Il bianco geranio
C’era una volta un piccolo geranio, uno dei tanti della numerosa famiglia dei gerani. Aveva fiori bianchissimi! Pur avendo fiori di tale raro colore, il geranio si lamentava sempre d’essere nato così, tanto da invidiare la classica bellezza delle rose purpuree, l’eleganza raffinata delle orchidee, la malinconica tenerezza delle viole e la struggente poesia dei fiori di campo. Trascorreva le stagioni più belle nella malinconica tristezza per il suo biancore! Un mattino di primavera incontrò un viandante che, fermatosi, lo osservava con amore stupito e raccolse i suoi fiori portandoli al cuore. Esultò di gioia il bianco geranio e capì che non si può piagnucolare per essere così come si è nati, quando si possiede la feconda capacità di suscitare negli altri sentimenti, suggestioni e incanti! San Paolo ai Romani di allora scrisse che tutto concorre al bene di quelli che amano (Rm 8,28). Nella vita, infatti, tutto dipende dall’amore, perché tutto è stato creato dall’Amore per amare.
La porpora e il bisso possono ricoprire anche la miseria e l’iniquità dell’esistenza insignificante del ricco che banchetta lautamente tutti i giorni. La ricchezza è rischio, il lusso è pericolo che chiude il cuore, rendendolo gelido e indifferente verso il mendicante bramoso di sfamarsi di ciò che cade dalla mensa del gaudente. La famosa parabola del ricco epulone, raccontata da Luca (16,19-31) è di una chiarezza evidente per ciò che riguarda i vari annebbiamenti della vita. Il cuore di pietra del ricco, rivestito di porpora e bisso, non concorderà mai con il cuore di carne del povero Lazzaro vestito con stracci. Sappiamo che il possesso dei beni e il loro lauto uso sono un momento effimero. Anche i ricchi muoiono e sono sepolti, anche loro diventano polvere e cenere, anche se rivestiti di porpora e bisso infraciditi. Il sepolcro rende tutti uguali! La sicurezza e l’agio del possedere le ricchezze non servono a nulla, possono essere, anzi, motivo di condanna e dannazione perché non sono valuta per il cielo.
La parabola del mendicante Lazzaro, il cui nome in ebraico significa Dio aiuta, e del ricco epulone senza nome, insegna, innanzi tutto, la grande verità che Dio non tratta l’uomo da burattino, ma da persona libera e responsabile, perché così l’ha creata. Sono piuttosto gli ingordi e potenti ricchi burattinai rivestiti di porpora e bisso che trattano i loro fratelli in umanità e fede da burattini. Il vero povero evangelico difenderà sempre quella libertà e quella dignità avuti dal Creatore come dono prezioso e intoccabile. Gesù, annunziando le beatitudini e le maledizioni, dice con tono forte e deciso: Beati voi, poveri… Guai a voi, ricchi (Lc 6,20-26). Anche il profeta Amos grida: Guai agli spensierati… Essi, su letti d’avorio e sdraiati sui divani, mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli. Canterellano al suono dell’arpa, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati. Perciò, andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei buontemponi (6,1.4-7). Lazzaro è beato, il ricco è dannato. La beatitudine o la maledizione sono conseguenza del rispetto divino verso la libertà e la dignità dell’uomo. La misericordia s’innesta sia nella serietà con cui Dio guarda l’uomo creato libero e responsabile, sia nel tempo di conversione, che è momento prezioso delle scelte nell’esercizio della libertà. Il ribaltamento delle sorti avviene alla fine dei tempi, quando il mendicante Lazzaro è accolto e consolato nel grande Banchetto del Regno e il ricco epulone, non più rivestito di porpora e bisso, affamato e assetato, è torturato nell’inferno degli eterni tormenti.
Un’altra lezione della parabola è quella dell’esigenza alla conversione. A suscitare la fede in Cristo non bastano i miracoli che costringono la volontà ma la libertà personale di cambiare vita e mettersi in ascolto della parola di Dio, di “Mosè e i Profeti” ed esservi fedeli.
