Il peso del coraggio. 58° viaggio di solidarietà e speranza in Kenya. Beyond Borders
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 04.10.2023 – Vik van Brantegem] – Dopo la consueta Santa Messa di inizio viaggio, concelebrata domenica 17 settembre nel Santuario Madonna dei Campi di Stezzano, Don Gigi è partito il giorno successivo per il 58° viaggio di solidarietà e di speranza in Kenya. Questo nuovo viaggio è molto impegnativo ed è il più lungo dei 58 compiuti da Don Gigi finora e prevede tra altro l’inaugurazione dalla Fondazione Santina di un sistema di irrigazione dei campi aridi della prigione di Garissa vicino alla Somalia e nella missione di Mpeketoni come abbiamo riferito [QUI].
Dopo aver iniziato il 22 settembre il reportage del 58° viaggio, riportando il Report 58/1 – La bilancia del coraggio [QUI] di Don Gigi, il 26 settembre abbiamo riportato il suo Report 58/2 – Barak [QUI], che sarà il #VoltoDiSperanza N. 44. Il 29 settembre abbiamo riportato il Report 58/3 – Malanga [QUI], in cui Don Gigi ci ha fatto partecipe delle formidabili consolazioni di questa piccola Fondazione Santina nell’aiutare dei piccoli giganti, come Mary, a riscattarsi dalla loro minorità e povertà, imparando in modo eroico un mestiere. Il 2 ottobre abbiamo proseguito con il Report 58/4 – Saumu [QUI], il racconto di un triste caso di mutilazione genitale femminile. “Se la storia di Barak era un eroico dolore – conclude Don Gigi -, questo stupido inutile dolore di Saumu mi tormenta di più e solo nello scrivere, nel silenzio e nella preghiera trovo un po’ di pace”.
Oggi, nel Report 58/5 – Beyond borders Don Gigi cerca di contestualizzare come con Jimmy vive questi giorni dalle parti di Mpeketoni e Garissa in Kenya, sulla frontiera con la Somalia, tra paure, disagi ed insicurezze. Il viaggio da Garissa a Mashabaha sembra in set del film “Beyond the Borders”, ma qui la realtà è tristemente vera ed aggressiva, racconta.
Report 58/5 – Beyond Borders
“Beyond the Borders” è il titolo di un vecchio film del 2003, che forse alcuni di voi hanno visto. Narra la storia di un medico schierato dalla parte degli ultimi e di una ricca donna che lascia tutto per la medesima causa umanitaria. Lei è Sara e lui è Nik, ed insieme affrontano terribili vicende a fianco, fino alla morte di lei che inciampa in una mina cecena. Venire qui dalle parti di Mpeketoni e Garissa sembra entrare nel set di quel film, ma qui la realtà è tristemente vera ed aggressiva. Qui davvero si muore di fame e di sete o di terrorismo.
Prima di narrare [in un successivo report] del bellissimo progetto umanitario realizzato qui nel carcere di Garissa, cerco brevemente di contestualizzare come con Jimmy viviamo questi giorni tra paure, disagi ed insicurezze. Gli spostamenti non sono semplici. Sono bus infinitamente scassati, rumorosi e pieni alla follia di tutto. Sono le ore 4 del mattino, ci svegliamo ed a piedi con Jimmy giungiamo allo scassato bus, che copre il percorso Garissa–Mombasa. La nostra destinazione è Mashabaha. Lo chiamano express e meno male, immaginiamoci se non fosse express.
Nel buio giungiamo a piedi al bus. Sopra il tetto conto una trentina di taniche gialle di acqua, detta potabile. Le pesanti taniche sono fissate da una corda robusta, ma il peso mi appare comunque instabile. Saliamo ai nostri posti che sono davanti, solo che lo spazio tra le mie gambe ed il sedile di fronte è piccolissimo. Mi siedo e Jimmy avverte che è proprio scomodo per me. Si siede al mio posto, ma è scomodo anche per lui. Chiama l’autista e del discorso in swahili capisco solo la parola muzungu [1].
Il conducente mi guarda con uno sguardo sconsolato e ripete: muzungu! Ma viene poi da me e mi fa accomodare vicino ad un mussulmano somalo incazzato. Mi guarda severo e mi saluta secco: salam alaykum. Puntualmente rispondo: alaykum salam. Alla mia risposta accenna ad un sorriso, che mi rilassa e conforta molto. Alle ore 5 il pullman parte con un boato pazzesco. Il mio finestrino è rigorosamente aperto.
