Summis saliens viribus
De vulpe et uva
Fame coacta vulpes alta in vinea
uvam adpetebat, summis saliens viribus.
Quam tangere ut non potuit, discedens ait:
«Nondum matura est; nolo acerbam sumere».
Qui, facere quae non possunt, verbis elevant,
adscribere hoc debebunt exemplum sibi.
La volpe e l’uva
Spinta dalla fame, una volpe, saltando con tutte le sue forze,
tentava di cogliere l’uva su un’alta pergola.
Come si accorse di non poterla raggiungere, mentre si allontanava, disse:
«Non è ancora matura, non mi va di raccoglierla acerba».
Coloro che svalutano a parole quanto non sono in grado di fare,
devono applicare a se stessi questo esempio.
(Fedro, Favole IV 3)
La volpe, a causa del suo colore rossastro, nell’antichità era considerata come spirito del fuoco. I romani, durante la festa di Cerere, per prevenire il carbonchio del grano, mandavano nei campi le volpi con fiaccole accese legate alla coda. Nella S. Scrittura ciò che caratterizza la volpe è l’astuzia e la malvagità. Quando Gesù, riferendosi a Erode, dice ai farisei: «Andate a dire a quella volpe…» (Lc 13,32) usa l’immagine per indicare l’individuo subdolo e il sovrano iniquo. Nella favola di Fedro, la volpe contraddistingue l’uomo che usa l’astuzia per nascondere la propria incapacità di realizzare qualcosa, unita alla malvagità, svaluta quelli che sono in grado di operare valori e sono capaci di elevarsi per cogliere la sublime arte del bello e del buono nella declinazione delle loro molteplici, cromatiche e sinfoniche espressioni. La sola astuzia senza intelligenza è un sottoprodotto. Non a tutti è data l’umile intelligenza di accorgersi dell’incapacità a sapersi elevare per raccogliere i frutti maturi e gustosi. Si ha, forse, l’impulso che tende ad afferrare ciò che si desidera, ma se l’oggetto si trova in alto e manca la capacità di spinta per elevarsi non si gusteranno mai i frutti del bello e del buono. L’incapace, talvolta, può anche avere reazioni di presunzione imbelle che lo inducono a svalutare e distruggere quanto non è in grado di capire o di fare.
Quest’incapacità di percezione e di rifiuto, la troviamo descritta nel vangelo di Giovanni, quando Gesù, annunciando il dono di sé nella sua Parola e nel Pane di Vita, provoca la reazione del rifiuto e della lontananza (cfr. Gv 6,60). Chi vuole garantire e prolungare la propria vita, la rappresenta come esistenza biologica assicurata soltanto dal pane materiale o come sopravvivenza dell’anima assicurata dal cibo dello spirito. La vita che Cristo annunzia e realizza per l’uomo è del tutto diversa perché è nascosta nella Vita della Trinità beata. Gesù termina il suo discorso sul Pane di Vita offerto nel Banchetto eucaristico con queste parole: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo… Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui… Questo è il pane disceso dal cielo… chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51.58b). La reazione negativa dei discepoli a queste parole di Gesù è chiarissima. La folla delusa si rifiuta di fare dipendere la Vita eterna dalla “carne” e dal “sangue”, cioè dalla vita fisica di Gesù. L’identità tra parola e pane di vita, tra questo “pane” e la sua “carne”, provoca lo scandalo producendo lo scisma. Scandalo e scisma, però, si superano solo con l’accoglienza di fede nella Parola che riunisce tutti in un solo Corpo. È Pietro, infatti, a esprimere il gesto di fede con la solenne professione: «Tu sei il santo di Dio» (v. 69).
Il banchetto eucaristico, anche se è lo stesso degli altri banchetti dove ci si nutre fisicamente, tuttavia non è banchetto come gli altri, ma è segno e simbolo di vita eterna. Per gli incapaci, comprendere questo linguaggio è, evidentemente, duro. L’incapace svaluta le parole di vita perché non va oltre per elevarsi e accogliere il dono dall’Alto. Non voler comprendere il Verbo fatto Carne, la Carne fatta Cibo di Vita nella Chiesa Corpo di Cristo, significa non volersi elevare per lasciarsi afferrare dal sublime Mistero svelato e rivelato. In effetti, non possiamo credere che il Maestro Gesù parli in questo modo per non farsi capire o per aumentare le responsabilità morali dei suoi uditori. Ciò che il Maestro buono non vorrebbe, lo fa il cattivo discepolo che, incapace e inerte, resiste agli sforzi supremi del Maestro e, ottuso e sciocco, respinge la Parola di vita, accrescendo, in tal modo, le proprie responsabilità.
