Antonio D’Aprano e Don Simone Di Vito vengono ricordati a San Savino in Monte Colombo – Parte 2

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 26.02.2023 – Vik van Brantegem] –In seguito alla Parte 1 [QUI], con cui abbiamo segnalato che ieri, sabato 25 febbraio 2023 alle ore 18.00 presso la Chiesa di San Savino in Monte Colombo (Rimini), è stata celebrata una Santa Messa in suffragio di Antonio D’Aprano e di Don Simone Di Vito, seguito da un incontro conviviale (di cui nella Parte 3 ci sarà una testimonianza), proseguiamo oggi con la presentazione di due contributi, tratti dal libro Ciao Anto’ pubblicato nel 2000 dall’associazione di volontariato “Progetto Famiglia” di Riccione, con le testimonianze e le riflessioni di tanti amici e conoscenti di Antonio D’Aprano, che seguono in gran parte le diverse tappe della sua vita.

Il primo contributo è l’Introduzione a Ciao Anto’, a firma di Prof. Andrea Carnevaro, Ordinario di Pedagogia presso l’Università degli studi di Bologna.Il secondo contributo è Quegli anni visti da Ventosa di Prof. Erasmo Falso, originario di Ventosa. Il Prof. Canevaro e Antonio avevano collaborato per motivi professionali, in quanto Antonio Psicologo e Canevaro Pedagogista e professore all’Università di Bologna. Il Prof. Erasmo Falso, familiarmente Remo, era insegnante di lettere e appassionato di storia locale. Con Antonio aveva un rapporto costante di attenzione e stima, con una frequentazione assidua in particolare durante i periodi trascorsi da Antonio a Ventosa, un piccolo paese che maggiormente facilita le frequentazioni e la conoscenza.

Inoltre, segue un testo di memoria storica L’Istituto, la casa-famiglia, la famiglia Orsi. Venticinque anni di amicizia a firma di Sergio Orsi.

Non c’è nulla di più definitivo
di quello che è provvisorio
e non c’è nulla di più provvisorio
di quello che è definitivo.

La festa di laurea di Antonio D’Aprano a casa Orsi, con il Prof. Erasmo Falso, che è originario di Ventosa, ed altri amici.

Introduzione a Ciao Anto’
di Andrea Carnevaro
Ordinario di Pedagogia presso l’Università degli studi di Bologna


Parlare, scrivere di una persona che non c’è più vuol dire farla vivere nel nostro ricordo. Sembrerebbe che l’operazione riguardi solo coloro che hanno avuto la possibilità e la fortuna di conoscere quella persona. In realtà vi è anche l’impegno di tradurre quella che è stata la grazia di una amicizia in un’azione che vada al di là della pura esperienza, e consegni ad altri, anche sconosciuti, qualcosa che possa essere importante. E la vita di Antonio D’Aprano ha molti elementi importanti, noti e rimpianti da coloro che lo hanno conosciuto. E disponibili, impegnativi, per gli altri che non hanno avuto questa esperienza diretta.

Antonio D’Aprano aveva bisogno di essere aiutato, si è reso conto che aveva bisogno degli altri. Ha operato ed è vissuto in modo tale che il bisogno di aiuto fosse strettamente collegato con la capacità di essere risorsa. I due termini, aiuto e risorsa, devono trovare un incontro nell’individuo. Questa considerazione ha dei risvolti pratici ed etici.

Considerato l’ordine in cui queste parole sono uscite sembra che venga prima l’aspetto pratico, e in effetti il solo fatto che ricordiamo una persona che è diventata psicologo fa sì che si debba ricorrere a qualcosa che abbia a che vedere con lo sviluppo della nostra vita, e nella nostra vita prima vi sono i tratti pratici e poi vi sono gli elementi che chiamiamo etici.

I tratti pratici sono dalla nostra nascita: dal momento in cui viene al mondo, un individuo ha bisogno e crea anche risorse, perlomeno questo succede in molte situazioni. E l’elemento di dramma che accompagna tutta la nostra vita è che i due termini, bisogno di aiuto e capacità di essere risorsa, non sono sintonici sempre, anzi si potrebbe quasi dire che è raro siano sintonici, è raro che vi sia nello stesso momento la capacità di esprimere la richiesta di aiuto e la capacità di essere percepiti, letti, come fonte di risorsa.

Però molte volte noi vediamo che, non all’istante, non nel singolo momento della giornata, ma un bambino o una bambina sono una buona risorsa per un gruppo – una famiglia, un gruppo di amici – che si raccoglie attorno, e nello stesso tempo sono anche fonte di richieste di aiuto, di richieste di sostegno, di richieste di servizi. Paradossalmente e anche drammaticamente, qualcuno ha scoperto che anche quando arriva la morte una persona può essere punto di incontro dei due termini, essere, quindi, capace, dal momento che ha molti bisogni di aiuto, di essere risorsa.

Qualcuno può ricordare, con commozione, anche situazioni che sembravano caratterizzate solo dall’aiuto, e anche dall’aiuto impotente: è il caso di un giovane amico che visse gli ultimi 14 giorni in coma, prima di morire, e la voce della madre che diceva: “Ci ha regalato qualcosa che non credevamo di poter vivere, l’essere attorno a lui uniti!”.

