Il fondamento evangelico della giurisdizione ecclesiastica: distinzione fra foro interno e foro esterno’
L’autore conferma che numerosi e pregevoli sono stati gli studi canonistici dedicati all’istituto del foro interno e alla potestà che la Chiesa esercita in tale ambito sebbene sia mancato, in tempi recenti, un lavoro approfondito sul tema specie alla luce della nuova codificazione del 1983. Il termine foro assume pertanto diversi significati: è anzitutto il luogo in cui si teneva il mercato (ad es. il foro boario); è poi il luogo dove si definivano le vertenze giudiziarie contenziose. Ma col tempo il termine viene ad indicare anche la potestà stessa del giudice in ordine alla definizione delle liti, come pure il territorio all’interno del quale un determinato giudice poteva esercitare la propria potestà di giudizio.
In questo senso già Isidoro di Siviglia intendeva il termine foro: «Forus est exercendarum litium locus […] Constat autem forus causa, lege et iudicio»3. Il foro è quindi il tribunale, il luogo dove le
controversie (causae) sono discusse nel rispetto della legge (operazione che prende il nome di
iudicium) e danno origine ad un pronunciamento autoritativo da parte del giudice (iustitia). In ulteriori e successivi sviluppi il termine foro va dunque associandosi ad altre specificazioni per cui si parla di foro ecclesiastico, di foro civile, di foro misto, a seconda della materia, della causa da dirimere e dell’organo giudiziario competente a giudicare. ( nota n. 5: Il termine foro ecclesiastico indica inizialmente la potestà riconosciuta ai vescovi, successivamente al 313 d.C., di «un vero potere giurisdizionale nelle cause mere ecclesiasticae»; nel suo sviluppo storico il termine verrà ad indicare il più ampio sistema delle relazioni tra Chiesa e Stato ( tematica oggi oggetto del Diritto ecclesiastico, distinto dal Diritto canonico), la prima costituzione è del 23 giugno 318, la successiva costituzione del 333 è più esplicita sulla natura della giurisdizione episcopale.
La nozione di foro interno si sviluppa da quella più generale di foro ed ha probabilmente origine in
ambito ebraico dal momento che si comincia a distinguere in questo contesto la giustizia terrena dalla giustizia divina sebbene nell’Antico Testamento non esista un termine specifico per indicare la
coscienza. Dio vede nel cuore degli uomini ed è dunque in grado di giudicare anche quelle questioni
che l’uomo non rende manifeste a terzi7; è dunque il cuore dell’uomo a svolgere il ruolo
corrispondente a quello che, a partire soprattutto da Paolo, verrà svolto dalla coscienza (alla
quale farò cenno in prosieguo) in quanto è nel cuore dell’uomo che la parola di Dio giunge come
un giudizio (ad es. in Gen 3, 7-10; 1Sam 24,6; 2Sam 24,10; Gb 27,68; Eccl 7,22).
Nella versione dei LXX il termine συνείδησις (syneidesis), che nel Nuovo Testamento designa la
coscienza, è rinvenibile solamente in pochi passaggi (ad es.: Sap 17,10 ed Eccl 10,20). Nel Nuovo
Testamento il termine conosce più ampia utilizzazione12. Se nei Vangeli esso non viene utilizzato è
invece soprattutto S. Paolo ad introdurre nei propri scritti il termine syneidesis, di derivazione stoica, ma con un significato in parte differente. Paolo infatti, a differenza dei greci, ritiene che la coscienza non debba essere completamente libera ma debba assoggettare il suo giudizio (1Cor 4,4) a quello di Dio (nota n. 13: Nei Vangeli, come avviene nell’Antico Testamento, è il termine cuore che indica la coscienza dell’uomo, cfr. mt 15,17-20).
Così ammonisce Agostino (354-430) quando esorta a tener presente che Dio vede direttamente nell’intimo della coscienza di ciascuno: ‘Torna all’intimo della tua coscienza, interrogala’.
S. Ambrogio (339/340-397) evidenzia il fatto che Dio giudica non tanto in base ai fatti esteriori, ma
soprattutto secondo le scelte che ciascuno compie secondo coscienza. È infatti nella coscienza che
ciascuno compie le scelte in grado di condurlo alla pienezza della vita eterna o, viceversa, alla
dannazione.
