La speranza di poter essere umano nei tempi grami di questo mondo immondo
Il Meeting di Rimini celebra i 150 anni dalla nascita dello scrittore, poeta e saggista francese Charles Péguy (Orléans, 7 gennaio 1873–Villeroy, 5 settembre 1914) con una mostra dedicata alla sua idea di società e di lavoro, che non è solo fatica da sopportare, ma dà senso all’esistenza. Péguy vicino alla Sorbona fondò la libreria Bellais. Nel 1900, dopo il quasi fallimento della sua libreria, si distaccò dai suoi soci Lucien Herr e Léon Blum e fondò la rivista “Cahiers de la Quinzaine”, allo scopo di far scoprire nuovi talenti letterari e pubblicare le sue opere. Si convertì al cattolicesimo nel 1907. Da allora, produsse sia opere in prosa di argomento politico e polemico – Notre Jeunesse (La nostra giovinezza), L’Argent (Il denaro) -, sia opere in versi mistiche e liriche. La sua intransigenza e il suo carattere appassionato lo resero sospetto sia agli occhi della Chiesa di cui attaccava l’autoritarismo, sia ai socialisti di cui denunciava l’anticlericalismo e in seguito il pacifismo. Tenente della riserva, durante la Prima Guerra Mondiale si arruolò nella fanteria. Morì in combattimento, all’inizio della prima battaglia della Marna.

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 19.08.2023 – Renato Farina] – Don Luigi Giussani, Charles Péguy. Si tratta di tenere insieme i due, il prete milanese e il poeta d’Orléans, per capire che cosa sia il Meeting di Rimini. Vale per tutte le edizioni che ho frequentato, dal 1981 in poi. Ma adesso di più, quest’anno i due sono faccia a faccia, devono stare parecchio vicini perché i tempi sono grami. Diciamocelo: non è soltanto la speranza del mondo ad aver rinunciato a dare qualche colpo di gong, con le illusioni utopistiche delle ideologie, ma quella stessa che porta con sé la Chiesa risulta sfiancata, demoralizzata, intristita dove le fazioni trasformano ciascuno i propri santi in santini, li incollano a un album di ricordi, e li sventolano.
Con Giussani e Péguy è impossibile. Se poi stanno insieme forse si può vivere, saltar fuori dalla pozza paludosa del lamento o della rassegnazione. Queste sono nella mia esperienza le due personalità immortali che o, ad ascoltarle, a immedesimarsi con la loro esperienza, sono in grado di far pulsare il muscolo del cuore, la sorpresa di una luce aurorale, una fontana sparita e riemersa, la grazia di un nuovo inizio. Credo che i due abbiano stipulato un’alleanza. Se si reggono l’un l’altro è impossibile siano trasformati in santini, collocati nella loro epoca e fi sepolti in gloria, incensati, onorati, inutili. L’operazione che credo sia possibile, quella che Péguy chiamava “la meccanica” da porre in atto, è accorgersi che sono letteralmente immortali, cioè non sono morti, sono viventi.

Il titolo del Meeting che si apre domani e durerà fino a venerdì 25 agosto è una frase di Don Giussani. La scrisse a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, in un testo sullo Spirito Santo. «L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile». Verrebbe da dire: utopia, sogno, bugia. Ma hai visto in giro quel mostro a cento teste che si chiama guerra mondiale a pezzi? Hai notato a cosa sono ridotti i rapporti umani, materiale buono, se va bene, per il gossip? Verrebbe da dire che è la guerra una pulsione inesauribile. Eppure perché quando rivedo certi filmati dove lui parla, rimedito incontri trascritti nei libri, capisco che l’orrore è non guardare le stelle. Il mistero della bontà che emerge comunque, anche nelle trincee, dove uno dà la vita per l’altro. Ma non basta dirlo, occorre che la fontana zampilli. Dio è questa amicizia in sé che si squaderna fino a morire per noi, proprio noi, per darci pienezza, bellezza, essere. La vita di Don Giussani (Desio 1922 – Milano 2005) è questo dramma, lui dava questa amicizia, il Meeting si chiama “per l’amicizia tra i popoli”. E – presumo – anche dentro i popoli. Io qualcosa del genere ho visto sotto le divise dei volontari. Ma non lo scrivo per fare l’apologia delle brave persone. Ma perché non è un giochetto per un reality. Il mettersi la maglietta colorata e pulire i cessi, o la cravatta e accogliere i big del mondo, c’è di mezzo il caso serio della vita, la domanda sul senso dell’esistere.
