Restituire la speranza ad una Terra Santa grondante di sangue. La buona politica è al servizio della pace. 6° viaggio di solidarietà e di speranza (28.12.2014-02.01.2015) – Striscia di Gaza 1
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 09.10.2023 – Luigi Ginami] – Sono ritornato per la seconda volta nella Striscia di Gaza e l’ho fatto per trascorrere l’ultimo dell’anno e il primo dell’anno, la Giornata Mondiale della Pace 2015, in una terra dove la pace non esiste, e con le vittime della guerra della scorsa estate. Proprio in questa terra vivere la Giornata Mondiale della Pace significa credere con Abraham B. Yehoshua che “non bisogna arrendersi alle violenze, parlare di coesistenza fra Arabi ed Ebrei in questa terra è ancora possibile”. È stata un’esperienza incredibilmente bella di condivisione e, mentre controllavo lo svolgimento dei lavori di restauro dell’oratorio della Parrocchia Sacra Famiglia a Gaza City, nel tempo libero ho incontrato le famiglie colpite dal lutto della guerra. È stata una esperienza di condivisione, preghiera e riflessione insieme con il sacerdote della parrocchia, Padre Mario Da Silva, le Suore della parrocchia e le Suore di Madre Teresa di Calcutta.

«Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!» (Papa Francesco – Omelia della Santa Messa al Sacrario Militare di Redipuglia nel Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, 13 settembre 2014).
È il 31 dicembre 2014, verso mezzogiorno terminiamo il lavoro di controllo del restauro degli ambienti dell’oratorio finanziati dalla nostra Associazione Amici di Santina Zucchinelli Onlus e così chiedo a Padre Mario di poter incontrare qualche famiglia in una delle zone devastate dalla guerra e il padre volentieri mi accompagna. Ci muoviamo in macchina verso una periferia di Gaza City, in città si sente forte la presenza di Hamas e la sua avversione verso l’Occidente, ma sono convinto che il dolore parla tutte le lingue e che l’incontro con le famiglie musulmane colpite dal lutto è un importante momento di condivisione.
La strada che percorriamo non lascia dubbi di essere in un territorio devastato dalla guerra: le macchine sono vecchie e piene di ammacchi e somari tirano carretti carichi di merce, l’asfalto è completamente sbriciolato in alcuni tratti, in altri enormi buche creano pazzeschi ingorghi, le case sono ridotte a pezzi, squarciate in alcune parti, completamente distrutte in altre. Da quello che erano le finestre appaiono bambini, anche se ridotte in pessimo stato, senza mobili, senza acqua ed elettricità, quegli scheletri di case sono abitati… Povera gente.
La nostra macchina gira a sinistra ed entriamo in quello che doveva una volta essere un giardino con una ventina di alberi da frutto totalmente divelti. Fermiamo la macchina per alcune fotografie e ci viene incontro un giovane uomo con due piccoli bambini. Uno dei due ha riconosciuto il padre perché frequenta la scuola cattolica della Sacra Famiglia ed è curioso di salutare il sacerdote dal lungo vestito nero. “Buongiorno, mio figlio ti ha riconosciuto e ti voleva salutare, viene alla scuola cattolica; io mi chiamo Mohammed Al Mughanni” Il bimbo di 7-8 anni scherza con padre Mario, l’uomo parla inglese e così non mi lascio sfuggire l’occasione. “Mohammed tu abiti qui? Qui vi è la tua casa? Mi puoi raccontare cosa è successo? Vorrei capire di più il dolore della Striscia e tu mi puoi raccontare tante cose ed insegnare molto”.
L’uomo dalla barba curata e dagli occhi neri come il carbone mi fissa negli occhi con un’aria di perplessità, tace un momento e poi diretto dice: “Ma perché vuoi sapere, troppi curiosi che vengono da fuori, percorrono le nostre strade alla ricerca di storie da raccontare, ma dopo aver scattato due fotografie e ricevute tre notizie se ne vanno via, scrivono articoli più o meno riusciti e tutto finisce lì”.
Anche il lo guardo fisso negli occhi e con calma, ma determinazione rispondo lentamente: “Io non sono un giornalista, non scrivo articoli, sono un sacerdote cattolico venuto dall’Italia che aiuta un altro sacerdote cattolico che vive qui. Sono il Presidente di una Onlus che sta ricostruendo alcuni locali della chiesa distrutti durante l’estate. Non guadagno soldi dall’incontro con te e neppure te li posso dare, ma tu pur di fede islamica puoi aiutarmi. Io non sto ad incontrare te per darti qualcosa, sono qui nella speranza di ricevere una tua elemosina, e cioè sono qui a parlare con te per ricevere da te qualche insegnamento da mettere nel mio cuore”.