Tuttavia l’attenzione rivolta da Paolo, e confermata dagli scritti dei Padri nei confronti
della coscienza, ha indubbie ripercussioni sulla prassi penitenziale della Chiesa. Il nostro autore
evidenzia che nel noto episodio di Cesarèa di Filippo (da me specificato in premessa) allorquando
Pietro professa la sua fede in Gesù «Cristo, Figlio del Dio vivente» (mt 16, 16) e, in virtù di tale
professione di fede, Cristo gli conferisce non solo il primato sulla sua Chiesa ma contestualmente gli attribuisce la facoltà di rimettere i peccati proprio in vista del raggiungimento della salvezza (mt 16,19), analogo potere è attribuito pure agli apostoli (mt 18, 18; cfr. anche Gv 20, 21-23).
Si viene così a creare, tra le due realtà, un’articolazione problematica in cui si pone un problema di delimitazione tra la sfera della coscienza individuale e la sfera dell’intervento dell’autorità ecclesiastica; dicotomia che caratterizzerà tutta la successiva evoluzione della nozione di foro interno ed i suoi sviluppi in una continua tensione tra l’interno e l’esterno ‘che ho già esplicitato’.
Se il problema in senso teorico si proporrà solamente in un momento successivo è pur vero che sui citati passi biblici la Chiesa ha fondato, quanto meno a far data dal III secolo, la prassi penitenziale della concessione del perdono dei peccati attribuendo tale potere dapprima ai soli vescovi e, successivamente, anche agli altri presbiteri.
Per quanto concerne i primi secoli si può dunque affermare che in virtù della potestà di rimettere i
peccati la Chiesa inizia a svolgere un fondamentale ruolo salvifico che non si limita alle questioni
giuridiche attinenti esclusivamente le faccende, sia temporali che spirituali, che potevano essere risolte nel foro esterno, ma inizia ad occuparsi pure di quelle riguardanti direttamente la santificazione delle anime e dunque la sfera propria e personale di ciascun singolo fedele (foro interno).
Rimaneva però un problema che può essere posto nei seguenti termini: «le trasgressioni, fossero state esse solo peccati, o fossero state anche delitti (già ho citato il testo in merito elaborato dal Card. Palazzini), si rimettevano soltanto con questo genere di penitenza, con dipendenza dal foro esterno, oppure esisteva altro genere di penitenza, con la quale si rimettevano i peccati, almeno sacramentalmente, senza la dipendenza dal foro esterno?».
Come meglio vedremo sarà solamente il concilio Laternanense IV nel 1215 ad introdurre una più
dettagliata disciplina circa la confessione privata dei peccati e di conseguenza una embrionale
distinzione tra competenze di foro esterno ed interno (intervista: https://www.google.com/url?sa=t&r%2Fwww.letture.org%2Fforo-interno-genesi-ed-evoluzionedell-istituto-canonistico-costantino-m-fabris&usg=). Si può dunque affermare che non esiste una definizione di foro interno per tutto il primo millennio di storia della Chiesa, dal momento che in questa fase si è andato certamente definendo il sacramento della penitenza (forum poenitentiae) ma non si è elaborata alcuna distinzione relativamente agli ambiti di esercizio della potestà della Chiesa nel senso che noi oggi attribuiamo al termine potestas (alla quale ho fatto riferimento citando le attuali norme sancite dal CIC).
A seguito del concilio Lateranense IV e del perfezionamento della prassi penitenziale nella Chiesa, si va in ogni caso sviluppando sempre più il genere letterario delle Summae confessorum.Sebbene, inizialmente, si produce una sorta di giuridicizzazione della teologia in realtà gli sviluppi successivi fanno capire come, a partire da questo momento, si avvia un lento processo di separazione tra diritto e morale che si compirà in modo definitivo solamente con l’avvento dell’era contemporanea e, parallelamente, fioriscono i grandi trattati di teologia che affrontano in modo organico ogni aspetto riguardante il sacramento della confessione e i risvolti relativi al suo esercizio da parte degli ordinati in sacris.
(Fine seconda parte)



























