21 marzo, XXVIII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. «Per Amore del mio popolo non tacerò»
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 18.03.2023 – Vik van Brantegem] – Il 21 marzo 2023 si celebrata la XXVIII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. La Giornata si celebra fin dal 1996, su iniziativa dell’Associazione Libera di Don Luigi Ciotti, che aderì all’appello della mamma di Antonio Montinaro – agente di Polizia ucciso a Capaci nell’attentato di Cosa Nostra al giudice Falcone – di non chiamare quelle vittime genericamente “scorta” e di riconoscere l’identità di ciascuno di loro. Da allora, ogni anno viene scelta una diversa città italiana – quest’anno Milano – dove si riuniscono le istituzioni civili e militari, le forze sociali, il volontariato e la gente comune in una manifestazione di ricordo, di condanna e di affermazione di valori. Il 1° marzo 2017 la Camera dei Deputati ha istituito e riconosciuto il 21 marzo quale “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia”.

Come fanno i mafiosi a essere credenti e a usare la religione per creare la legittimità culturale che assicura il potere assoluto? History Now, la programmazione che History Channel dedica alla storia contemporanea, celebra la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie con un documentario, che racconta il rapporto controverso tra Mafia e Chiesa Cattolica in un documentario dal titolo Mafia e Chiesa. Un passato insidioso, che va in onda il 21 marzo 2023 alle ore 21.00 su History Channel, Canale 411 di Sky. L’opera scritta e diretta dalla regista francese Anne Veron, racconta come nel Sud Italia, dove le mafie prosperano da oltre 150 anni, solamente negli anni ’90 la Chiesa Cattolica ha finalmente riconosciuto l’esistenza della criminalità organizzata, condannando le azioni di Cosa nostra.
”Un lungo silenzio che inevitabilmente ha contribuito a ritardare il momento in cui la società civile ha preso le distanze dal fenomeno mafioso”, sottolinea la regista Anne Veron, mentre, come testimonia il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, i mafiosi sono cattolici praticanti, e non considerano i loro crimini in contrasto con la fede; per questo finanziano le parrocchie e le feste religiose, e vanno a messa ogni domenica.
I giornalisti Saverio Lodato e Felice Cavallaro, il magistrato Roberto Scarpinato, la sociologa Alessandra Dino, la fotografa e attivista Letizia Battaglia, morta l’anno scorso, Padre Cosimo Scordato, Monsignor Pennisi e molti altri ricostruiscono questa storia di vicinanza tra mafia e Chiesa, anni di sangue che in particolare a Palermo vedono cadere decine di servitori dello Stato senza che la Chiesa faccia quasi sentire la sua voce.
Tanti i fatti ricordati nel racconto: la prima strage mafiosa, quella di Ciaculli nel giugno 1963, dopo la quale l’Arcivescovo metropolita di Palermo, il Cardinale Ernesto Ruffini, nega l’esistenza della mafia, invenzione dei giornali e dei partiti di sinistra; l’indifferenza della Chiesa che lascia passare senza un commento la morte di Gaetano Costa, Cesare Terranova e Piersanti Mattarella; il Cardinale Pappalardo che, celebrando i funerali del Prefetto Dalla Chiesa chiede che lo Stato si manifesti nella “povera Palermo”, abbandonata nelle mani mafiose. Ma è solo nel ‘93, a un anno dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che Papa Giovanni Paolo II condanna i mafiosi durante il suo discorso a braccio tenuto nella Valle dei Templi. La risposta della mafia è rapida: dopo solo due mesi, colpisce Milano, Firenze e Roma e nella Capitale sono proprio due chiese l’obiettivo delle bombe stragiste.
Alessandra Dino sottolinea che ”oggi le più alte sfere della Chiesa hanno preso posizione in modo netto contro la mafia, ma sono ancora i parroci a dover dare una risposta chiara e univoca sul territorio”; a Palermo infatti, negli stessi anni hanno predicato Padre Puglisi, morto ammazzato nel ’93 per aver dato speranza ai ragazzini senza futuro del quartiere Brancaccio, e Padre Mario Frittitta, che alla Kalsa dispensava privatamente la Messa al boss Pietro Aglieri, latitante ”che pregava sette ore al giorno”.