Sembrerà che si vada verso concezioni un po’ troppo spiritualiste, ma sono anche elementi molto importanti nelle nostre dimensioni materiali, umane.

Ebbene, Antonio D’Aprano ha realizzato, in una capacità d’intreccio che si è evidentemente manifestata subito, perché le testimonianze del racconto della sua vita non sembrano mettere in sequenze lunghe questo intreccio, quanto di farlo percepire come qualcosa che era immediatamente molto nitido e chiaro nella sua coscienza e nello sviluppo degli elementi, prima pragmatici e poi etici di incontro, di aiuto e di risorsa. Si potrebbe dire l’incontro dei due aiuti: l’aiuto di cui ho bisogno e l’aiuto che posso dare, ho bisogno e posso essere risorsa. E questo ha portato Antonio D’Aprano ad essere una delle figure che ha collegato dei mondi, mondi diversi tra loro, e caratterizzati da una certa dose di impegno vario. In Antonio D’Aprano questo impegno è stato portato da una dimensione che chiamiamo, per abitudine, di volontariato, ad una dimensione più alta.

Trascurando l’elemento di volontà si costruiva, però, la dimensione più propriamente professionale. È l’incontro con la sua vocazione professionale, con la sua richiesta di formazione, che diventa anche capacità di trasferire la sua vicenda, non in termini esemplari, ad altri.

“Non in termini esemplari” cosa significa esattamente? Significa che non è l’handicappato che si mette a modello, quasi indicando che a lui è stato negato qualcosa dalla vita e per questo ha dovuto compensare, e allora allo stesso modo compensa anche tu! Non è la logica della compensazione, quanto è la logica che già chiamavamo della risorsa, che diventa la logica della competenza: organizziamoci per scoprire quanto aiuto e competenza, debolezza e forza, siano presenti nella singola persona e in un gruppo che si può, in qualche modo, costruire nel tempo. Organizziamoci, quindi, a superare quella drammatica fase di impotenza acquisita che fa di me una persona presa sempre per l’aspetto debole e, a mia volta, da me stesso ritenuto debole, incapace. Gli elementi di debolezza ci sono, non sono degli elementi che debbono prevalere, devono essere considerati con pazienza – ricordiamoci che il termine pazienza ha una radice inequivocabilmente legata a sofferenza – e ascoltiamo anche il silenzio del patire, qualche volta la voce del patire, la voce della sofferenza – paradossalmente la voce della sofferenza è anche il silenzio – ma non compiacciamoci di questo, non compiacciamoci della sofferenza e della debolezza.

Antonio D’Aprano è tutt’altro che l’esempio di un compiacimento delle proprie condizioni, è quanto, invece, si riesce a fare considerando la possibilità, quindi non la certezza, e nella possibilità vi è dunque anche la fatica, la possibilità di organizzare l’insieme delle nostre debolezze e delle nostre risorse, delle nostre forze. Dicevamo, quindi, che è una dimensione che può anche partire dall’elemento “volontariato”: la mia volontà si impegna, ma cresce e si orienta verso una dimensione più altamente professionale, senza dimenticare il valore del volontariato, della volontà.

Questo si realizza bene nella originale esperienza di gruppo di autoaiuto, un autoaiuto particolare, di servizio alle famiglie, quindi all’educazione che non ha una professionalità ma che è più parte della nostra dimensione esistenziale, che anche però, ha bisogno non tanto del dilettantismo quanto di una forte componente professionale.

E Antonio D’Aprano diventa il personaggio importante che porta un elemento di professionalità senza che questo diventi gerarchizzazione. Diventa piuttosto lievito, e quindi levitazione in un gruppo: levitare, alzare. Queste considerazioni accompagnano chi legge un testo a più voci, un testo quindi corale, per certi versi, che risponde alla più squisita sensibilità di Antonio D’Aprano. Elemento di relazione, se vogliamo, ma non perso nelle relazioni, non quindi bisognoso di essere sempre nella droga che può essere lo stare con gli altri, vivere continuamente in scena. Non questo quanto piuttosto elemento di relazione anche riflessiva, capace di vivere la relazione anche nella solitudine, nell’isolamento. Non che la sua vita abbia avuto tempi di solitudine marcati ma, si può dire, non ha avuto l’eccitazione dell’incontro continuo. Ha avuto – anche qui usiamo il termine nella sua accezione più alta – una dimensione professionale, la necessità di non affannarsi a dimostrare ma di sapersi caricare le proprie responsabilità nel modo giusto, che non si trova prima, ma in corso d’opera.

Questi sono i messaggi che anche il lettore che non abbia avuto, nella propria vita, esperienza con Antonio D’Aprano può ritrovare. Questo libro, quindi, può permettere una riflessione, ed è quello che auguriamo avvenga a chi legge e, in qualche modo, sia questa la possibilità di rendere viva la ragione per cui c’è stata una amicizia, renderla viva oltre la stessa amicizia. È un progetto, nel senso che va oltre quello che c’è, e come tutti i progetti ha bisogno di qualcuno che lo faccia suo, anche al di là delle intenzioni dell’estensore di questa nota e forse anche al di là delle e pagine che seguono e che chi legge potrà gustare.

Uno scorcio di Ventosa.