Uscendo da Garissa, al ponte il prima controllo e sono passati solo 5 minuti. Tutti scendono in fila con i bagagli. I soldati dell’antiterrorismo con il volto coperto controllano i bagagli e i documenti. Mostro il passaporto italiano e i controlli si fanno più fitti: perché sei qui, chi sei, da dove vieni e dove vai. Gli Africani aspettano pazientemente. Poi di nuovo tutti sul bus.
Alle ore 5 e mezza dai minareti di Garissa cominciano a strillare gli inviti alla preghiera e che succede? Il bus con le taniche gialle e pieno di bagagli, galline, pulcini e conigli si ferma. Quasi tutti i maschi scendono e le donne restano sul bus. Mi incuriosiscono e così scendo anche io. In gruppo quegli uomini stendono tappetini si rivolgono alla Mecca e pregano! Rimango incantato dalla loro profonda fede e del loro credere profondamente nel valore della preghiera senza remore e vergogne.
Vi immaginate se a Bergamo o a Roma a mezzogiorno gli autobus e le metropolitane si fermassero al suono delle campane per recitare l’Angelus? Probabilmente vi sarebbe una rivoluzione. Qui no, è culturale, è un valore, è un tempo sacro e noi abbiamo perso il senso del tempo sacro. Nel mese di agosto ero con Blanca in aeroporto a Tel Aviv per rientrare a Bergamo. Il volo era in ritardo e ci siamo seduti per terra vicini ai nostri zaini. Proprio in quell’angolo abbiamo visto giungere Musulmani a pregare rivolti verso la Mecca. Da Garissa a Tel Aviv, da uno scassato bus o da un elegante aeroporto, non fa nulla, si prega. Ecco, il valore sacro del tempo. Vi faccio una domanda: nella vostra vita avete ancora un pezzo di tempo sacro o no?
Terminata la preghiera il rumoroso bus riparte. La strada non è delle migliori, ma il goffo gigante procede. Recito il rosario. Passiamo un posto di blocco e poi… il pullman si ferma! Scendiamo. Il motore è andato, esce denso fumo nero. Una enorme chiazza di olio dalla parte della ruota anteriore destra fuoriesce gocciolando come un lavandino. L’autista dice che non vi è nulla da fare e che dobbiamo attendere un altro bus.
Scende il silenzio. Parlo con Jimmy un po’ spaventato. In effetti, sono l’unico bianco presente in cinquanta chilometri e non è bella l’impressione in una terra di terroristi somali incazzati! Mi viene in mente Barak e sudo freddo nel caldo torrido. Fortunosamente, dopo non molto tempo giunge un bus più scassato del nostro, con evidenti problemi alle sospensioni. Ci caricano tutti sul quell’affare e questa volta quasi biblicamente al posto dei primi posti ci offrono gli ultimi posti in fondo al bus, ma meno male! In quel tanfo posso aprire anzi spalancare il finestrino e ti dico non è poco-
Le sospensioni sono andate e ogni volta è un salto. Una donna che sta allattando si arrabbia, perché ogni balzo fa sussultare il lattante che perde il capezzolo. Le galline indispettite fanno sentire la loro voce e ogni tanto un gallo impazzito canta. Altro che “Beyond the Borders”!
Dopo due ore di questo casino il botto. Il bus si scontra con un camion che trasporta balle di paglia. Nessuno si fa male. Il nostro bus riporta evidente lesione ad uno specchietto e qualche graffio. Qui la parola assicurazione non esiste e tra i due autisti inizia una lite tutta somala dai toni inquietanti.
Scendiamo tutti e Jimmy mi dice: ora se le danno di brutto! Porca miseria: mi mancava questa occasione, autisti che si azzuffano e uno riparte con occhio nero! Mi allontano per fare una pipì che non esiste e seguo da lontano la scena. Quando gli animi si sono acquietati dopo circa mezz’ora rientro e il bus rombando prosegue il suo viaggio. Vi risparmio il racconto di altri tre posti di blocco, per dirvi che giungiamo a Mashabaha a mezzogiorno stanchi morti e con la sabbia rossa e fino a nelle mutande. Sono stravolto ma felice di essere sopravvissuto.
Questo è il modo di viaggiare nel nord del Kenya, nelle terre di Lamu, Mpeketoni e Garissa. Proprio in queste terre abbiamo vissuto una lunga settimana nella quale abbiamo inaugurato dei bellissimi sistemi di irrigazione a Mpeketoni ed al carcere di Garissa. Proprio di Garissa vi parlerò successivamente, ma prima è troppo forte il desiderio di raccontarvi due dolcissimi gesti che in una terra tanto severa e spartana allietano il cuore. Si tratta di Blanca e Sister Josephine. Solo le donne sanno compiere con raffinatezza gesti di dolcezza in modo umile ed è proprio questa umiltà che dà valore al piccolo gesto che compiono.