La tacita collaborazione tra associazioni mafiose e Chiesa è una questione annosa e delicata su cui si cerca ancora di fare luce. Attraverso gli interventi di studiosi, giornalisti attivisti e l’inedita testimonianza di un collaboratore di giustizia, cerchiamo di interpretare la natura del rapporto che è intercorso per molto tempo tra mafia e istituzioni ecclesiastiche.
Il convegno “Cattolici, Chiesa e Mafia” a Messina, 2003
Dal 27 al 29 novembre 2003 si è svolta all’Università di Messina, promosso dal “Centro studi e documentazione sulla criminalità mafiosa”, un convegno sul tema Cattolici, Chiesa e Mafia, con un approccio rigorosamente scientifico e storicamente fondato per comprendere cause e radici del fenomeno mafioso, combattendone i luoghi comuni che lo accompagnano. Spiegando al Sir le motivazioni e gli obiettivi del convegno, Angelo Sindoni, docente di storia moderna all’Università di Messina, ha affermato che «sul rapporto della Chiesa con la mafia la storiografia cattolica presenta al riguardo un grave vuoto che occorre colmare e che in passato ha provocato gravi equivoci su presunte “contiguità” con il fenomeno mafioso da parte di cattolici ed alti esponenti ecclesiastici». Oggi, ha proseguito lo storico, «la mafia si è globalizzata trasformandosi in una grande imprenditrice a livello mondiale, ma la sua pericolosità si manifesta localmente nel controllo del territorio delle periferie degradate delle città del Mezzogiorno, dove costituisce tuttora una trappola insidiosa per tanti giovani privi di prospettive per il futuro. Occorre far capire loro che è una strada senza ritorno: un esempio per tutti la testimonianza di Don Pino Puglisi, di cui ricorre il decennale dell’assassinio, che abbiamo scelto come icona per il nostro convegno e che vuole indicare una via di speranza nella lotta al crimine».
Per quanto riguarda le iniziative della Chiesa al riguardo, Prof. Sindoni ha sottolineato: «I centri Arrupe e le associazioni antiusura dove i cattolici sono in prima linea. Ma pure le “scuole” di formazione politica; anche la Facoltà teologica di Palermo dedica particolare attenzione all’approfondimento del fenomeno, da contrastare con un approccio meno ideologico di quello attuale, che non ne faccia cioè un cavallo di battaglie politiche, e il caso Andreotti sembra nascere proprio in questo clima, ma che richiede unità tra gli schieramenti».

A braccio: così le parole di Giovanni Paolo II contro i mafiosi, espressione della “cultura della morte”, vennero spontanee dal cuore. Nella Valle dei Templi, il 9 maggio 1993, il Papa santo si lasciò ispirare da quella folla che in Lui vedeva speranza perché riflesso della luce di Dio. Aggrappato al Crocifisso, unico balsamo per sanare le ferite di vite spezzate dalla mafia, tuonò contro i trafficanti di morte: «Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!»
Chiesa e Mafia: riflessioni di un rapporto antico, complesso e contraddittorio. La fine di una ambiguità?
di Keiron [*]
Tra i Leoni, 27 marzo 2020
Il tema è molto antico. Del resto, la relazione Chiesa-Mafia affonda le proprie radici storiche già all’epoca dell’Unità d’Italia, quando la Chiesa guardava con ostilità alle organizzazioni criminali, mafia inclusa, poiché considerate come il prodotto di una ostilità statale e istituzionale nei confronti della Chiesa. Occorre fare un altro passo indietro, e sottolineare come i rapporti tra la Chiesa di quegli anni e quello Stato- unitario fossero già incrinati a causa della minaccia istituzionale nei confronti degli interessi ecclesiastici.