Quegli anni visti da Ventosa
di Prof. Erasmo Falso

Rividi Antonio intorno alla metà degli anni ’70. Partii verso la fine dell’estate. Ero con Don Simone ed altri tre amici del paese. Non era certo quello il periodo ideale per andare in gita. Dopo ferragosto il tempo non è affidabile e infatti un violento acquazzone bloccò la piccola Renault del nostro parroco vicino alla stazione di Riccione. Ma prima non era stato possibile. Eravamo stati impegnati con la sagra della stramma.

Antonio allora non stava più a Torre Pedrera. Ci accolse in un casolare abbandonato, posto fuori dell’abitato di Sant’Andrea in Besanigo, un paesino sulla collina di Riccione. Con lui c’erano otto – dieci persone. Un anziano, pare di ricordare, qualche ragazza, gli altri tutti giovanotti. Mi colpì subito la presenza di un giovane sicuro di sé, deciso. Oltremodo affidabile. Seppi poi che si chiamava Sergio.

Più tardi ci fu indicata la stanza per la notte. Ci sentimmo, in un attimo, immersi in un mondo irreale. Dalle finestre entravano pioggia fredda e vento e, dal soffitto, gocce d’acqua cadevano continue e pesanti sul pavimento.

Ma come fate a stare qui? – osai dire ad Antonio.
Ho capito. Vi troverò una sistemazione in una canonica giù a Riccione — mi rispose subito con un sorriso, i suoi occhi non erano più quelli di Torre Pedrera.
Lo dicevo anche per voi… – accennai.
Noi staremo qui ancora per poco. Don Oreste e Sergio stanno già provvedendo.
Chi è don Oreste?
Il fondatore dell’associazione Giovanni XXIII. È un uomo che va in cerca di tutti coloro che hanno bisogno di aiuto e di amore. Dei disabili, dei tossicodipendenti…
Dei tossicodipendenti?
Si. Dell’associazione fanno parte anche delle comunità di recupero – precisò con un pizzico di orgoglio.
Tipo San Patrignano? – mi affrettai.
No. Da noi è diverso. Altri metodi.
Lesse sul volto la mia curiosità e mi anticipò: Se vuoi puoi parlarci. Domani sera viene in Parrocchia proprio da voi.

La sera dopo io e Don Simone aspettammo. Gli altri preferirono fare un giro per la città. Don Oreste arrivò puntuale. Appena lo vidi provai un po’ di delusione. Era un uomo piccolo, neanche tanto bello, molto semplice nel vestire, un volto quasi campagnolo.

Don Oreste mi smentì subito. Salutò tutti con grande affabilità. Sembrava che già conoscesse tutti, anche noi due di Ventosa. In una saletta della canonica era pronta una cena frugale, a base di verdura. Ci accomodammo. Furono pochi minuti. Un giovanotto entrò quasi correndo. Avevano telefonato i carabinieri di Rimini. Da loro c’era un ragazzo in crisi profonda, fuggito da una comunità terapeutiche di don Oreste, il prete si alzò e corse via.

Appena la sua casa-famiglia si spostò in un’abitazione più accogliente, a Misano, sempre sulla collina di Riccione, Antonio ci volle di nuovo con sé. Eravamo in sei o sette, questa volta. Non ricordo bene. Il numero ci consigliò il treno. Il viaggio fu breve ma faticoso, con un locale partito da Roma intorno alla mezzanotte e arrivato a Riccione la mattina verso le 08.30. I miei amici, tutti molti giovani, presero facilmente sonno sui sedili di legno. lo non ci riuscii e, appena sceso, cercai una panchina al sole per riscaldare la mia schiena, attraversata da brividi di freddo e da dolori fastidiosi. Vissi male quei giorni a Misano. Giù, a pochi minuti di macchina, c’erano le luci e i colori di viale Ceccarini e del Lungomare; c’era il cuore della Romagna estiva. Dal lato della montagna ci arrivava, assordante ed invitante, il rombo della moto che sfrecciavano sulla pista di Misano. Erano cose che, senza una macchina, potevo solo sentire e immaginare, non vedere, non toccare. Erano cose a cui Antonio e i suoi amici di Romagna sembravano indifferenti. Ad Antonio bastava un nonnulla per farlo felice. Bastava che un amico facesse una battuta scherzosa e la sua voce, forte, maschia, si trasformava in una risata, grossa, bella, liberatoria.

Una sera fui sorpreso da Sauro seduto su un gradino del cortile.
– Perché non torni spesso? Qui c’è bisogno anche di te.
Mi sembrò una provocazione. La sua voce era molto dolce, come sempre, come ora, ma mi scosse come la forza di una frusta.
Voi siete degli eroi. lo non sono nessuno – risposi in fretta. Provavo rabbia e vergogna insieme.

La mattina dopo partimmo. Per me, ma credo anche per gli altri, fu una fuga. Cercavo una vacanza. Mi ero rituffato in un esame troppo severo per la mia coscienza. I giorni difficili di Misano mi sono serviti. Antonio lo ringrazio anche per questo.

