Volare al di sopra della tempesta come l’aquila
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 17.08.2023 – Vik van Brantegem] – Aquila non captat muscas è una locuzione latina, tradotta letteralmente: “L’aquila non cattura le mosche”. In senso figurato, l’espressione indica che chi è in alto e potente non si cura di piccoli obiettivi o piccole persone, come detto in Elephas indus culices non timet (L’elefante indiano non teme le zanzare), De minimis non curat praetor (Il pretore non si occupa di cose piccolissime), Ubi maior minor cessat (Dove vi è il maggiore, il minore decade) o Roma locuta, causa finita est (Roma ha parlato, la causa è definitivamente chiusa), l’espressione estrapolata dai Sermones di Sant’Agostino e riferita alle questioni sottoposte al giudizio della Curia romana o dello stesso pontefice… che – così dicono – un tempo era tenuta come universalmente valida. Come lo era anche l’espressione l’aquila non cattura le mosche, in quel ambiente una volta, quando lì le aquile volavano ancora come delle regine, alto e maestosi, al di sopra delle tempeste. E non come i gabbiani, che volano basso e strisciano per strada, catturano le colombe nella tempesta.
L’aquila, grazie alle sue caratteristiche di grosso rapace, dalla vista acutissima, dal volo maestoso, dalla capacità di volare ad altezze irraggiungibili e piombare con velocità impressionante sulle prede, ha destato in tutti i popoli antichi il mito dell’invincibilità, paragonato ora al sole, ora al messaggero degli dei o allo stesso Dio. Se il leone è ritenuto il re degli animali terrestri, l’aquila è la regina dei volatili. Nell’antica arte sumerica si trovano reperti archeologici, che mostrano un animale con corpo di aquila e testa di leone: emblema di sovranità sulla terra e sul cielo. Simbolo celeste e solare, l’aquila indica pure acutezza mentale e d’ingegno, tanto che ancora oggi, parlando di una persona di intelligenza mediocre, se non scarsa, si ricorre alla litote: «Quella persona non è certo un’aquila». A “canonizzare” questa metafora ci ha pensato Dante Alighieri, quando nella sua Divina Commedia parla di Omero, che ai tempi del sommo poeta era considerato una delle più grandi menti mai esistite:
«Quel signor dell’altissimo canto,
che sovra gli altri com’aquila vola»
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, IV, 95-96).
D’altra parte anche l’antico proverbio latino Aquila non captat muscas, che sta a indicare come i grandi non si curino delle piccole cose, attribuisce automaticamente all’aquila il simbolo di grandezza:
«Un’aquila vola con grande superbia, vede una mula vicino ad una fattoria e la uccide, vede anche un’agnella e la uccide, pertanto l’aquila è temuta dalle agnelle e dalle mule. Né la formica né la mosca sono spaventate dall’aquila; infatti la mosca e la formica non temono l’agguato dell’aquila; pertanto l’agnella e la mula sono vinte dall’invidia: infatti le formiche e le mosche non hanno la preoccupazione delle aquile ma vivono serenamente. Un giorno una mosca si posa su una mula, la mula loda la vita della mosca, mentre disprezza la sua vita e dice alla mosca: «Come sei felice. Io invece temo sempre l’arroganza e la crudeltà dell’aquila, mi nascondo all’ombra dei boschi e in nascondigli, ma spesso sono vista dall’aquila e cerco la salvezza con la fuga; tu invece vivi con grande gioia e non temi l’agguato dell’aquila». La mosca risponde: «Sono piccola, dunque non temo l’agguato delle grandi bestie ma sono spaventata dall’agguato dei piccoli animaletti». I potenti non considerano gli umili ma li disprezzano. Anche i poeti dicono: l’aquila non prende le mosche» (Fedro).
Altra caratteristica dell’aquila, secondo le antiche credenze, è quella di poter fissare con lo sguardo il sole senza che i suoi occhi ne patiscano. Conferma questa credenza anche Dante Alighieri, affermando:
«Quando Beatrice, in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aquila sì non li s’affisse unquanco»
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, I, 46-48).
