Antonio D’Aprano e Don Simone Di Vito vengono ricordati a San Savino in Monte Colombo – Parte 1

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 25.02.2023 – Vik van Brantegem] – Gli amici di Don Simone Di Vito – deceduto il 2 febbraio scorso [QUI] – mi hanno chiesto di poter evidenziare ogni tanto qualcosa di bello e di vero, che viene fatto in suo suffragio e/o in suo ricordo, al livello “alto” in cui ha vissuto. Volentieri lo farò, securo che ne sarà felice in Cielo, da dove continua ad accompagnarci. Inizio con la segnalazione che oggi, sabato 25 febbraio 2023 alle ore 18.00 presso la Chiesa di San Savino in Monte Colombo (Rimini), la chiesetta vicino alla casa della famiglia Orsi, sopra Coriano, viene celebrata una Santa Messa in suffragio di Antonio D’Aprano e di Don Simone Di Vito. Presiede Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo emerito di Rimini, che fu compagno di seminario di Don Simone e che si è detto molto felice di pregare con la famiglia Orsi, i conoscenti e gli amici di Don Simone e di Antonio, tra cui molti degli obiettori di coscienza che lo hanno accompagnato negli anni. Dopo la Santa Messa si fermeranno nel salone attiguo alla chiesa per un momento conviviale, condividendo quello che ognuno porta.

La Chiesa di San Savino in Monte Colombo.

Era diventato per Don Simone un momento importante ritrovarsi ogni anno a Rimini per la Santa Messa e il ricordo di Antonio, ma anche per continuare a vivere il presente con le sue sfide e le sue problematiche, sempre alla luce del Vangelo. Così, Don Simone aveva già prenotato il biglietto dell’Intercity Roma-Rimini di ieri per l’incontro di oggi, ma il Signore ha disposto diversamente il viaggio e l’incontro.

Naturalmente Don Simone, giovane parroco a Ventosa aveva sostenuto la volontà di Antonio di rientrare in Romagna ed aveva mantenuto negli anni la relazione profonda con la famiglia Orsi e con i tanti obiettori che si alternavano nel servizio, continuando ad alimentare la comunione autenticamente vera tra Ventosa e la Romagna.

Le informazioni che seguono sono tratte dal libro Ciao Anto’ pubblicato nel 2000 dall’associazione di volontariato “Progetto Famiglia” di Riccione, con le testimonianze e le riflessioni di tanti amici e conoscenti di Antonio D’Aprano, che seguono in gran parte le diverse tappe della sua vita.

Riporto innanzitutto due ricordi. Il primo ricordo Antonio vive è di Don Simone Di Vito, che ricorda il suo primo incontro con Antonio nella chiesa parrocchiale di San Martino in Ventosa. In questa chiesa Don Simone, giovane parroco di Ventosa, ha anche battezzato i miei figli, per poi accompagnarli nel loro cammino verso la Prima Comunione e alla Cresima, quando era già parroco di Sant’Albina in Scauri di Minturno. A Ventosa ci recavamo regolarmente, per partecipare alla Messa domenicale officiata da Don Simone.

Il secondo ricordo Il prezioso patrimonio dell’anima di Antonio è di Mons. Vincenzo Maria Farano (Trani 21 luglio 1921-Formia 17 gennaio 2008), già Nunzio Apostolico, Arcivescovo di Gaeta dal 14 agosto 1986 al 12 febbraio 1997. Mons. Farano ricorda che i ripetuti incontri con Antonio, avvenuti soprattutto durante la preparazione alla Visita Pastorale del Santo Padre Giovanni Paolo Il, gli hanno dato l’opportunità di penetrare nel cuore di Antonio e di sondare la sua profonda dimensione interiore. Anch’io ho conosciuto Antonio in questa occasione, come Assistente della Sala Stampa della Santa Sede responsabile della struttura mediatica per la Visita Pastorale a Gaeta, preparata in stretta collaborazione con Mons. Farano, che era anche il mio vescovo diocesano.

Poi segue Desideriamo imparare a riscoprire il senso della sofferenza attraverso la Parola di Dio, il saluto di Antonio D’Aprano a Papa Giovanni Paolo II a nome degli ammalati sul piazzale del Santuario della Madonna della Civita di Itri domenica 25 giugno 1989 in occasione della Visita Pastorale all’Arcidiocesi di Gaeta.