Mentre rifletto su questa parabola, mi sovvengono tre convertiti: Paolo di Tarso, apostolo delle genti; Filemone, ricco e influente personaggio di Colossi, convertito al cristianesimo probabilmente durante il soggiorno di Paolo a Efeso; e Onesimo, uno schiavo di Filemone in fuga dal suo proprietario. L’incontro di Onesimo con Paolo avvenne a Roma dopo l’arresto e il trasferimento dell’Apostolo. Convertito alla fede, fu battezzato divenendone fedele collaboratore, tanto che Paolo avrebbe desiderato che rimanesse con lui, però, conosceva bene quali gravissime pene erano riservate dalle leggi romane contro gli schiavi fuggitivi, soprattutto se ladri. Fiducioso nell’apertura di cuore e nel comportamento evangelico dei fedeli di Colossi, Paolo intercede a favore dello schiavo che ha generato nella fede e lo rimanda da Filemone. All’interno del carcere, l’Apostolo delle genti, non rivestito di porpora e di bisso ma prigioniero del Vangelo, vive nella libertà interiore data dalla chiara coscienza della propria dignità di uomo e di apostolo. Nella sua casa a Colossi, anche Filemone non vive banchettando lautamente tutti i giorni ma accoglie i cristiani per la preghiera e la fraternità concorde. Per questo Paolo gli invia la sua lettera scritta con la tenerezza di un padre (Cf Fl v.10). Filemone, da parte sua, riaccoglie nella sua casa e nel suo cuore Onesimo, non come servo senza padrone, oggetto di nessuno, ma come fratello che, abbracciata la fede, diventa il cuore di Paolo, cioè, il suo figlio spirituale. Sono questi i comportamenti cristiani di Paolo, di Filemone e di Onesimo: tre diverse conversioni, unico modo di vivere il Vangelo ciascuno a suo modo. La paternità spirituale di Paolo diventa così fraternità in Cristo del padrone con il suo non più schiavo. Onesimo, fuggito servo, ritorna fratello di Filemone perché entrambi sono ormai a servizio dello stesso Signore. Se scaturisce da Cristo e in Lui si radica, la vera spiritualità cristiana elimina ogni discriminazione sia all’interno della chiesa sia nel sistema sociale. La lettera di Paolo è raccomandazione o intercessione? Si tratta, ovviamente, di un gesto sapiente di raccomandazione, non per loschi scopi d’interessi personali o di gruppi in strane appartenenze ma per intercedere misericordia costruendo amore agapico ecclesiale.
Paolo, nella luminosa libertà di coscienza, all’interno della sua prigionia romana, nell’esplosione d’amore di un cuore che crede e che grida: Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20), lancia il primo passo verso la creazione della carta dei sacrosanti e intoccabili diritti umani. Ogni creatura umana deve essere rispettata, onorata, amata, ricercando il bene di tutti, a qualunque condizione sociale appartenga, perché soltanto la fede rende capaci di operare la trasformazione radicale nell’uomo e nella società: non esistono più schiavi e uomini liberi, perché tutti in Cristo siamo realmente liberi figli di Dio. Le inevitabili differenze sociali determinate dalle ricchezze, dall’appartenenza a una classe sociale, a una razza, a una nazione, a un gruppo non dovrebbero essere mai causa di divisioni, di conflitti, di assassini. Il contrario di amore non è odio ma morte. San Giovanni, ammantato d’amore del Cristo, lo scrive chiaramente: Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida…Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? (1Gv 3, 14-15; 17).
Filemone non viveva in una reggia come quel misero ricco epulone chiuso in se stesso, ottuso e scostante, ma nella sua casa diventata anche accogliente chiesa domestica in cui si respirava fragranza di Vangelo accolto e vissuto in entusiasmo. La Chiesa viva, formata dai credenti in Cristo, vi si riuniva per cantare con la bocca quanto credeva col cuore. La carità cristiana, infiammata dalla fede, si rivelava con i gesti dell’accoglienza espressa in umiltà e servizio, in docilità e identificazione; tutto diventava esempio seducente e attraente; al contrario dell’anti-evangelo del falso credente che litiga e divide per distruggere, isola e allontana per abbattere.
Paolo, con raffinata lievità, ci istruisce come debba essere articolata e vissuta la carità accogliente dei veri discepoli di Cristo: Filemone è invitato a ricevere Onesimo non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo (v. 15-16). Paolo, poi, rivestito delle vesti dello schiavo Onesimo, rivolgendosi a Filemone e chiamandolo “fratello” nella fede e nell’amicizia, lo esorta e gli chiede: Se tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io. Per non dirti che anche tu mi sei debitore, e proprio di te stesso! Sì, fratello, Che io possa ottenere questo favore nel Signore; dà questo sollievo al mio cuore, in Cristo! (vv. 17-20). Infine, Paolo, convinto che Filemone, “figlio, fratello e amico”, tratterà Onesimo come gli ha richiesto, anzi, andando oltre donandogli la libertà, così afferma: Ti ho scritto fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più di quanto ti chiedo (v. 21). Lo stile civile dell’accoglienza e della convivenza è valore cristiano dell’umanità. E ancora Paolo esorta i Romani e scrive: Accoglietevi perciò gli uni altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio (15,7).
E il bianco geranio non continui a brontolare per essere un fiore di colore bianco; non abbia sentimenti di rancore e di astio per non avere il porporino colore della rosa o la soffice tenerezza della viola o l’eleganza raffinata dell’orchidea. Gioisca invece di essere così com’è nato dal grembo dell’amore divino e di essere capace di suscitare ammirazione e interesse in chi possiede quello sguardo d’amore che si accorge di te e ti accoglie come fratello, ornato, non di porpora e di bisso, ma di dignità umana e di figliolanza divina. Tanto, si sa, anche i fiori bianchi o porpora o viola, volato il tempo del loro fiorire, sfioriranno in foglie secche!
Alla fine dei tempi, se avremo accolto in entusiasmo la parola di Dio con il cuore che crede, con bocca che professa la fede nell’entusiasmo della vita, saremo tutti chiamati a possedere e a godere Dio nella pienezza del nostro essere personale.