Iniziamo da Blanca. Con Blanca a Bergamo prepariamo insieme il bagaglio per il lungo viaggio di 24 giorni. Stabiliamo insieme quanti e quali indumenti mettere, quelli che devo lavare ogni tre giorni, ecc. Lascio Blanca sola a chiudere la rossa valigiona che tutti conoscete. Giunto in Africa estraggo a Mashabaha la biancheria per tutta la settimana a Garissa e Mpeketoni. Vedo un pacchetto e penso che siano delle mutande. Lo metto nello zaino.
Stanco morto all’arrivo a Mpeketoni, la sera dopo aver ascoltato l’amara vicenda di Barak [QUI], nella cameretta spartana della missione mi accingo a fare la doccia, mi spoglio e lavo sotto l’acqua della doccia mutande e camicia, metto tutto su di un omino come Silvana mi aveva insegnato e cerco nello zaino le mutande. Ne trovo una in mezzo a tre camicie, convinto di trovare nel pacchetto mutande. Lo apro e un sacco di caramelle colorate cade per terra.
Ma da dove vengono? Mi commuovo. Ma guarda Blanca, che bella sorpresa mi ha fatto! Non mi era mai capitato di trovare caramelle in valigia, soprattutto in una giornata amara e dura come questa. Ne prendo una, è al gusto forte di menta e mi metto a scrivere un messaggio alla donna ecuadoregna che senza dire nulla mi regala dolcezza in una amara giornata di sangue. Mi commuovo e mi viene in mente un brano del Vangelo: chi avrà lasciato fratelli sorelle, campi e case per il mio nome riceverà cento volte tanto e la vita eterna!
Mi chino per terra ancora avvolto dall’asciugamano della doccia e conto le caramelle, sono 24. Le divido a metà: 12 per i bambini che incontrerò, sei per Jimmy e sei per me, in verità 5 perché una la sto mangiando. E poi il simpatico problema: ho solo 2 mutande, dunque ogni sera ne lavo una e la metto a stendere. Esco dalla stanza e regalo a Jimmy le sei caramelle di Blanca e conto in tasca altre 5 caramelle. Andiamo a cena e nel cortile della missione alcuni bambini stanno giocando e mi vengono incontro festanti. Tocco le caramelle in tasca e non resisto: le regalo a loro e penso che Blanca sia felice.
Ma dovete sapere cari amici, che un gesto di bene produce a catena altri gesti di bene. Il bambino corre incontro a Suor Josephine e regala a lei una delle sue caramelle. La giovane suora non ci pensa due volte e la mangia felice. Il piccolino dice a lei che è stato Don Gigi muzungu a dare le caramelle. Lei mi guarda con un dolcissimo sorriso e ci invita a cena. La cena è davvero semplice e povera: un bicchiere di acqua, un pugno di riso in bianco con alcune carote bollite. Niente di più. E qui, ecco, Don Gigi mostra tutta la sua stupidità. Al termine della cena la suora chiede: “Volete mangiare altro?” Jimmy dice subito in modo diretto e secco: “No grazie Sister Josephine, va bene così!” Io non capisco e con fare ipocrita ed umile chiedo: “Non hai per caso una mela?” La suora si fa triste e mi risponde: “Purtroppo no padre, da queste parti è difficile avere mele”. Divento rosso e mi sarei riempito di ceffoni per la vergogna. Chiedo scusa e mentre ritorniamo alle nostre stanze Jimmy mi rimprovera: “Ma Gigi, cosa chiedi da queste parti? Non vedi che è tutto secco, che non cresce nulla, figurati una pianta di mele, le comperano da lontano”.
Mi sento stupido. Ci sediamo sul gradino della porta e Jimmy fa un gesto bellissimo: “Dai padre mangiamoci due caramelle di Blanca, sorrido divertito e gusto lentamente la più buona caramella della mia vita. È tardi e la stanchezza è forte, sento tutte le ossa rotte. Sto per andare a dormire nel caldo torrido di Garissa, quando sento bussare alla porta. È Sister Josephine con nella mano destra un tovagliolino di carta che nasconde qualche cosa: “Scusa Gigi – toglie il tovagliolino dalla mano – sono riuscita a trovare nel villaggio una donna che aveva mele, ne ho comperato una per te. È lavata e tagliata, mangiala. In questi giorni non ne troverai molte”.
