrocchiale della Sacra Famiglia. Con grande soddisfazione ho potuto vedere che la scala è stata ricostruita, sostituendo la pietra rovinata, che sono state restaurate e imbiancate le pareti delle aule e che sedie, tavoli, dispenser per acqua e servizi igienici sono stati ripristinati. Ho preso puntuali ed accurate ricevute che ho riportato in Italia per giustificare gli effettivi 10.000 Euro spesi per i lavori nella piccola comunità cattolica. I lavori che sono stati conclusi erano per un aiuto a giovani e bambini particolarmente provati dalla guerra estiva del luglio agosto 2014.

L’incontro con i bambini di Gaza è stata per me fonte di profonde riflessioni. In Europa i nostri bambini crescono in un ambiente tranquillo e di pace che è molto diverso dall’ambiente della guerra. L’ambiente della guerra dove i bambini di Gaza giocano e crescono provoca profonde ferite interiori che compromettono profondamente la percezione della vita. Non si tratta di ferite nel corpo, ma di ferite profonde nell’animo. Nella missione umanitaria del marzo 2015 due fatti mi hanno molto provocato e tali due fatti li voglio riproporre a conclusione.

In occasione della festa di San Giuseppe, lo scorso 19 marzo [2015], in parrocchia vi è stata la Santa Messa vespertina delle ore 17.00, alla quale ha fatto seguito un momento di festa nell’oratorio da noi ricostruito. In tale momento di festa vi era la tombola: più di duecento persone sono giunte nel grande salone, Cristiani cattolici latini, ma anche Ortodossi e Protestanti. Tutti insieme per giocare. Naturalmente io non capivo una parola di arabo e me ne stavo seduto in fondo alla sala gustando questo momento tanto prezioso di gioia. I bambini si avvicinavamo a me per scherzare. Che grande qualità hanno i bambini, sono in grado di parlare con la loro freschezza tutte le lingue: un sorriso, un gesto di simpatia è universale. Qualcuno di loro scarabocchiava il lato bianco delle schede di carta della tombola.

Ed allora incuriosito da loro, ho iniziato a chiedere con gesti e con poche parole di disegnare per me il volto della Striscia di Gaza. Ho raccolto così alcuni disegni: sono in totale 8 disegni, una piccola collezione con artisti del nome di Yussef, Serapion, oppure Suhial. La collezione è per me preziosa, essa mostra cosa i bambini pensano della loro città. E la parola è semplice e breve: guerra! Infatti degli otto disegni raccolti, ben sei rappresentano scene di guerra; e precisamente bombardamenti, sono aerei israeliani che bombardano e razzi della milizia Qassam che fanno da contraerea. Le mamme accorse a vedere i disegni dei loro piccoli, in inglese mi commentavano come quei giorni di disperazione aveva forse segnato più profondamente i più piccoli, scuotendoli profondamente nella notte con terribili ed assordanti bombardamenti. Le strade bloccate dai detriti e la vista dell’esercito israeliano ha creato profondi guasti e disagi in tutta la popolazione, specialmente nei bambini più piccoli e vulnerabili.

Il 20 marzo [2015], andando con Padre Jorge a visitare i quartieri devastati dai bombardamenti, nugoli di bimbi ci sono venuti incontro festanti per la novità dei visitatori. Mi ha particolarmente colpito una tendopoli che abbiamo visitato dove i piccoli ci fanno festa interrompendo un gioco che è quello della guerra. I fucili sono sostituiti da semplici bastoni che tengono tra le mani e tra di loro si sparano colpi di fucile. Forse tutti da piccoli abbiamo giocato alla guerra con armi di plastica, ma giocare alla guerra in un Paese dove la guerra non è un gioco, ma tragica realtà, mi si è mostrata come una parodia formidabile della pazzia umana che continua ad uccidere per motivi religiosi o politici. ma in una allucinazione collettiva che proclama l’assurdità della guerra.

Sicuramente sono forti e piene di verità le parole di Papa Francesco a Redipuglia che abbiamo citato nel nostro reportage e con le quali voglio chiudere queste pagine, con un monito alla riflessione.

«Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!» (Papa Francesco – Omelia della Santa Messa al Sacrario Militare di Redipuglia nel Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, 13 settembre 2014).

Mons. Luigi (Don Gigi) Ginami è Presidente dell’Associazione Amici di Santina Zucchinelli Onlus e della Fondazione Santina, con sede a Bergamo.

Il report completo [QUI].

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