L’Unità d’Italia fu un evento storico pesante per l’Istituzione Cattolica, poiché diede avvio a un periodo di desacralizzazione e di secolarizzazione della società. L’akmè di questa acredine, ad avviso di chi scrive, è lampante nel cosiddetto “Non Expedit”, con cui nel 1868 la Santa Sede vietò ai cattolici non solo la militanza politica all’interno delle organizzazioni partitiche, ma pose persino il “divieto” di votare alle tornate elettorali, con importanti ripercussioni successive. Il “Non Expedit” venne abrogato solamente al termine della Grande Guerra, sia per tendere una mano allo Stato e dimostrare un sentimento di patriottismo, sia per lanciare il nuovo Partito Popolare Italiano, espressione politica dei cattolici.
Il rapporto, però, rimase critico e lacerato. La Chiesa additava lo Stato per averle sottratto il ruolo pubblico che questa rivestiva, lasciando a quest’ultimo tutti i problemi di ordine pubblico e quelli che potremmo chiamare “problemi sociali”: tra questi, anche la Mafia.
Il silenzio iniziale della Chiesa è quindi imputabile a queste ragioni storiche, di cui la letteratura è ricca di spunti e avvenimenti dai quali poter attingere.
La Mafia si trovava tra due litiganti, e si sa, il terzo ne beneficia. Per essere accettata sia dalla popolazione (soprattutto nel Meridione, dove la questione aveva avuto più presa) che dalle istituzioni, iniziò a vestire abiti talari e spillette partitiche. Iniziando così a fomentare, sempre in maniera più forte, il dissenso tra le parti.
Con il passare degli anni, la malavita cresceva e diventava sempre più presente e potente negli apparati. Si aggiungano a questi eventi anche la Seconda Guerra Mondiale e la seguente narrazione di uno Stato incapace di resistere alla degenerazione del sistema in dittatura.
Tuttavia, la situazione post-bellica si rivelò profondamente mutata. Il nemico comune era il comunismo. Nacque la Democrazia Cristiana che si pose come argine ai sovietici, avvertiti come pericolo più urgente e concreto. Si verificarono così vere e proprie collusioni con la criminalità organizzata, anche a causa della radicalizzazione della stessa. Nei piccoli paesi del Meridione, clero e mafia quasi coincidevano (molti erano i casi di parentela tra clero e mondo delinquente, così come quelli in cui i sacramenti venivano utilizzati per rafforzare il potere delle famiglie).
Negli anni ‘60 la Chiesa iniziò a prendere posizione e cercò di epurare qualsiasi forma di criminalità. Erano gli anni della manifestata violenza, gli anni del contrabbando, gli anni del narcotraffico e della corruzione spinta. L’incremento del numero dei reati iniziò a far aprire gli occhi al clero, che ebbe per la prima volta una visione di quanto stava accadendo. Una visione, però, non d’insieme, e questo costituì sempre il nodo del problema. Non si comprese mai la grandezza e la radicalità dell’apparato mafioso.
La svolta non potè che avvenire negli anni ’80, quando arrivò il periodo degli omicidi eccellenti. La Chiesa cominciò a percepire pienamente la portata della questione. Il cardinale Salvatore Pappalardo, durante la funzione funeraria del generale Dalla Chiesa, al grido di “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (“Mentre Roma discute, Sagunto è espugnata”, frase volta a esortare una maggiore vigilanza e presenza dello Stato) diede inizio a quell’evoluzione che porterà al discorso di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!»
Urge una precisazione metodologica, anche se ci accingiamo al termine della riflessione. Non è un elaborato volto a denunciare il ‘nascondere la polvere sotto il tappeto’ da parte del clero. Questo non vale solo per i preti, ma anche per i rappresentanti delle istituzioni. In quegli anni l’uomo mafioso era parte del tessuto sociale ed era riconosciuto, quindi doveva essere cattolico. Come poteva integrarsi un non cattolico nella società italiana degli anni ’60?
Con Giovanni Paolo II arriva la svolta definitiva. Il Papa condanna tutto, come un Papa sa fare, ossia come guida spirituale e non come procuratore. Giovanni Paolo II non solo condanna la Mafia, ma invita alla conversione. Non sarà sufficiente il non uccidere più, servirà il non essere più “uno di loro”.