Settembre era appena iniziato. Ventosa è meravigliosa a settembre. Anche quel mattino mi affrettai, dunque, a far entrare nel mio studio un po’ della sua aria fresca, un po’ del suo cielo azzurro. Scostai una persiana e, sporgendomi vidi Antonio nel cortile di casa sua. Aveva un libro sulle ginocchia. Scesi per salutarlo. Lui interruppe la lettura e, come al solito, si mostrò felice di rivedermi. Mi accorsi che stava studiando letteratura italiana. Sorpreso, gli chiesi il motivo.
– Mi sto preparando per gli esami di maturità magistrale.
Antonio non finiva mai di stupirmi. Gli espressi tutta la mia ammirazione.
– Ma come fai da solo? – mi scappò di dire.

Antonio rimase sino alla festa della Madonna del Riposo. Da diversi anni tornava sempre a Ventosa. Tornava almeno a Natale, a Pasqua e a settembre. Noi che gli eravamo più vicini nell’età e negli affetti, ma tutto il paese gli voleva bene, aspettavamo le feste anche per rivedere lui, anche per stare alcuni giorni con lui. Antonio amava sapere tutto di Ventosa. Gli interessava conoscere, in particolare, l’impegno del comune sui problemi della nostra frazione. Domandava e ascoltava. Passavamo ore intere in piazza, sotto la vecchia acacia. Non c’era fretta e lui non mostrava mai i segni della stanchezza. Se si aveva voglia di camminare, si andava giù per la strada, sino al bivio, sino alla fossa di zi Chiara. Antonio era sempre entusiasta delle passeggiate e perciò accettava tutto. Accettava anche le corse improvvise e le rapide virate a cui, causa la scherzo di un amico o il capriccio del cielo veniva sottoposta la sua carrozzina. E, se non si poteva stare fuori, c’era nostro “circolo”. La casa di Pasqualina era sempre aperta sempre ospitale. In quella cucinetta aperta sulla piazza ci sentivamo tutti a casa nostra. La nonna di Antonio seguiva divertita la nostra conversazione. La seguiva anche quando sembrava assente, impegnata com’era vicino al focolare o nella stanza da letto accanto. S’illuminava, all’improvviso, dietro i suoi piccoli occhiali ed entrava nel discorso. Parlava molto bene Pasqualina. Era anche scherzosa e paziente. E ciò fu una fortuna per Antonio, che ebbe in lei una seconda madre.

Non tutti i giorni furono felici per Antonio. Un giorno dovette tornare per l’ultimo saluto al padre. Raffaele aveva ritrovato, sotto l’avanzare inarrestabile della malattia, quella serenità che non conosceva più da anni. Una serenità che non poteva essere solo effetto dei farmaci. Fu sfortunato Raffaele. Non fece in tempo a godersi i successi del figlio. Non fece in tempo a godersi la gioia con cui Don Simone e gli amici di Romagna riempivano la sua casa nei giorni di festa. Non fece in tempo a godersi l’immagine del figlio mentre una sera, sui diritti dell’uomo, parlava a testa alta con il Vescovo di Gaeta, ben lieto di sedere a tavola con la sua famiglia, di consumare in fraternità la cena preparata con amore da Maria e dalla figlia Annunziata. Antonio aveva incontrato sul suo cammino, sacerdoti come Don Simone, Don Silvio e Don Oreste, giovani come Sergio, Sauro ed Irene, persone, cioè, ricche di intelligenza e di ideali che gli avevano indicato la luce del Vangelo e la forza della fede. Con questa forza nuova vedemmo Antonio accettare la morte del padre e poi quella della nonna. Con questa nuova forza vedemmo Antonio pregare e parlare in chiesa. Con questa forza nuova vedemmo Antonio dare un significato nuovo alla sua vita.

Gli esami per la maturità magistrale andarono bene ma Antonio non si fermò. Si iscrisse all’Università. Scelse psicologia. A Padova, dove aveva anche un posto alla casa dello studente, ci si recava con l’aiuto degli obiettori di coscienza che gli vennero di volta in volta assegnati. Antonio non perse tempo. Tra un esame e l’altro fece l’operatore per i tossicodipendenti. Per tre anni svolse il servizio nelle strutture dell’associazione di Don Oreste Benzi. E così venne a contatto con decine di giovani in difficoltà. Qualcuno era anche un suo vecchio amico. Quelle storie, storie di vita, sono diventate materia viva e inquietante della sua tesi di laurea. Anche a me Antonio volle donare una copia del suo lavoro. Per pigrizia vi diedi allora uno sguardo distratto e veloce. Ora, rileggendola con attenzione, ho avuto una conferma ulteriore della gravità dei danni che sull’animo dei giovani può provocare la società di oggi, una società opulenta, che ha smarrito il senso dei valori cristiani, prima fra tutti quello della famiglia.

Ci fu una festa della laurea. Fummo in molti a casa di Sergio. Per la madre di Antonio fu una gioia immensa. Maria, quel giorno, si dovette sentire ripagata per le tante lacrime versate in silenzio. Da dottore in psicologia Antonio rese più bella e completa la propria vittoria sulle trappole della natura.

Dopo il 1986, l’anno della laurea, continuò a tornare a Ventosa, ma la Romagna gli lasciò sempre meno spazio per il tempo libero. Il suo studio a Riccione incominciò a riempirsi di genitori in cerca di un consiglio, di una guida nel difficile rapporto con i propri figli. Perché Antonio sapeva dare una risposta a tutti. La sapeva dare perché aveva vissuto per anni in mezzo ai problemi dei giovani. La sapeva dare perché aveva il dono di una sensibilità spiccata, affinata dal colloquio continuo con la propria anima. La sapeva dare perché aveva una grande serenità interiore. Riuscire a servire gli altri, donare invece di ricevere, fu la scommessa della sua vita.