Queste parole sembrano aver placato il nervosismo dell’uomo. Il suo volto si fa disteso ed al tempo stesso assume una profonda tristezza. “Vieni con me”, mi dice. Facciamo alcuni passi e dietro ad alcun sottili lastre di marmo, resto di quello che era la cucina, l’uomo scopre un pesante proiettile di carro armato. È spezzato in due. Il giovane compie un certo sforzo per alzare il proiettile e mi dice che pesa circa cinquanta chili. “Prova a prenderlo in mano”.

Non credo alle sue parole e ci provo, ma mentre lascia nelle mie mani quel proiettile avverto il peso di quel micidiale oggetto e il peso che esso sprigiona passa nello sforzo, dalle mie braccia al mio cuore. Padre Mario scatta una fotografia dove appare l’evidente peso del’ oggetto, ma rimane velato il peso che mi entra nel cuore. Mohammed riprende il proiettile e lo posa per terra, io avverto la liberazione dalle mie braccia di quel peso, ma il cuore rimane con una profonda tristezza. “Questo proiettile è stato sparato contro la mia casa ed ha portato distruzione. Io è la mia famiglia non eravamo più qui perché il 9 e 10 luglio l’esercito israeliano aveva avvisato tutto questo quartiere con volantini lanciati dal cielo, per telefono e radio che avrebbero distrutto le nostre case e così mi sono rifugiato lontano da qui in casa di un amico a Gaza City. È stata una devastazione totale, al nostro ritorno sembrava di essere all’inferno, animali morti per strada, cadaveri in decomposizione, distruzione totale, io ho trovato mio nonno e mio zio morti da quattro giorni nella strada. Solo la vista di questa morte, l’odore della morte producono uno stato confusionale, le gambe ti tremano, i pensieri si scoordinano, ti viene da vomitare, scappare, urlare… e poi tutto finisce in un pianto ininterrotto che offre una misera e magra consolazione”.
Mentre Mohammed parla, mi vengono in mente le parole di David Grossman, lo scrittore israeliano che recentemente ha parlato con toni molto duri della guerra di questa estate: “Stiamo precipitando nella dimensione del fanatismo e dell’irrazionalità, siamo ormai sull’orlo dell’abisso. Il conflitto che stiamo vivendo ha fatto un salto indietro nel tempo, è sempre più brutale e più selvaggio”.
Mentre Mohammed racconta le sue ferite interiori, mi invita con lui. Saliamo a fatica una piccola collina di detriti, attraversiamo due case squarciate e giungiamo così ad una piccola piazzola. “Gigi in questa casa devastata abita Ar Ir, vorrei farti vedere dove vive e farti ascoltare la sua storia”.
Mohammed si avvicina ad un uomo con una barba corta grigia e cieco dall’ occhio sinistro. La guerra a lui ha lasciato un evidente ferita nel corpo e con quell’occhio se ne è andata molta luce dalla sua vita. “Ar Ir Shamali, ti voglio presentare un amico venuto dall’Italia sta aiutando la ricostruzione di alcuni locali della scuola dove va mio figlio. Vuoi raccontare la tua storia di dolore, tu che hai perso due fratelli ed un nipote?”

L’uomo rimane in silenzio. Mi porto la mano destra al cuore e saluto in arabo: “Salam alaykum” ed Ar Ir mi risponde con un filo di voce “Alykum salam”. Che strano salutarsi con una invocazione di pace in un ambiente dove regna la guerra, mentre pronuncio quella frase “la pace sia con te”, mi chiedo quanto quell’augurio di pace sia disatteso a motivo dei nostri egoismi e dei nostri capricci.
L’ambiente della casa è molto oscuro, le pareti sono state riparate alla meglio con enormi pezzi di lamiera, solo dalle fessure giunge luce di mezzogiorno. Nell’appartamento diroccato sembrano uno scherzo quelle enorme toppe di lamiera in mezzo a detriti indistinti. Mi viene portata una sedia e pur nella estrema povertà giunge un ragazzo che mi offre sul vassoio una tazzina di caffè. Ringrazio per il gesto cortese, comune nel mondo arabo, e lascio spazio al silenzio. L’uomo penso che non abbia più di sessanta anni, ma sembra vecchissimo, invecchiato precocemente dalla guerra di luglio-agosto scorso.