Capita anche nel campo dell’arte trovare simili atteggiamenti di rifiuto che sono manifestazioni tipiche dei superbi invidiosi, degli inetti arroganti, dei pigri di mente, degli incapaci presuntuosi. Chi non sa cogliere la sublime bellezza, dice che essa è difficile, inarrivabile, incomprensibile. Oggi, purtroppo, ci troviamo di fronte alla difficoltà di un linguaggio pubblicitario consunto. Tutto è mercato, spettacolo di se stessi o delle proprie cose, espresso a base di “superlativi” dannosi e ridicoli che hanno tolto comprensione e fiducia in quelle realtà che hanno autentico valore culturale. Il consumismo e la mercificazione, diventati mostro divoratore del nostro tempo frettoloso, insidiano i valori più alti dello spirito e i frutti più gustosi dell’umano ingegno. Tutto ciò che è considerato facile e accessibile non è altro che banale e consueto, infantilistico e popolano che respinge ogni sforzo di studio, di ricerca e d’impegno. Si parla oggi di “pensiero debole”, ma quanta “musica debole” invade lo spazio sonoro diventato sempre più linguaggio anticulturale e diseducativo! Dio non voglia che questo modo “inespressivo di esprimersi” sia il modulare di quel canto che celebra il Mistero!
Il canto della bellezza liturgica, purtroppo, talvolta è affidato agli afoni e ai sordi, con l’amara conseguenza che l’unghia affilata della maldicenza assassina e dell’ironia malevola continua a tracciare geroglifici offensivi, infamanti e distruttivi. L’arte vera non si vende e perciò diventa difficile. Tra l’apertura del fiore e il suo appassimento non scorre più il tempo della naturale maturazione, i valori sono bruciati senza lasciare tracce di memoria. Quello che angoscia nel profondo è il costatare come questo processo di morte distrugga i frutti maturi e squisiti dell’umile e gustoso umano operare serio e costruttivo. Oggi, chi regola la vita sono la ricchezza, il potere e lo spettacolo. Non sono forse queste le tre tentazioni che Gesù affronta e respinge, donandoci l’esempio e la forza per poterle affrontare e respingerle anche noi?
Mi sovviene alla memoria la bolla del 12 marzo 1802 che papa Pio VII scrisse per ripristinare l’autonomia all’arcidiocesi di Monreale. Essa inizia con queste tre parole: Imbecillitas humanae mentis. Il suo predecessore Pio VI, per complesse e ambigue cause politico-economiche ed ecclesiastiche, senza sopprimere la Diocesi, le aveva tolto l’autonomia unendola all’Arcidiocesi di Palermo. Aldilà dello spiacente fatto storico, piace evidenziare quelle tre parole d’inizio: imbecillità della mente umana. Sappiamo che il termine imbecillitas indica debolezza, mente fiacca e priva di energia causate da limitata capacità di comprensione o da comportamento stolido. L’imbecillità è sclerosi intellettuale, paralisi spirituale, pigrizia mentale. Essa costituisce una sorta di “morte prima” che può precedere la “morte seconda”, cioè quella fisica, perché la vera vecchiezza, più che vera esistenza, è sopravvivenza a se stessi.
È urgente apprendere l’arte dell’imparare per non barare mai. L’ignoranza arrogante e la mediocrità presuntuosa generano sempre falsa cultura anonima e paralizzante, con collassi e frantumazioni d’ogni genere. Sappiamo che gli antichi consideravano la vanagloria segno d’imbecillità e di debolezza mentale. L’uomo, chiuso nella sua autosoddisfazione soggettiva, può essere paragonato all’uomo autistico, chiuso nel mondo delle sue rappresentazioni mentali senza possibilità di comunicazioni con gli altri. Quest’atteggiamento può condurre l’individuo a quello sganciamento dalla realtà proprio degli stati schizoidi. L’imbecillità orgogliosa è deformità tipica dell’individuo che si arroga il diritto di giudicare gli altri o le opere degli altri come se solo lui fosse il primo, l’unico e il migliore; credendosi la causa prima di sé, in effetti, è “fuori di sé”. L’egocentrico, nella sua imbecillitas, è incapace di amare, di servire, di dialogare, di elevarsi alla sublime bellezza per gioire nel gustarla. L’imbecillitas è l’opposto della simplicitas che, etimologicamente, significa “senza piega”, senza ripiegamento su se stesso: il vedere le cose così come sono senza proiettarsi con le proprie idee e ideologie auto-idolatriche e, perciò, limitative.
Avvicinare, coltivare, acquisire familiarità con la grandezza della vera e varia cultura non è stato mai pernicioso per il convivere umano, anzi, è ricchezza che eleva e nobilita, costruisce e arricchisce. Al disotto della mediocrità non germogliano mai semi destinati ad altre feconde e sinfoniche primavere. La vera cultura costituisce sempre un fertilizzante organico che, attraverso la potatura e l’innesto, operazioni dolorose e critiche, se vogliamo, trasformano la pianta in albero fecondo con esplosioni di fiori e frutti. Ogni cultura rispettabile è costituita da “verità antiche” trasformate in “nuove verità” in forza del calore genuino e della forma reinventata con cui sono comunicate al mondo.
Saper percepire e gustare l’arte del bello e del buono, create in tutte le epoche, non è privilegio di una classe etica né di una casta culturale né, tanto meno, di un potere politico. L’attrazione, la percezione e il gusto della vera arte, è dono offerto a tutti. È urgente educare a elevarsi per lasciarsi attrarre dalla sublime bellezza: essa è espressione di verità e di bontà.