Ricco di energia che a me parve quasi miracolosa, Antonio era pronto, di sicuro, per altri traguardi. Aveva capito che la vita è troppo breve e la voleva vivere fino in fondo. Con esperienze sempre nuove. Con emozioni sempre intense. Per un disabile che va incontro alla vita gli ostacoli sono più alti e più frequenti che per gli altri. Questo Antonio lo sapeva bene e non si spaventava più di tanto. Ma ci sono anche gli ostacoli nascosti, imprevedibili. Nelle nostre conversazioni ci capitava, a volte, di vedere Antonio sollevarsi un attimo con il torace e muovere le labbra in una piccola smorfia di fastidio. Pensavamo che fosse la stanchezza, la postura della carrozzina. Era un attimo e la sua espressione tornava normale, sotto i baffi ben curati, sulle guance sempre giovani, da eterno ragazzo. Anche in questo Antonio è stato straordinario. Ha saputo nascondere sempre i suoi momenti di sofferenza e di debolezza. Non si è lamentato mai di nulla. Non ha chiesto mai lo sconto a nessuno. Quella smorfia era invece il segno della presenza di un ostacolo più cattivo degli altri. Noi non ce ne siamo mai accorti. Ma lui, chissà! Forse lui lo sapeva. Forse lui se lo ricordò la mattina del 27 febbraio 1999 quando vide gli occhi annebbiarsi. Anche allora fu un attimo. Subito il suo buio, ne siamo tutti convinti, fu invaso da una grande luce. E in essa Antonio rivide e il padre e la nonna, che lo aspettavano, orgogliosi di avere in famiglia un ragazzo come lui.

Antonio in famiglia Orsi.

L’Istituto, la casa-famiglia, la famiglia Orsi
Venticinque anni di amicizia
di Sergio Orsi


Ripensare a quanto abbiamo detto e fatto in ventiquattro anni di amicizia e condivisione è impresa molto difficile, troppo è il tempo e troppe le cose fatte, i pensieri, i ricordi, le persone incontrate; è una vita piena di sentimenti o di esperienze fin troppo difficili da raccontare. Per amore di Antonio, per quanti lo hanno conosciuto, ma ancor di più per quanti non lo hanno conosciuto, cercherò di tradurre il vorticoso intreccio di sentimenti e ricordi.

Quest’avventura ebbe inizio per me il 2 giugno 1975, con il gruppo dei giovani del vicariato di Coriano; quel giorno si era programmato un  momento di riflessione e di preghiera (ritiro spirituale), presso il convento dei frati di Monte Fiore Conca, la riflessione era tenuta da Don Oreste Benzi (prete un po’ pazzoide già da allora). Il tema della riflessione era improntato sul senso della vita per i giovani, per chi e con chi spendere l’energia tipica dei vent’anni.

Sul versante sociale, in Italia, si era da poco approvata una legge nazionale sull’handicap (L. 118/71): per effetto di tale legge le case di cura e gli istituti di riabilitazione stavano rivedendo le rispettive funzioni in relazione ai pazienti in carico e al loro tasso di invalidità. Come in parte ancora oggi esistono, vi erano a Rimini, e nella sua frazione di Torre Pedrera, diversi istituti che impropriamente si definivano di riabilitazione, ma che di fatto erano collegi per disabili più o meno gravi, luoghi di custodia (o di disperazione) per bambini e ragazzi, in gran parte provenienti dalle regioni del sud, spesso senza famiglie o con famiglie prive di mezzi economici ed ancor di più culturali. Per questi ragazzi la permanenza poteva essere temporanea, il periodo scolastico, con rientri per Natale, Pasqua ed estate; per altri invece diventava la loro residenza stabile e permanente anche per decenni, fino quasi a perdere ogni contatto con famiglia e territori di origine.

La citata riforma obbligava gli imprenditori sanitari ad alcune scelte e per ciascuna di queste vi era collegata una certa possibilità di guadagno. Si verificava così che ragazzi con handicaps fisici (poliomielitici e spastici), si trovassero dall’oggi al domani messi alla porta da questi istituti, perché “il mercato della salute” offriva agli istituti stessi affari più remunerativi.

La condizione di questi ragazzi in questi luoghi era di eterni mantenuti, non educati al rapporto con la società esterna, privi di qualsiasi stimolo, assolutamente impreparati ad autogestirsi. Si pensi poi che le famiglie vivevano spesso la situazione dell’handicap con senso di colpa e quindi era assai meglio non mostrare “la vergogna”, trovare chi la custodisse, piuttosto che considerare questi ragazzi protagonisti alla pari dei loro coetanei, con qualche impedimento ma con gli stessi diritti.

Quel 2 giugno quindi, Don Oreste, dopo averci chiesto con chi volevamo spendere la nostra vita, ci presentò il caso di un gruppo (quattro o cinque) di questi ragazzi che avrebbero voluto costruirsi come gruppo  appartamento, per superare le difficoltà conseguenti alla riorganizzazione degli istituti, ma soprattutto per acquisire una nuova coscienza di se stessi e per essere protagonisti del loro futuro. Per poter far tutto questo oltre ad una casa occorreva loro una persona che si facesse carico dei loro limiti fisici e che fosse in grado di aiutarli ad avviare l’esperienza.

