Il caso Enea. Dopo l’orrenda spettacolarizzazione del dramma, la piccina figlia della “barbona” ci impone di tornare alla realtà della nascita e dell’abbandono. Tristezza e gioia

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 13.04.2023 – Renato Farina] – Enea, il bambino deposto a Pasqua nella culla calda della Mangiagalli di Milano da una madre segreta, ha una gemellina anonima alla Clinica Buzzi, l’ospedale dei bambini. Enea, a sua ovvia insaputa, è diventato un “caso”. Non perché affidato alla versione post-moderna della ruota degli esposti, ma a causa della letterina di accompagnamento. “Ciao mi chiamo Enea. Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che era tutto ok e stare insieme il più possibile. La mamma mi ama ma non può occuparsi di me”. Un italiano struggente e moderno (si noti l’ok), un capolavoro di comunicazione che ha fatto innamorare mezza Italia, tutto perché il piccino potesse essere accolto come un principino.

Dopo Enea c’è lei. È arrivata seconda. Non pare – o almeno non è noto – le sia stato dato un nome. Se la madre avesse avuto il senso della poesia, o forse del marketing, sarebbe stato utile chiamarla Didone, come la regina fenicia morta amando e odiando l’eroe virgiliano che correva a fondare Roma. L’avrebbe affidata così con sicuro successo alla bontà che misteriosamente circola ancora in città e nei paesi. Ma non le è venuto in mente, non è il suo stile. La mamma è una barbona, un appellativo che a Milano – come testimonia l’immortale canzone di Enzo Jannacci El purtava i scarp de tennis – è persino affettuoso. Ma i barboni non sono tanto pratici di queste cose.

E adesso? Altri appelli televisivi e generosità a secchi? Difficile. I numeri primi sono originali, i numeri pari sono tanti. Dimenticheremo presto la piccina? Probabile e persino opportuno. Sarà anche un bene per lei, e per chi l’adotterà, non diventare una celebrità, con un nome raro per giunta. Perché prima o poi lo si saprebbe, Internet è immortale, e un compagno a scuola glielo farebbe sapere: sei tu Enea, sei tu Didone che… ecc.

Francamente una roba così non la meritano né i bimbi né la genitrice. La povera madre del bambino pasquale adesso viene tirata per i capelli perché il suo modo di esprimersi è elevato, lei ama il piccino, deve tornare a riprendersi la creatura: le viene fatto balenare un cospicuo assegno di beneficenza se tornerà a essere madre per il suo piccolo. (Accidenti, in Italia se uno cerca di convincere una donna a non abortire viene denunciato; invece se si invade l’intimo di una donna per farla recedere da una decisione che le ha strappato l’anima, si pretende di sapere come e perché, e le si fa l’esame di coscienza per procura. Che ne sanno di lei? In Italia sono circa tremila ogni anno i neonati oggetto di rinuncia materna, e due terzi sono italiane, solo il 6% minorenni (Società italiana di neonatologia). Sono tremila storie drammatiche. Non sono quasi mai infiocchettate da frasi da “amica geniale”, tali da suscitare maremoti televisivi. Certo: i bambini hanno diritto ad essere amati. E una mamma che abbandona il figlio hai voglia a spiegare al bambino diventato grande che lei però lo ha amato sempre. Un attimo però: lei per nove mesi ha rifiutato di abbandonarlo a un aspiratore di feti, non l’ha sciolto con una pillola abortiva. La prima condizione per cui un bimbo sia amato è che lo si lasci venire al mondo. E che in tremila abbiano fatto questa scelta amarissima merita rispetto, ammirazione (senza che nessuno pretenda di penetrare la coscienza di chi – parola di Papa Francesco – si affida a un killer).

Ed ecco la storia della numero 2 (ma no ciascuno/a è un numero 1). Ieri, in un capannone di Quarto Oggiaro, periferia Nord Ovest di Milano, una donna senza fissa dimora di 37 anni ha partorito senza aiuto la propria figlia. L’ha avvolta in qualcosa e ha chiamato il 118. In ambulanza le due creature – mamma e piccina – sono state portate al Buzzi. Erano le 11.30 quando la signora ha messo in mano il fagottello a un infermiere, ha rilasciato il proprio nome e cognome con garanzia di anonimato, come prevede la legge. C’erano anche i carabinieri. Era passata un’ora dal lieto evento (si dice anche in questi casi? Sì!), e la mamma si è dovuta per forza tirare su in fretta, dopo aver tagliato il cordone ombelicale, non poteva lasciarla diventare blu in queste ventose mattine nordiche, se l’è spupazzata per non farle mancare un primo bacio, l’ha strofinata sulla sua pancia per scaldarla, con scarsi esiti. Forse l’ha bagnata delle sue lacrime. Quindi ha chiamato soccorso, non l’ha posata a terra, ma ha atteso i paramedici stringendola. La piccola sta bene, era un po’ ipotermica, ed è stata posata per questo dai medici in incubatrice: 2.650 grammi. Dopo di che la mamma se n’è andata, ha raggiunto il paparino della medesima condizione sociale. I padri non ci sono mai, in circostanze dolenti spariscono, e neanche i barboni derogano dalla prassi. Possiate essere felici, piccinini, nati in capannoni o cliniche svizzere. Vogliate bene alle vostre mamme un po’ apocrife.

Questo articolo è stato pubblicato oggi su Libero Quotidiano.

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