Fu così che la Mafia arrivò a colpire anche il clero con Don Puglisi, Don Diana, Don Muntoni e molti altri. Dei martiri religiosi dobbiamo comprendere e parlarne. Sempre.
Se Don Puglisi è stato riconosciuto martire, secondo il diritto canonico, in odium fidei, cioè per odio contro la Fede, contro il Credo, qui non è così. Don Puglisi non è stato ucciso per un segno di croce in pubblico, ma per aver posto giovani braccia al riparo dall’uso e abuso delle mafie, in odium iustitiae.
[*] Tra i Leoni è il giornale della comunità Bocconiana, e vorrei approfittarne per ringraziare pubblicamente, nel mio piccolo, le associazioni BSOC – Bocconi Students against Organized Crime e Keiron – la casa dei penalisti per aver contribuito, a nome di tutti, all’iniziativa di Wikimafia e Libera attraverso il ricordo di personalità che hanno visto la propria vita cedere sotto i colpi delle armi della criminalità organizzata. Molti dei pensieri sono stati indirizzati verso personalità appartenenti al clero, tra tutti Don Dino Puglisi e Don Giuseppe Diana. Questo mi ha portato ad approfondire il rapporto tra Chiesa e Mafia.
Puglisi, il prete che voleva convertire i mafiosi
Simbolo di una Chiesa che vuole “interferire” con la società, fu ucciso nel ’93
Prefazione di Don Luigi Ciotti al libro “Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia” (Piemme 2013, 318 pagine [QUI]) di Mario Lancisi che ne ricorda la figura.
«Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite».
Un uomo di mafia divenuto collaboratore di giustizia parla così a un magistrato. Venticinque giorni dopo, don Puglisi verrà assassinato.
Pino Puglisi, dunque, come sacerdote di una Chiesa che interferisce. Ma che cosa significa «interferire»? E da dove nasce, in don Pino, questo «interferire» che avrebbe pagato con la vita? Il bel libro di Mario Lancisi aiuta a capirlo.
Nato a Palermo nel 1937, don Pino viene ordinato sacerdote nel 1960, quando la Chiesa è mossa da quei fermenti che troveranno forma nel Concilio Vaticano II, aperto da papa Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962. Il vento del cambiamento non coglie don Puglisi impreparato. È uno di quei preti che, all’inizio degli anni Sessanta, sperano ardentemente in una Chiesa più aperta al mondo, più capace di saldare il Cielo e la Terra, più determinata a contribuire al progresso umano denunciando anche le radici sociali e politiche dell’ingiustizia. Una Chiesa, nondimeno, capace di avviare anche dentro se stessa un processo di purificazione dal potere per rendersi più povera ma, proprio per questo, più forte dinanzi a ogni potere.
È in questo fermento che don Pino intraprende il suo sacerdozio e scopre la sua vocazione educativa. Il libro di Lancisi ritorna spesso su quest’aspetto della personalità di don Puglisi, sul suo essere dotato della qualità che contraddistingue da sempre i grandi educatori: l’ascolto. Qualità che don Pino affina alla fine degli Anni 60 all’epoca della «contestazione», quando i giovani non riescono più a identificarsi in una società sentita per troppi versi autoritaria e selettiva, fossilizzata in costumi incapaci d’intercettare il loro bisogno di partecipazione e di protagonismo.
In quegli anni don Pino insegna religione in un liceo di Palermo e riesce a farsi benvolere da tutti, anche da chi si sente ideologicamente avverso a una Chiesa considerata come una realtà reazionaria, ostile ai cambiamenti. Don Puglisi ascolta, dialoga – forte di una cultura alimentata da una gran curiosità intellettuale e da profonde e non «canoniche» letture – e a poco a poco suscita in quei giovani fiducia, apertura, confidenza, accettando di misurarsi sul terreno della vita, quello delle grandi domande che scuotono la coscienza di ognuno a prescindere dai riferimenti religiosi e culturali, lasciando da parte ogni pretesa di «proselitismo». «Nessun uomo è lontano dal Signore» avrà modo di scrivere. «Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto si aprirà».