Non ricordo il perché né ricordo che cosa mi sia successo, certo è che da subito mi sono sentito interpellato, e così rientrando da questo incontro mi sono subito attivato per cercare una casa per avviare questa esperienza. Il mio primo interlocutore, ed in seguito sostenitore, fu il mio vecchio parroco Don Dante Giovagnoli (che tanto vecchio allora non era e che in seguito mori prematuramente); a lui mi rivolsi e grazie a lui dopo poco tempo ci fu suggerita come casa la vecchia canonica di S. Andrea in Besanigo. Nel frattempo cominciammo con Don Oreste i primi incontri con questi ragazzi per conoscerli. Personalmente non avevo mai avuto contatti con disabili e anche nella mia testa era stata inculcato “il terrore” che negli istituti vi fossero” degli infelici” (così comunemente venivano definiti nella terminologia popolare) che facevano ribrezzo e in alcuni casi potevano essere addirittura pericolosi; quindi si può ben immaginare con quale spirito mi accingevo al primo contatto.

In un caldo pomeriggio di una domenica estiva, io e Fiorenzo (che in seguito diventerà prete), andammo per la prima volta a prendere questi ragazzi. L’appuntamento fra noi giovani del vicariato di Coriano, alcuni dei nostri preti, Don Oreste, Don Sisto (allora cappellano del carcere), era nel seminario di Rimini. Ricordo che ci sedemmo in prossimità del campo di pallacanestro e lì incominciammo quello che fu un breve periodo di conoscenza prima dell’inizio della casa-famiglia.

Questa decisione segnò da subito il ruolo di Antonio: per effetto dello studio cominciarono ad avvicinarsi alla casa decine di persone che, se da un lato lo aiutavano per gli studi, dall’altro trovavano un attento ascoltatore per le loro varie ed eventuali conversazioni.

In questo contesto ci furono i primi contatti con la comunità parrocchiale di San Martino di Riccione, da cui di lì a poco sarebbero venuti i primi obiettori di coscienza, Sauro T., Novello T., Stefano R. e tanti altri giovani e adulti che sono parte della storia di Antonio e che per citarli tutti ci vorrebbe un libro a parte solo a questo riguardo.

Fu quello un tempo davvero grande e bello per il numero infinito di giovani che ci venivano a visitare, molti venivano dalla città di Crema che in seguito divenne altro importante bacino da cui uscirono tanti obiettori e volontari per le diverse casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui  anche la nostra faceva ormai parte.

Ricordo le infinite sceneggiate recitate ad arte quando venivano certi gruppi, di come concordavamo i dispetti e le pseudo torture, io tentavo di allungagli le mani e Antonio urlava, la gente guardava a tratti divertita a tratti sbigottita, il tutto finiva con grandi e grasse risate. In tutto questo il regista ancorché nascosto era senza dubbio Antonio, assorto dalla lettura e dall’ascolto. Certo che vi erano anche cose meno piacevoli da vivere nel quotidiano, ricordo la difficoltà, a tratti lo scontro, con Antonio per uscire dal concetto dell’istituto e quindi di doversi pensare da solo nel tempo e nella società.

A quel tempo per Antonio l’importante era non esporsi, non emergere troppo, non coinvolgersi, rimanere sempre e comunque in disparte al punto che io l’avevo soprannominato “rimorchio”. In seguito meditai a lungo su questi atteggiamenti.

Due sostanzialmente ritengo fossero le motivazioni, certamente non più riscontrabili nell’Antonio laureato: la prima motivazione andava ricercata nel fatto di aver vissuto gran parte della vita in istituto: questo atteggiamento, comune ad un gran numero di ragazzi con anni di istituti alle spalle, serviva ad evitare conflitti ritenuti inutili per l’assenza di futuro, poiché il ricoverato era in estrema sintesi un senza futuro, una non persona, ricadente comunque e sempre su altri. Senza prospettiva non si lotta, e per molto tempo e per tanti di loro la vita è stata assolutamente priva di prospettive.

Il secondo motivo era assai più complesso e profondo, su questo aspetto mi scontrai in difesa di Antonio anche con Don Oreste qualche tempo dopo. Di solito fra persone ci si confronta, ci si scontra ed infine, se non si addiviene ad un accordo, ognuno va per la sua strada. La condizione di confronto con Antonio non poteva prevedere quest’ultima soluzione e quindi il confronto non era giammai alla pari; stava nel suo interlocutore rispettarlo prima di rompere, a lui non era concesso di dire: o così o me ne vado.

La rottura che vi fu ad un certo punto fra Antonio e la Comunità Papa Giovanni XXIII nacque sicuramente da questa carenza di attenzione: di fronte al dilemma “o ti adegui o te ne vai”, lo spirito libero di Antonio non avrebbe mai potuto soccombere; sovente ripeteva la frase “la verità vi farà liberi”; di contro, la sua condizione gli impediva altresì di andarsene come avrebbe magari voluto.