Nell’Antico Testamento, il libro di Ezechiele inizia con la descrizione di una visione del profeta-autore: «Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. (…) 10 Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila»(Ezechiele 1, 5;10).
Si tratta del Tetramorfo, la figura ripresa da San Giovanni evangelista nell’Apocalisse: «Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l’aspetto di un uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola» (Apocalisse di San Giovanni 4,7).
La funzione dell’aquila presso gli antichi Greci come psykhopompós (la divinità che guidava le anime verso il regno dei morti), si è evoluta dal Mito di Etana (un poema epico sumero che narra del tentativo del lugal Etana di Kish di ottenere un erede), nota sicuramente alle prime comunità cristiane, in immagine di Cristo salvatore, che porta le anime in cielo.
Così come già il Deuteronomio, nel Cantico di Mosé, assimila la figura di Dio all’aquila:
«Come un’aquila che desta la sua nidiata,
volteggia sopra i suoi piccini,
spiega le sue ali, li prende
e li porta sulle penne.
Il Signore solo lo ha condotto
e nessun dio straniero era con lui»
(Deuteronomio 32,11-12).
Filippo di Thaon scrive: «L’aquila significa il figlio di Santa Maria, che è un re di tutti gli uomini senza alcun dubbio, sta in alto e vede lontano, sa bene cosa deve fare» (Filippo di Thaon, Bestiario).
Il monaco e poeta normanno del XII secolo segue quanto ancor più esplicitamente Sant’Ambrogio aveva detto, che nella dinamica dell’incarnazione si comprende un’altra e significativa simbologia che lega l’aquila a Cristo: «L’aquila si comprende come quella del Cristo che, con il suo volo, è sceso in terra. Questo genere di animale non riceve cibo prima che la castità di sua madre sia dimostrata quando con gli occhi aperti, senza battere le ciglia, può contemplare il sole. È dunque a giusto titolo che questo animale è paragonato al Salvatore perché, quando vuole catturare qualche essere, non calpesta il suolo, ma elegge un luogo elevato: così il Cristo, sospeso all’alta croce, in un fracasso terribile e in un volo tonante prende d’assalto gli inferi e porta via verso i cieli i santi che ha afferrato» (Sant’Ambrogio, Commenti ai Proverbi).
Come le aquile… leggendo Isaia:
«Non lo sai tu? Non l’hai mai udito?
Il Signore è Dio eterno,
il creatore degli estremi confini della terra;
egli non si affatica e non si stanca;
la sua intelligenza è imperscrutabile.
Egli dà forza allo stanco
e accresce il vigore a colui che è spossato.
I giovani si affaticano e si stancano;
i più forti vacillano e cadono;
ma quelli che sperano nel Signore
acquistano nuove forze,
si alzano a volo come aquile,
corrono e non si stancano,
camminano e non si affaticano»
(Isaia 40,28-31).
O leggendo l’Esodo: «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me» (Esodo 19,4).
Il Signore parlò dell’aquila a Giobbe, per insegnargli a volare più basso e non parlare in modo improprio e superbo:
«È forse al tuo comando che l’aquila si alza in alto
e fa il suo nido nei luoghi elevati?
Abita nelle rocce e vi pernotta;
sta sulla punta delle rupi, sulle vette scoscese;
di là spia la preda
e i suoi occhi mirano lontano.
I suoi piccini si abbeverano di sangue,
e dove sono i corpi morti, là essa si trova»
(Giobbe 39,27-30).
In alto e potente vola in silenzio, l’aquila soffre le crepe del tempo. Certo non cattura le mosche, si confronta con un obiettivo grande. Con i suoi forti artigli cattura anche i serpenti. Come Gesù sulla croce, ha sconfitto l’antico serpente. Aquila non captat muscas, neanche in uno stormo vola. Ubbidisce a Dio da sola, per trovare nell’arca salvezza. Si confronta con l’insignificante, in ubbidienza lo subisce silente. Librandosi sopra le vie del tempo, lascia le tristezze per quel che sono.