Con un filo di voce Ar Ir inizia a parlare. “Dopo che l’esercito aveva avvistato del bombardamento e della distruzione, io avevo lasciato questa casa dove ora ostinatamente abito anche se da un momento all’altro potrebbe crollare. I miei due fratelli e un mio nipote avevano deciso di rimanere qui ed eravamo in costante contatto con i nostri cellulari. Erano fortunatamente sopravvissuti al bombardamento che ha così distrutto la nostra bella casa, ed erano contenti di questo e ringraziavano Allah. Poi però erano arrivati i terribili carri armati con l’esercito. Li avevano avvistati ed hanno iniziato a sparare. Erano stati colpiti in modo leggero e si erano rifugiati in queste rovine. Mi avvisarono per telefono che non erano gravi, ma che necessitavano presto di una ambulanza. Con grande eccitazione iniziai a chiamare, ma essendo questa una zona calda, nessuna ambulanza e nessun aiuto poteva giungere. Allora cercai di chiamare loro. Il cellulare suonava ma nessuno di loro rispondeva. Passati due giorni sono rientrato in questo quartiere che puzzava di morte e nella camera accanto, che ora ti mostrerò lì ho trovati uccisi da alcuni proiettili, erano immersi in una pozza di sangue mal coagulato e con i bossoli delle pallottole vicini. Li anno ammazzati a sangue freddo. Non sono morti per le precedenti ferite, ma sono stati trovati e giustiziati senza pietà!”
La sua voce diventa rauca e le lacrime percorrono la guancia destra, Ar Ir l’uomo invecchiato dalla guerra mi prende la mano sinistra, mi fa alzare e mi conduce nell’altra stanza diroccata. L’orrore mi coglie, mi mostra l’ombra di una chiazza di sangue scuro che rimane sul pavimento anche dopo diversi tentativi di pulizia. Gli occhi mi si riempiono di lacrime, provo un profondo disagio e disgusto. Vorrei fuggire, ma poi raccolgo le mie forze ed esprimo nel mio cuore una preghiera per quelle vite uccise in modo assurdo. La grande chiazza scura di cui il terreno si è impregnato merita rispetto e dal cuore, in modo passionale e senza previsione, nasce il prepotente desiderio di un gesto. Lascio da parte la mia vergogna e la repulsione e mi inginocchio per terra e con passione bacio quel pavimento. Mi rialzo con le labbra sporche di terra. Il vecchio mi guarda con una sorta di ammirazione, pulisce le mie labbra e mi abbraccia fortemente con un pianto che viene dal cuore.
A quel punto è lui a sorprendermi con un gesto inaudito. L’uomo prende un coltello e si inginocchia, con forza inizia a raspare il terreno. Gratta con forza quella terra, gratta con violenza e riesce a raccogliere da quella grande chiazza scura una piccola manciata di terra di un marrone molto scuro. Quella terra imbevuta di sangue la depone in un fazzolettino di carta. Con cura lo chiude e poi solennemente mi pone l’involucro nella mano destra dicendomi: “Questo sia il tuo ricordo del sangue sparso a Gaza, ricordati sempre degli uomini morti nella guerra e ricordati anche di me, di Ar Ir e del suo prezioso regalo!” Nascondo il volto pieno di lacrime e metto in tasca il mio regalo prezioso, do una carezza dolcissima a quell’uomo ed esco dalla sua casa.
La sera, nella Messa di conclusione dell’anno, sull’ altare nella cappella delle suore di Madre Teresa pongo quel fazzolettino di carta pieno di terra inzuppata di sangue e insieme con le sorelle preghiamo perché la pace torni a Gaza a motivo di un altro sangue, quello di Gesù, che berremo durante la celebrazione liturgica a conclusione dell’anno 2014.
Recentemente ho letto un romanzo di Amos Oz dal titolo Giuda, in cui si parla della situazione mediorientale. Un personaggio di tale libro parlando di Israele dice: “Due popoli che amano la stessa terra sono come due uomini che amano la stesa donna, ci sarà sempre odio tra i due”. Lo scrittore israeliano poi precisa smentendo questo paragone: “Succede dappertutto, non solo in Israele. Con una differenza: due uomini che amano la stessa donna non posso arrivare a un compromesso, invece due popoli che amano la stessa terra sono come due uomini che hanno una stessa casa: possono dividerla in due piccoli appartamenti e arrivano a un compromesso”.
Speriamo che nell’anno 2015 Israeliani e Palestinesi smettano di pensare alla Terra Santa come alla loro donna e inizino a vederla come una Casa comune in cui insieme abitare.
Mons. Luigi (Don Gigi) Ginami è Presidente dell’Associazione Amici di Santina Zucchinelli Onlus e della Fondazione Santina, con sede a Bergamo.

Il report completo [QUI].



