Infine, per rendere più comprensibili i riferimenti fatti in questo articolo e dare un’idea complessiva della storia di Antonio D’Aprano, riporto una breve scheda biografica e delle informazioni sul suo paese natale Ventosa, frazione del Comune di Santi Cosma e Damiano.

Poi, in un articolo successivo, proporrò alcuni ulteriori interventi su Antonio D’Aprano e un testo di Sergio Orsi, L’Istituto, la casa-famiglia, la famiglia Orsi. Venticinque anni di amicizia, presi dal libro Ciao Anto’.

Antonio vive
Don Simone Di Vito
già Parroco di Ventosa


Antonio vive. È una verità importante che vorrei comunicare a tutti. Tutte le persone che hanno incrociato il suo percorso di vita esprimono su Antonio la stessa sensazione: Antonio non è morto!
Resta difficile per me esprimere tutto ciò che Antonio ha rappresentato negli anni di conoscenza, tratteggiare il cammino di crescita interiore da qual primo fuggevole incontro del 17 settembre 1972 (il mio ingresso “anonimo” nella Parrocchia di San Martino in Ventosa). Si fece accompagnare dai ragazzi in chiesa per conoscere il nuovo parroco: rimase un po’ deluso al primo impatto, ma poi scattò una scintilla che man mano è diventato “falò”. Le domande di fondo della vita, del male, della sofferenza, delle ingiustizie strutturali della società, dell’impegno e della lotta nel sociale, la fede, la Chiesa (“Santa e puttana” così l’amava definire, traducendo dal latino la frase dei padri della Chiesa “casta et meretrix”) sono state alla base di serrati dialoghi fino alla fine.
Antonio è stato, inoltre, “la porta” aperta su una rete di relazioni che hanno arricchito il percorso umano e di fede di tanti. La più schietta e bella esplicitazione da Antonio è stato il discorso fatto davanti al Papa nel giugno 1989 al santuario dalla Madonna della Civita: Antonio critico, contestatore, esigente, uomo di cultura. Lui un “povero cristo” di fronte al “Vicario di Cristo”!
L’affabilità, il sorriso schietto, a volte ironico, a volte liberatorio di fronte alla difficoltà che le persone e la società contribuivano a seminare sul percorso già in salita.
La scommessa, negli ultimi anni, di un probabile ingresso in seminario per diventare sacerdote era diventata un fil conduttore di tante conversazioni “ilari” e liberatorie. Ma, a pensarci bene, Antonio è stato “presbitero” (anziano per tutti coloro che ha incontrato sia per l’umanità che per la professionalità dell’approccio personale ad ognuno). Lui che aveva bisogno degli altri in tutto, si faceva tutto per soccorrere a sorreggere chiunque si trovava sul crinale del disagio.
Amava Ventosa, ma ha imparato ad amare anche la terra che lo ha accolto e gli ha dato la possibilità di reali i suoi sogni: “scorrazzare” tra i problemi, anche quelli più difficili, per sostenere il rialzarsi di tanti.

Il prezioso patrimonio dell’anima di Antonio
Mons. Vincenzo Maria Farano
Arcivescovo emerito di Gaeta