Chiudo la porta e scoppio a piangere. Mangio lentamente quella mela divisa in quattro parti e mi vergogno ed allo stesso tempo penso ad un Dio buono che se da una parte mi toglie amici, parenti, casa e lavoro, dall’altra mi regala cento volte tanto. Sono 24 caramelle ed una piccola deliziosa mela lavata e tagliata in quattro parti. Devi venire in Africa per capire questo, devi venire a Mpeketoni e Garissa, devi venire dove si contano le caramelle e si tagliano le mele in quattro spicchi. Solo allora capisci che Dio ti ama con un Amore “Beyond the Borders”. Grazie Blanca e grazie Sister Josephine, non siete Sara, ma siete molto di più e la vostra vita è preziosa per questi gesti.
Postscriptum
Il giorno dopo chiamo Blanca dalla Wi-Fi della missione. La ringrazio e scoppia a ridere: “Gigi nella valigia rossa troverai altri pacchettini così, non sono mutande ma caramelle colorate e di diverso gusto. Sono quasi convinta che tu non le mangerai ma le darai tutte ai bambini. Tienine almeno qualcuna per te e Jimmy”. Rido divertito: ho trovato gli altri pacchettini misteriosi, non ci sono più ed in tasca conto 6 caramelle da condividere in tre serate con Jimmy. Ciao a tutti, vostro Nik! E ricordate, solo Dio e nessun altro ci ama con un Amore “Beyond Borders”.
Il muezin chiama alla preghiera e recito l’Angelus Domini!
[1] Muzungu viene chiamato in Africa la persona che non ha la pelle color ebano, al plurale diventa wazungu. Però, la parola non vuol dire “uomo bianco”, né tanto meno “occidentale”, categoria tutta nostra.
È una parola bantu, derivato dal kiswahili “mzungu”. Togliendo il prefisso, rimane la radice “zungu”, un aggettivo tradotto con “strano o meraviglioso”. Poi zungu o zunguka è la parola per indicare il girare nello stesso punto che tradotto letteralmente, quindi significa “qualcuno che va in giro” o “vagabondo”, originariamente appartenente agli spiriti. Il termine fu usato per la prima volta in Africa per descrivere commercianti ed esploratori arabi, indiani ed europei nel XVIII secolo, apparentemente perché si muovevano senza meta.
Il termine non riferisce soltanto a “qualcuno con la pelle bianca”, perché può essere usato per riferirsi a tutti gli stranieri più in generale. Però, traslare il significato da “strano” a “straniero”, rischia di far perdere quella sfumatura cruciale che rivela lo stupore che gli Africani hanno probabilmente provato, di fronte ai primi stranieri, percepiti, non tanto come stranieri (in senso politico), ma come esseri strani, appunto; con quella pelle così diversa, ricoperta di peluria, magari con gli occhi color del mare e i capelli lisci, come il crine della zebra e rossi come la sabbia del deserto, padroni di tecniche e tecnologie (buone e cattive, capaci di guarire e di uccidere), incomprensibili e per questo meravigliose.
Il possessivo kizungu si traduce come “comportarsi da ricchi”. Tradizionalmente, gli europei erano visti come persone benestanti e ricche e quindi la terminologia è stata estesa per indicare persone benestanti indipendentemente dalla razza.
[2] Salam alaykum è un saluto in arabo che significa “la pace sia con te”. L’espressione forse più conosciuta nei Paesi non-arabofoni è as-salāmu ʿalaykum. È il saluto diventato religioso per i Musulmani in tutto il mondo quando si salutano, sebbene il suo uso come saluto sia anteriore all’Islam, ed è comune anche tra gli Arabi di altre religioni (come i Cristiani Arabi e gli Ebrei Mizrahi). Il saluto equivale all’italiano “ciao” o “buongiorno” e riceve in risposta wa ʿalaykumu s-salām, abbreviato alaykum salam. La frase completa è as-salāmu ʿalaykum wa-raḥmatu -llāhi wa-barakātuhū, che significa “la pace sia con te, così come la misericordia di Dio e le Sue benedizioni” Inoltre l’espressione ma‘a as-salāma, tradotta “con [te] la salute”, ha lo stesso significato di “arrivederci”. Nel linguaggio colloquiale, spesso si usa solo la prima parte della frase, salām, che è una parola semitica legata al significato di “salvezza, salute, pace”. Questo saluto nella sua forma abbreviata è utilizzato come saluto generale anche in altre lingue.