Le aquile non volano a stormi, cantava Franco Battiato:
«Giorni e mesi corrono veloci
La strada è oscura e incerta
E temo di offuscarmi
Non prestare orecchio alle menzogne
Non farti soffocare dai maligni
Non ti nutrire di invidie e gelosie
In silenzio soffro i danni del tempo
Le aquile non volano a stormi
Vivo è il rimpianto della via smarrita
Nell’incerto cammino del ritorno
Seguo la guida degli antichi saggi
Mi affido al cuore ed attraverso il male
A chi confessi i tuoi segreti?
Ferito al mattino a sera offeso
Salta su un cavallo alato
Prima che l’incostanza offuschi lo splendore
In silenzio soffro i danni del tempo
Le aquile non volano a stormi
Vivo è il rimpianto della via smarrita
Nell’incerto cammino del ritorno
Shizukani tokino kizuni kurushimu
Murewo kundewa tobanai taka
Furuki oshiewo tadotte
Kokoronomamani konokanashimiwo norikoete
In silenzio soffro i danni del tempo
Le aquile non volano a stormi
Vivo è il rimpianto della via smarrita
Nell’incerto cammino del ritorno».
Questa canzone di Franco Battiato, scritta con Manlio Sgalambro e Kiminori Yajima, è contenuta nell’album Dieci stratagemmi uscita nel 2004, con la partecipazione della cantante anglo-nipponica Kumi Watanabe, deriva proprio da un’antica poesia cinese del IV-III secolo a.C., contenuta nei 36 stratagemmi. È un libro di stampo taoista, ritenuto frutto delle società segrete cinesi o delle caste ninja, un grande testo di tattica militare. La canzone di Battiato esprime lo stesso principio di fierezza e dignità dell’individuo che sceglie di percorrere la propria vita seguendo i proprio ideali e principi, senza farsi condizionare dalla massa. Chi incarna meglio questo ideale se non l’aquila? Un animale che vola e caccia in solitudine; qualcuno dice anche per come si comporta sul punto di morte: si ritira per essere, in ultima fase, in solitudine. Una sorte di accettazione del proprio destino e vivere, comunque sia, con le proprie idee, senza prestare cura alle gelosie e senza farsi ingannare dalle menzogne, come Battiato dice nel testo. In questo mondo dove in tanti sono trasportati dalla stessa corrente, dove la personalità e il libero pensiero risultano essere sempre meno importanti e più ostacolato, la canzone di Battiato e la filosofia dei “36 stratagemmi” viene in aiuto.

Non desta quindi meraviglia, che l’aquila è presente in molti stemmi, emblemi e armi araldiche. Come esempio abbiamo l’Aquila Quaternione (Quaternionenadler), stemma non adottato ufficialmente del Sacro Romano Impero, che mostra gli scudi degli Stati membri per grado: “Das hailig römisch reich mit sampt seinen gelidern” (Il Sacro Romano Impero compresi i suoi membri), rappresentato nell’acquerello su stampa xilografica su carta di Jost de Negker, 1510, pubblicato da David de Negker ( figlio):

secondo la xilografia originale monocromatica di Hans Burgkmair il Vecchio:

I cosiddetti “quaternioni imperiali” ( in tedesco “Quaternionen der Reichsverfassung”, letteralmente: “Quaternioni della costituzione imperiale”; dal latino: quaternio, letteralmente: gruppo di quattro soldati) erano una rappresentazione convenzionale degli Stati Imperiali del Sacro Romano Impero che divenne attuale per la prima volta nel XV secolo e fu estremamente popolare durante il XVI secolo.
A parte i livelli più alti dell’imperatore, dei re, dei principi vescovi e dei principi elettori, i possedimenti sono rappresentati in gruppi di quattro. Il numero di quaternioni era solitamente dieci, in ordine decrescente di precedenza: Duchi (Duces), Margravi (Marchiones), Langravi (Comites Provinciales), Burggravi (Comites Castrenses), Conti (Comites), Cavalieri (Militi), Nobili (Liberi), Città (Metropoli), Villaggi (Villae), Contadini (Rustici). L’elenco veniva ridotto o ampliato e entro la metà del XVI secolo era arrivato al numero di 45.

