La musica che non c’è. Noa e Randy Newman

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La suggestiva voce dell’israeliana Noa e le struggenti composizioni raffinate di Randy Newman caratterizzano questo appuntamento con “La musica che non c’è” curato da Gianni Giletti, membro della Fraternità del Sermig di Torino che ospita anche il Laboratorio del Suono. Una rubrica che parla di musica, ma non della solita “sbobba” che troppo spesso subiamo dai mass-media.

Parliamo di musica vera, che trasmette emozioni, che tocca il cuore e che non è tanto conosciuta. Meglio, tentiamo di trovare un disco – di ieri o di oggi – che ancora ci possa far sognare, spaziando un po’ su tutti i generi. Le caratteristiche che deve avere il “lettore tipo” sono la curiosità e la ricerca della qualità della musica…

NOA, Noa – Universal 1994. Quando ascolti uno dei brani di questo disco, ti accorgi del motivo per cui Noa è diventata una star internazionale: è impossibile resistere alla sua voce così evocativa e dolce, così alta e solenne, così tenera e confidenziale. In pratica, tutto e il contrario di tutto. La grandezza di un’artista si misura soprattutto nella capacità di penetrare nel cuore di chi l’ascolta, rispettandone la sensibilità e prendendo le persone dal proprio “verso” migliore. La musica di Noa fa tutto questo. Non solo la sua voce, ma anche il modo di scrivere la musica emoziona. A cavallo tra due mondi, Achinoam Nini in arte Noa nasce in Israele nel 1969 e quasi subito la sua famiglia, originaria dello Yemen, si trasferisce a New York, dove Noa vive per 17 anni, trascorsi i quali ritorna in Israele andando a vivere poco fuori Tel Aviv. Dopo due anni di servizio militare, studia musica alla Rimon School dove incontra Gil Dor, che da allora diventa il suo partner artistico fisso. Il disco che recensiamo oggi è il primo uscito a nome Noa con distribuzione internazionale ed è quello che l’ha portata al successo. La musica di Noa unisce davvero due mondi: una consistente parte di oriente contamina a fondo il rock americano – le ballads, soprattutto – che durante i 17 anni di Usa le è entrato dentro, rendendo le sue canzoni una cosa particolare e originale, fondendo insieme un arcobaleno di suoni e emozioni.

Dal jazz al rock, dalle percussioni mediorientali alle filastrocche ebraiche: le suggestioni musicali si impastano in modo mirabile con la sua voce, vera protagonista del disco. La chicca è alla fine: l’Ave Maria di Gounod è cantata con trasporto e con un accento tale da spostarla di diverse migliaia di chilometri verso Est. Nonostante tutto questo ben di Dio, stentiamo ad ascoltare qualche suo brano in radio e quindi, puntuale come le tasse (non proprio, visto che il disco è del 1994), compare la recensione su questa ormai implacabile rubrica, che tenta come sempre di segnalare ai propri affezionati lettori (sempre che ce ne siano) la musica che incuriosisce, stuzzica, colpisce, emoziona il vostro fedele rubrichista. Shalom, Noa! Ecco un assaggio…

RANDY NEWMAN, The Randy Newman Songbook, Vol. 1 – Nonesuch 2003. Ho provato a chiedere un po’ in giro alle persone che conosco se sanno chi è Randy Newman e che mestiere fa. Solo un paio di amici lo conoscono, gli altri mi hanno guardato con il solito compatimento di quando tento di spiegare loro, sventolando un cd, in quale fenomeno mi sono imbattuto. Poiché il mio entusiasmo per la musica spesso è un po’ esuberante, si possono comprendere le loro reazioni. In questo caso, però, non si tratta del solito (?) artista che nessuno conosce tranne il sottoscritto e subito dopo i lettori di questa rubrica. Qui stiamo parlando di un musicista che ha ottenuto 16 nomination all’Oscar per le sue colonne sonore e per le canzoni che ha scritto. Da “Ragtime” di Milos Forman a “I tre amigos”, da “Toys” fino alla celeberrima “You Can Leave Your Hat On”, strillata dalla voce roca di Joe Cocker nel film “9 settimane e mezzo”. Randy Newman ha vinto finalmente l’Oscar nel 2002 per la miglior canzone con il film “Monster”, un cartone animato della Disney.

Ma parliamo del disco. Non c’è orchestra; solo lui e il pianoforte, ma spazzate subito dalla mente l’idea del disco noioso; oltre che colonne sonore, il Nostro ha prodotto una tonnellata di canzoni davvero prodigiose, che hanno il pregio di farlo riconoscere immediatamente per la composizione raffinata e la melodia spesso struggente, ma anche per le “sorprese”, diciamo così, che semina nei vari brani. Non rientra difatti in un genere definito: nelle sue canzoni si trovano mescolati pop, jazz, blues e musica tradizionale americana, ma anche suggestioni europee “colte”. Voce particolare, espressiva e pianismo “storto” il giusto, nel senso di accostamento inusuale di accordi che teoricamente nulla hanno in comune. E alla fine del brano ti accorgi che invece era tutto giusto e il pezzo fantastico. Insomma, un grande e meno male che questo disco è solo il primo volume perché siamo in ansiosa attesa degli altri! Buon ascolto: clicca qui

151.11.48.50