Fra le grandi e piccole difficoltà di quell’esperienza non posso dimenticare quelle di tipo economico. La nostra casa era sostenuta economicamente dalle parrocchie del vicariato, però dopo i primi tempi di entusiasmo e di euforia cominciarono a scarseggiare sia le persone che con noi erano partite sia i contributi delle parrocchie stesse. Ricordo che era l’antivigilia del Natale 1975, dovevo accompagnare Antonio a Ventosa per le feste ed in cassa non c’era nulla; la Comunità mi aveva prestato un vecchio pulmino ma non avevo i soldi per il carburante. Il sacerdote di collegamento fra il vicariato e la casa era Don Romano N. di Cerasolo. Con non poca trepidazione mi recai da lui per chiedere aiuto: stava facendo il presepe con alcuni collaboratori e io mi vergognai e non osai chiedere nulla. Più disperato che mai tornai a S. Andrea e qui con grande stupore trovai Antonio seduto come sempre al suo tavolo che mi informò della visita di uno sconosciuto che aveva portato una lettera per noi. In quella lettera c’era il necessario per il nostro viaggio e un grande insegnamento per me.

Trascorso l’anno che avevo assicurato per l’avvio della casa, la mia vita riprese in quel di Torino con il lavoro di sempre in ferrovia ma con un rinnovato entusiasmo e nuove motivazioni. Antonio rimase con Rita e tutti gli altri, al mio posto arrivò Sauro T. e poi via via gli altri. Questo è per i miei ricordi il primo buco che va dal settembre 1976 alla primavera del 1978, periodo in cui vidi Antonio in maniera saltuaria, come si conviene fra amici.

Quando con la primavera del 1978 decisi di ritornare definitivamente a Rimini da Torino, pensai di parlare con Don Oreste dandogli la mia disponibilità per un qualche servizio comunque compatibile con il nuovo lavoro che avevo intrapreso. Il Don mi presentò la possibilità di ritornare ancora con Antonio, che nel frattempo si era trasferito dalla canonica di S. Andrea a quella di Misano Monte. Finite le medie Antonio stava frequentando le magistrali a Rimini ed il mio servizio divenne soprattutto quello di accompagnarlo e di riprenderlo da scuola.

La casa si era arricchita di altri ospiti e collaboratori; fra gli ospiti ricordo in particolare Corrado, quarantenne con gravi problemi di etilismo che entrava in fibrillazione non appena varcavo la soglia di casa. Fra le persone che aiutavano la vita della casa si era aggiunta Pia B. che veniva ogni giorno per le pulizie e il pranzo, con lei i suoi due folletti, i figli Luigi ed Aurelio (mai avrei pensato a quei tempi che quest’ultimo sarebbe finito poi in casa mia come obiettore, il destino come si sa gioca strani scherzi).

Di questo breve periodo che va dalla primavera all’autunno del 1978 non ho  particolari ricordi di Antonio, credo di poter dire che la sua voglia di autonomia fosse già in crescita e che già cominciava a sentirsi stretto nelle maglie della casa-famiglia e dalle regole della comunità. Sul versante convivenza ricordo di un clima assai pesante dovuto alla presenza del già citato Corrado con i suoi problemi di alcool e di depressione e di un altro giovane ospite, sempre con problemi di carcere, un po’ violento e che teneva tutti sulle spine.

Come dicevo, questo periodo fu per me molto breve, dopo di che con l’autunno sempre il Don mi chiese di trasferire il mio servizio alla nascente casa famiglia dei bambini di S. Lorenzo di Riccione. Con Antonio continuammo a vederci e a sentirci, compatibilmente con gli impegni di ciascuno, ma certamente in maniera ancora una volta assai saltuaria. Qui si colloca il secondo buco di ricordi dove le nostre vite pur vicine viaggiavano autonome.

A distanza di circa tre anni, giunge per me il tempo del matrimonio. La distanza che ci aveva visti divisi ed impegnati ciascuno per conto proprio, devo dedurre oggi che non era tanta, al punto che, nel momento della scelta dei testimoni parve naturale coinvolgere Antonio e Mirella, una ragazza che allora viveva in casa-famiglia a Coriano. La nostra scelta nel celebrare il matrimonio cattolico era sicuramente quella di volere una famiglia aperta, sia ai bisogni delle persone che della comunità.

Fin dai primi mesi ci inserimmo nelle attività della parrocchia e del quartiere come catechisti ed animatori della liturgia domenicale; non trascurando nel frattempo di coltivare le amicizie e fra queste certamente c’era Antonio. Ancora una volta la memoria non mi soccorre nel ricordare la circostanza in cui si verificò la decisione di Antonio di venire a vivere in casa nostra. Ricordo invece le condizioni e la provvisorietà della scelta: Antonio si sarebbe attivato con obiettori o tramite l’associazione Papa Giovanni XXIII per l’autonomia necessaria ai suoi spostamenti, il tutto sarebbe durato alcuni mesi in maniera  provvisoria e previa verifica. È proprio il caso di dire che non vi è nulla di più definitivo di quello che è provvisorio.

Arrivarono in una sera di febbraio lui e l’obiettore Agostino. Ricordo che stavo pulendo il piccolo cortile di casa. Agostino aveva lunghi capelli biondi che se da un lato lo rendevano tanto simile al Gesù di Zeffirelli dall’altro non facevano presagire nulla di buono.