Tra le innumerevoli stemma araldiche, ricordiamo quella, sempre le armi con l’aquila del Sacro Romano Impero di Federico II Hohenstaufen (Jesi, 26 dicembre 1194–Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250), Re di Sicilia (come Federico I di Sicilia, dal 1198 al 1250), Duca di Svevia (come Federico VII di Svevia, dal 1212 al 1216), Re di Germania (dal 1212 al 1220) e Imperatore dei Romani (come Federico II del Sacro Romano Impero, eletto nel 1211, incoronato ad Aquisgrana nel 1215, incoronato a Roma dal Papa nel 1220), infine Re di Gerusalemme (dal 1225 per matrimonio, autoincoronatosi a Gerusalemme nel 1229). Apparteneva alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen e discendeva per parte di madre dalla dinastia normanna degli Altavilla, regnanti di Sicilia. Conosciuto con gli appellativi Stupor Mundi (meraviglia del mondo) o Puer Apuliae (fanciullo di Puglia), Federico II era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l’attenzione degli storici e del popolo, producendo anche una lunga serie di miti e leggende popolari, nel bene e nel male. Il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, volte ad unificare le terre e i popoli, fortemente contrastata dalla Chiesa, di cui il sovrano mise in discussione il potere temporale, avvenimento che gli valse ben due scomuniche dal Papa Gregorio IX, che addirittura vide in lui l’anticristo.

Fu un poliglotta, erano sei le lingue da lui parlate: il latino, il siciliano (una lingua romanza), il tedesco, il francese, il greco e l’arabo. Federico II fece del Mezzogiorno d’Italia una culla di civiltà e cultura. A Napoli fondò l’Università e nella corte di Palermo. Fu convinto protettore di artisti e studiosi, molto abile a promuovere le lettere attraverso la scuola poetica siciliana, al cui interno convissero, come alla sua corte, le culture greca, latina, araba, germanica, ebraica e cristiana, all’insegna di una smisurata tolleranza. La poesia prodotta ebbe una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata la moderna lingua italiana. Dante e i suoi contemporanei ne fecero buon uso e anticiparono di almeno un secolo l’uso dell’idioma toscano come lingua d’élite letteraria d’Italia.
Egli stesso fu un apprezzabile letterato. Scrisse De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), un trattato nato innanzitutto dall’osservazione, che non ha nulla delle enciclopedie zoologiche fino ad allora redatte (i bestiari intrisi di mitologia, teologia e superstizione). In esso i problemi di ornitologia, di allevamento, di addestramento e di caccia sono trattati con attenzione al principio dell’osservazione diretta e dell’esperienza, con assoluto spirito di indipendenza rispetto alla trattatistica precedente, per questo lo scritto rappresenta un fondamentale passo verso la scienza “moderna”. Era un cacciatore appassionato. Le battute di caccia erano in quei tempi un modo per socializzare con persone dello stesso rango, per esercitarsi nell’uso delle armi e per rappresentare il potere. Il suo svago preferito era la caccia con il falco addestrato, attività molto costosa e quindi elitaria: un falco addestrato veniva a costare infatti quasi quanto un intero podere. La caccia con i falchi per Federico non era un passatempo vero e proprio ma una scienza. De arte venandi cum avibus è un’opera molto moderna sia sui metodi di cattura e addestramento dei falchi, sia sulle tecniche di caccia della selvaggina con l’uso dei falchi addestrati.
Federico II era in tutti i sensi un’aquila. Con la sua personalità poliedrica e affascinante, carismatico e scomodo, colto e spietato, che ha rapito l’attenzione degli storici e del popolo, dando vita anche a una lunga serie di miti e leggende popolari. Uomo fuori dal comune al punto che quando morì, il figlio Manfredi, futuro Re di Sicilia, in una lettera indirizzata al fratello Corrado IV scrisse tali parole: «Il sole del mondo si è addormentato, lui che brillava sui popoli, il sole dei giusti, l’asilo della pace». L’Impero finì con la sua morte, ma come un’aquila aveva l’ambizione di rimanere memorabilis posteris, lasciare un segno indelebile. E così è stato.



