Ma l’attitudine pedagogica di don Pino, il suo profondo interesse per le vite degli altri, incontrerà presto altre e ben più ardue prove. Inviato negli anni Settanta a Godrano, borgo incastonato nelle Madonie a settecento metri d’altezza («sono diventato il prete più altolocato della diocesi», annoterà autoironico) trova una comunità segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. A Godrano si sente chiamato per la prima volta a «interferire» in relazioni umane caratterizzate da dinamiche drammatiche e violente, e si rende conto come certi modelli culturali possano trovare indiretta sponda in «una religiosità insterilita nel chiuso della sacrestia o delle pratiche devozionali e bigotte».
Ma è nel ritorno a Palermo, la Palermo degli anni Ottanta insanguinata dagli omicidi e dagli attentati, che don Puglisi prende coscienza della forza criminale delle logiche mafiose, capaci di condizionare non solo le menti ma le strutture politiche ed economiche. Don Pino cerca di aprire varchi nel muro di omertà e connivenza che protegge il potere mafioso, e moltiplica il suo impegno nel campo educativo, consapevole che le indagini e gli arresti non bastano a estirpare un male destinato a riprodursi se non viene aggredito nelle sue origini sociali e culturali.
Ai suoi giovani insegna la tenacia e la forza dell’impegno collettivo, e li mette in guardia da tre pericoli: la «sindrome del torcicollo», tipica di chi è prigioniero del passato; quella dell’immobilismo, frutto di esercizi d’intelligenza troppo compiaciuti per passare all’azione; e quella, non meno insidiosa, dell’ansia frenetica, tipica di chi, volendo cambiare tutto sull’onda dell’emozione, finisce per cedere al richiamo delle scorciatoie. Sembra quasi un gioco del destino quello che lo riporta, all’inizio degli anni Novanta, a Brancaccio, il quartiere natio, «la borgata più dimenticata della città», dove la mafia, dirà un collaboratore di giustizia, esercita un «comando geloso». È in realtà una scelta consapevole: «D’altronde sono fatto così. Appena mi dicono che in quel posto non vuole andare nessuno, avverto immediatamente l’impulso a precipitarmi proprio lì».
Il libro di Mario Lancisi ricostruisce il cammino esistenziale e spirituale di don Puglisi fino a quel tragico 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno. È un libro toccante e documentato, arricchito dalle testimonianze di chi ha conosciuto don Puglisi e ha voluto bene a questo prete che interferiva come dovrebbe interferire nella nostra vita la voce della coscienza e il desiderio insaziabile di giustizia.
Mi limiterò, nel mio piccolo, a due ultime riflessioni. Le mafie – sempre attente nell’ostentare una religiosità di facciata, non vincolante sotto il profilo etico – non sempre hanno trovato sulla loro strada una Chiesa che interferisce. Hanno anzi incontrato spesso atteggiamenti di neutralità se non, addirittura, di compiacenza e di collusione. Questo ovviamente non oscura l’impegno, ieri e oggi, di tanti uomini di Chiesa nei contesti più diffi cili, così come la storica «invettiva» di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento, quando, qualche mese prima degli omicidi di don Puglisi e di don Peppe Diana, definì la mafia un «peccato sociale» e «una civiltà di morte», invitando i mafiosi a convertirsi. Seconda riflessione. L’impegno contro la mafia non è dunque solo politico, culturale ed educativo, ma può e deve essere anche evangelico.
Il Vangelo come strumento di giustizia, di affermazione della dignità e della libertà umana, non può che chiedere agli uomini di Chiesa parole di denuncia e un impegno netto contro le mafie e tutte le forme di abuso, di corruzione, di illegalità che delle mafie sono spesso l’anticamera. È augurabile, dunque, che la Chiesa prosegua nel suo processo di purificazione, spoliazione e povertà di fronte al potere. A farla «ricca» sono e saranno le tante espressioni di responsabilità e impegno che saprà alimentare al suo interno.
Don Luigi Ciotti
Articolo collegato
2014: Papa Francesco scomunica la ‘ndrangheta. 2020: Cosa è cambiato nella Chiesa? – 27 gennaio 2020


