Con noi viveva già da nove mesi in affidamento Giuseppe, un ragazzino con un handicap psichico che aveva allora 15 anni. A dispetto delle apparenze, ci fu subito grande sintonia e collaborazione da parte di tutti e la vita familiare si arricchiva continuamente di nuove amicizie grazie alla presenza di Antonio, dei suoi numerosi amici e compagni di università.

Fu un periodo in cui Antonio apprezzava la libertà di andare e venire, lavorare o prendere il sole sulla terrazza, ricevere amici credenti o atei; spesso sottolineava la soddisfazione di questa libertà trovata che nella precedente convivenza sentiva limitata.

Antonio in famiglia Orsi.

Mese dopo mese, anno dopo anno la vita passa, troppo in fretta come per tutti; nacque Luca ed Antonio diventò un po’ zio un po’ compagno di gioco, a volte guardiano un po’ apprensivo. Con Giuseppe il ruolo di Antonio diventava ogni giorno più stretto in uno scambio continuo di servizi in cambio di insegnamenti, di nuove parole, di dialoghi spesso impossibili.

Non ho mai registrato un intervento educativo di Antonio che potesse prevaricare il nostro ruolo di genitori, semmai quando io in particolare gli confidavo le mie preoccupazioni e le mie difficoltà di genitore cercava di sdrammatizzare e di ridarmi fiducia. Alcuni richiami garbati ma risoluti ricordo di averli avuti qualche volta in occasione di particolari impegni politici che avevo preso e che in certi momenti mi distoglievano davvero troppo dalla famiglia. “Stai esagerando, datti una regolata, ricordati che hai una moglie e dei figli” mi diceva quando eravamo soli; per me quei richiami suonavano sempre come campanella di allarme e non potevo non ascoltarli.

Ci fu poi un periodo in cui noi cominciammo a pensare al cambio della casa, Antonio in quello stesso periodo cominciò a pensare che forse poteva rientrare a Ventosa appoggiato alla Caritas della sua diocesi di origine. Non fu un tempo troppo facile, come del resto non è facile nessuna grande scelta; la constatazione che oltre all’entusiasmo di chi gli aveva avanzato quella proposta non c’erano persone e situazioni in grado di dare concretezza all’idea fu per Antonio motivo di grossa delusione. Così pure ci fu un momento di tensione quando si decise il trasferimento da Riccione all’attuale casa di San Savino, la preoccupazione che la residenza in campagna limitasse gli spostamenti e i contatti con i tanti amici creò qualche preoccupazione per Antonio, preoccupazioni che poi risultarono, anche a sua detta, assolutamente prive di fondamento.

Il mio rapporto con Antonio anche dal punto di vista fisico è stato un rapporto passato dalla totale dipendenza sua nei miei confronti, ad un rapporto di parità e quindi di confronto e ascolto mio nei suoi confronti. Ho già riferito delle difficoltà dei primi tempi, dove ogni attimo era propizio per me per spronare Antonio nel farsi carico della sua vita in ogni aspetto. Tante volte lo sgridavo perché pigro nel lavarsi, perché non si faceva la barba o non si cambiava gli abiti, oppure perché tralasciava la cura della salute, la ginnastica ecc.; il momento del bagno necessariamente impegnativo era uno dei momenti in cui fra tante sciocchezze ci dicevamo anche tante verità. La presenza degli obiettori, tutti ragazzi splendidi, da additare come esempi ai giovani di oggi e che hanno contribuito con il loro impegno a valorizzare l’istituto del servizio civile sostitutivo, ha reso possibile nel tempo un mio progressivo disimpegno dai servizi alla persona di Antonio.

Tutto questo non mi impediva tuttavia di continuare ad avere con Antonio un intenso rapporto di dialogo che specie nei giorni di festa vedeva coinvolta tutta la nostra famiglia nelle belle discussioni post-pranzo domenicale. Anche le sere d’estate spesso si faceva tardi sotto il portico parlando delle tante situazioni di sofferenza di cui venivamo a conoscenza.

Per una singolare coincidenza, o forse per una singolare grazia, mi è stato concesso di poter essere vicino anche fisicamente ad Antonio nei suoi ultimi giorni così come facevo all’inizio della nostra convivenza. Citando Papa Giovanni XXIII si potrebbe dire che anche Antonio sia vissuto e poi morto con il motto costante “la valigia é pronta”; l’esorcizzare la morte con un continuo ricordo era per Antonio un modo di dire “sono pronto”. Anche la sera prima di morire, con Mirco l’amico obiettore che lo era venuto a trovare, ebbe modo di scherzare ancora una volta su di essa.

L’ultimo servizio ad Antonio alle due del mattino del suo ultimo giorno sulla terra lo ha fatto Giuseppe. Dopo averlo portato in bagno ricordo di averlo riaccompagnato in camera con la sua carrozzina; Giuseppe, sapendo della mia malandata schiena, si è alzato dal letto ha abbracciato Antonio come era solito fare e lo ha messo nel letto con fare amoroso che mi colpì moltissimo. Antonio è riuscito anche in questo miracolo, fare sentire utile anche Giuseppe con i tanti suoi limiti.

Per tutto questo che ci è stato dato di vivere grazie, grazie infinite ad Antonio e a chi con grande sapienza lo ha posto sulla nostra strada.

La valigia è pronta.
Sono pronto.

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