Qui ci soccorre Charles Péguy (Orléans 1873-Villeroy 1914). La mostra curata splendidamente da Ubaldo Casotto si intitola La grande inquietudine. Péguy e la Città Armoniosa. L’amicizia che diventa il tessuto della società. Inquietudine e armonia Giussani e Péguy sono stati questo. C’è una vibrazione che li accomuna e dura. Fu Giussani a farlo conoscere ai ragazzi. Quando Gioventù Studentesca fu travolta da decisioni ecclesiastiche in combinato disposto con i moti studenteschi, si chiamava “Centro Charles Péguy” il luogo che raccolse di semi giussaniani da cui fiori Comunione e liberazione.
Se c’è stato un poeta, scrittore, editore, giornalista, correttore di bozze, socialista, anticlericale, cristiano immoralista, cristiano senza sacramenti essendone amantissimo, sposato civilmente con Charlotte-Francoise, volontario nella prima guerra mondiale da tenente, per “il disarmo generale e l’ultima di tutte le guerre”; ma con uno slancio morale, una tensione al cielo, la comunicazione con gli scritti e la sua quotidiana esistenza, del torrente impetuoso della grazia come nessuno, ecco questo è Péguy. Impugnava Jeanne d’Arc, cui dedicò le sue opere più belle, per offrirsi come un agnello ai lupi. Mori sulla Marna, al primo colpo della prima battaglia. Macron non ha voluto che un uomo così fosse messo accanto a Victor Hugo nel Pantheon.
Fu tutto e apparentemente il suo contrario, ma non è vero, non è affatto vero. Non poteva credere a un Dio astratto, non gli importava esistesse. Gli interessava fosse incarnato, la bellezza che ti abbracciava insanguinata per amore, tutte quelle robe lì che mi vergogno a scrivere perché bisogna esserne all’altezza e io no. Ma Giussani e Péguy aiutano a vivere, a rivivere, a saltar fuori dal buco della noia, non sono una stanza di conforto e sicurezza, ma una “travolgenza” (neologismo). Città Armoniosa è una società che nasce adesso se si dà spazio a Gesù dopo che Gesù è stato fattoi sparire. Non sintetizzo. Cito da L’Argent. Che senso ha il lavoro?
«Una volta, un cantiere era un posto della terra dove gli uomini erano contenti. Oggi un cantiere è un luogo della terra dove gli uomini recriminano, pretendono, si battono, si scontrano. Ai miei tempi tutto il mondo cantava. Nella maggioranza dei mestieri si cantava. 014ii ci si arrabbia. (…) Nella maggior parte dei laboratori si cantava. Oggi si sbuffa. (…) Noi abbiamo conosciuto un onore del lavoro esattamente eguale a quello che nel medio evo governava la mano e il cuore. Era lo stesso conservato intatto fino a noi. Noi abbiamo conosciuto uri attenzione fino alla ricerca della perfezione, sia nell’insieme, che nei più piccoli dettagli. Noi abbiamo conosciuto questa pietà dell’opera ben fatta, adeguata, soppesata a tenere conto delle necessità più estreme. Durante tutta la mia infanzia io ho visto impagliare sedie con lo stesso spirito, lo stesso cuore e la stessa mano, con cui lo stesso popolo aveva costruito le sue cattedrali. Cosa resta o lei di tutto questo? (…) Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. (…) Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti odi non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. (…) Cosa mai è divenuto tutto questo. Ogni cosa, dal risveglio, era un ritmo e un rito e una cerimonia. Ogni fatto era un avvenimento, consacrato. Ogni cosa era una tradizione, un insegnamento; tutte le cose avevano un loro rapporto interiore, costituivano la più santa abitudine. Tutto era un elevarsi, interiore, e un pregare, tutto il giorno: il sonno e la veglia, il lavoro e il misurato riposo, il letto e la tavola, la minestra e il manzo, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la scala, e le scodelle sul desco. Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene».
Questo articolo è stato pubblicato oggi su Libero Quodidiano.



























