Martina Navratilova: «Il tennis femminile non è per maschi falliti»

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La schiacciata contro i transgender della campionessa di tennis, Martina Navratilova, le attira l’accusa di essere una militante della transfobia. Ma lei è lesbica, legalmente sposata in America con una donna dal 2014, la prima professionista a dichiararsi omosessuale nel 1981 e da sempre un’attivista LGBTQI+. Non c’è nulla di spiritoso in temi come questi, perché come abbiamo già visto con le dichiarazioni recenti di Elly Schlein e sulla riproposizione della legge Zan contro la “omotransfobia”, chi sostiene tesi banalmente di buon senso sarebbe passibile di denuncia. La rinuncia a riconoscere il dato di realtà, la differenza sessuale, come naturalmente fondativa della società umana, sta diventando un dogma. Non hanno paura neppure del ridicolo, pur di confondere le generazioni persino sul loro essere maschi o femmine fin dalla scuola materna.

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 09.08.2023 – Renato Farina] – II primo tweet è datato ore 06.52 del 7 agosto. La grande campionessa di tennis, Martina Navratilova, 66 anni, dice la sua sulla presenza di transgender ammessa dalla federazione americana del tennis al torneo di tennis femminile over 55.

Non è una volée, diciamo che è un diritto lungolinea abbastanza morbido. Scrive: «È patriarcale che gli uomini biologici (biological men) insistano sul diritto di entrare negli spazi sessuali delle donne. Quanto è difficile per voi capire?!? È patriarcale per gli uomini biologici insistere sul diritto di competere negli sport in categorie femminili. Pronto, qualcuno è in linea???».

Risponde con un colpo velenoso e sarcastico di Twitter la Prof. Grace Lavery (si firma proprio così: Prof maiuscolo, dipartimento di lingua inglese dell’università di Berkeley, California, transgender): «Non sono sicura di aver capito bene. Le femministe volevano separarsi dallo Stato, non ottenere piccole stanze per donne dove i ragazzi non erano ammessi. Sei tu a essere infantile oltre che patriarcale. Sei prigioniera del cariotipo». Ahia. Navratilova rinuncia a palleggiare, e tira uno smash in faccia alla Prof.

Come quando stravinceva a Wimbledon (nove volte, l’ultima nel 1990). «Cariotipo? Smettila con queste stronzate. Stai chiedendo di entrare nel nostro spazio. E noi diciamo di no. Ehi, il tennis femminile non è per atleti maschi falliti». Punto, partita, incontro. (Cariotipo – per chi non è del ramo – è un sinonimo raffinato di cromosomico, dunque biologico. Secondo la teoria gender, non è il sesso biologico a definire l’essere uomini o donne ma il nostro sentirci tali. Si è abbattuta su di lei la dichiarazione di esclusione dall’umanità perbene, qualificata come militante della transfobia, che nella comunità della gente che sa stare al mondo è l’equivalente demodé dell’islamofobia. Navratilova non è una pericolosa reazionaria, la faccenda è nota, è legalmente sposata in America dal 2014 con una donna bellissima, ed è stata la prima professionista a dichiararsi omosessuale (1981). E da sempre un’attivista LGBTQI+. T sta per Trans. Sulla T era già passato il bianchetto. Aveva già espresso posizioni simili quando le scaramucce sui diritti sportivi dei trans passati dal sesso maschile al genere femminile erano guardate più con curiosità che come questioni di civiltà. Già nel febbraio del 2019 infatti – come informa Gaypost.it -, la Navratilova era stata espulsa per le sue idee “transfobiche” da “Athlete Ally” la associazione che promuove l’apertura delle gare femminili anche a chi sessualmente maschio si dichiara donna. Nel dicembre del 2018 aveva definito «folle» e un «imbroglio» che atlete trans abbiano «ottenuto onori». «E sicuramente ingiusto», aveva scritto la Navratilova sul Sunday Times, «per le donne che devono competere contro persone che, biologicamente, sono ancora uomini. Sono felice di rivolgermi a una donna transgender in qualsiasi forma preferisca, ma non sarei felice di competere contro di lei». Rachel McKinnon, la canadese che a ottobre del 2018 era diventata la prima atleta trans campionessa del mondo nel ciclismo con la conquista del titolo iridato Master della pista nello sprint a Los Angeles, l’aveva scomunicata: «Sono frasi inquietanti, sconvolgenti e profondamente transfobiche».

Non c’è nulla di spiritoso in questa contesa. Su temi come questi – e lo abbiamo già visto con le dichiarazioni recenti di Elly Schlein e sulla riproposizione della legge Zan contro la “omotransfobia” – chi sostiene tesi banalmente di buon senso sarebbe passibile di denuncia. Già lo è di ostracismo e di messa al bando civile, com’è capitato nei mesi scorsi a due studiose francesi neo-femministe, Dora Moutot e Marguerite Stem, la cui conferenza a Nantes il 15 aprile per la difesa delle donne afghane e iraniane è stata sospesa dal “Comité Laicité République Pays de la Loire” per le proteste di estremisti LGBTQI+ in quanto avverse all’ideologia transgender e alla “moda della disforia” (la pretesa di risolvere i problemi dell’adolescenza proponendo il cambio di genere). All’Oxford Union è stata bloccata la conferenza della professoressa Kathleen Stock sulla parità dei sessi perché considerata transfobica essendo contraria all’ideologia transgender.

La rinuncia a riconoscere il dato di realtà, la differenza sessuale, come naturalmente fondativa della società umana sta diventando cioè un dogma. E tutto è sottomesso alla tagliola della cancel culture progressista. Non buttano giù solo i monumenti ma tagliano la lingua alle persone. Non hanno paura neppure del ridicolo, pur di confondere le generazioni persino sul loro essere maschi o femmine fin dalla scuola materna.

Ad un certo punto qualcuno ha cominciato a porre la domanda (poco tempo fa, eppure sembra un secolo tanto la mentalità corre come il lampo). Chi è biologicamente maschio ma dichiara di essere di genere femminile per sentimento di sé stesso – anzi di sé stessa -, oppure è in ricerca d’identità sessuale, deve poter accedere a tutto ciò che era stato previsto come spazio per donne e ragazze? Si è cominciato a trattare la questione a proposito di toilette e spogliatoi. La discussione si è risolta in certi Stati americani e nei Paesi Nord-Europei, ma anche ad esempio all’Università di Siena, istituendo il water ad accesso libero.

In Finlandia – mia esperienza personale – in un fast-food ho costatato la presenza di gabinetti di decenza dove ai maschi erano date due possibilità di accesso alla soddisfazione di bisogni primari e una sola per le femmine. Su un uscio c’era la doppia simbologia sessuale, sull’altro l’ingresso era per soli maschi. Ho capito il perché: in quella con esclusiva per uomini c’erano ancora un paio di orinatoi classici, ma essendo un assurdo privilegio fallico credo che li sradicheranno. Fa ridere, ma il caso è serio.

Questo articolo è stato pubblicato oggi su Libero Quotidiano.

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