Ho avuto la gioia di incontrare il giovane Antonio D’Aprano nel corso del mio servizio ecclesiale nella Arcidiocesi di Gaeta, quale Arcivescovo di quella diletta Chiesa locale.
I ripetuti incontri, avvenuti soprattutto durante la preparazione alla Visita Pastorale del Santo Padre Giovanni Paolo Il, mi hanno dato l’opportunità di penetrare nel cuore di Antonio e di sondare la sua profonda dimensione interiore.
Quel corpo dalle fattezze un po’ ripiegate su se stesso mi è apparso come uno scrigno, in cui l’Autore della Vita ha racchiuso una perla bellissima, ricca di bagliori e di luci particolari, che apparivano evidenti a chi lo avvicinava per un saluto, un approccio, un colloquio.
L’handicap, di cui era portatore, certamente gli ha procurato tanta sofferenza. Ed è della sofferenza che egli aveva un concetto altissimo, come si esprimeva nel suo discorso di benvenuto al Santo Padre, nel Santuario della Madonna della Civita in Itri: “Desideriamo e proponiamo anche agli altri di imparare a riscoprire il senso della sofferenza attraverso la Parola di Dio. Soffrire – egli affermava – non significa disperazione, ma un modo di lottare per mantenere la propria dignità”.
Nei miei incontri intimi con lui ho potuto scandagliare la ricchezza della sua anima, i valori spirituali, umani e sociali delle sue convinzioni.
Nei suoi incontri a più vasto raggio con gruppi e settori diversi della Comunità sprizzavano con chiarezza ed entusiasmo la luminosità dei suoi valori e insieme la forza travolgente delle sue convinzioni aperte, con slancio e chiarezza, verso vasti orizzonti di socialità e comunione.
Per il prezioso patrimonio della sua  anima è stato punto di riferimento negli incontri intimi, ma anche negli interventi sempre costruttivi nella vita spirituale, morale, sociale. La sua presenza è stata carica di intensa forza e il suo influsso nella vita comunitaria della Diocesi continua ad avere efficacia anche dopo la sua permanenza tra noi.
Tutti lo ricordano, tutti ne parlano e sempre con gratitudine ed entusiasmo.

Antonio D’Aprano con Papa Giovanni Paolo II al Santuario della Madonna della Civita di Itri, 25 giugno 1989.

Desideriamo imparare  a riscoprire il senso della sofferenza attraverso la Parola di Dio
Saluto del Prof. Antonio D’Aprano a Papa Giovanni Paolo II a nome degli ammalati sul piazzale del Santuario della Madonna della Civita di Itri, domenica 25 giugno 1989


Santo Padre,
a nome di tutti i fratelli e sorelle di questa Diocesi, avvicinati dalla sofferenza, Le dò il benvenuto in mezzo a noi nel nostro Santuario della Madonna della Civita di ltri.
È bello incontrarci in questa occasione alla presenza di Maria, Colei che è stata capace di vivere fino in fondo l’esperienza della sofferenza ai piedi della Croce.
L’incontro di oggi con Lei, in comunione con tutta la Chiesa Universale, è di grande gioia per noi. Prima di tutto perché possiamo vivere una esperienza di fede, poi perché ci è dato modo di rinnovare la nostra fede in Cristo.
Padre Santo, rinnovare la nostra fede in Cristo significa non con formarci alla mentalità di questo secolo, che è un secolo in cui domina la competizione, l’arrivismo, il denaro e il potere e la persona umana è considerata per quello che ha e non per quello che è. Desideriamo e proponiamo anche agli altri di imparare a riscoprire il senso della sofferenza attraverso la Parola di Dio: soffrire non significa disperazione, ma un  modo di lottare per mantenere la propria identità, pensiamo a tutti coloro che soffrono a causa della loro fede, a quelli che lottano per la giustizia e agli emarginati che attendono di essere considerati e valorizzati. Abbiamo altresì presenti tante persone anziane della nostra Diocesi, per le quali la vita diventa difficile oppure rischiano di essere lasciate in uno ospizio.
Beatissimo Padre, non vogliamo fare critiche alle strutture di assistenza, però dobbiamo riconoscere i limiti che esse hanno. Ogni istituzione può dare risposte materiali, ma non quelle spirituali, morali e psicologiche. Siamo pienamente convinti che ogni persona non vale perché è vecchia o giovane, bambino o adulto, handicappato o no, ma perché è fatta ad immagine e somiglianza di Dio, quindi è capace di ascoltare, di consigliare e spesso aiutare i cosiddetti “normali”. È in grado allora di poter vivere la propria missione all’interno della comunità cristiana.
Non è sempre facile vivere la sofferenza come un modo per realizzare il regno di Dio: soprattutto quando si è soli. Noi non vogliamo essere commiserati, ma chiediamo ai fratelli di condividere le nostre sofferenze sull’esempio del buon samaritano, il quale si fermò davanti all’uomo incappato nei briganti. Molte volte invece si è abituati a passare oltre.
Chiediamo altresì alla Chiesa di cercare di rimuovere le cause che producono sofferenza. Per far questo bisogna mettere in pratica l’impegno affermato nel documento “La Chiesa e le prospettive del paese”: “(…) bisogna decidere di ripartire dagli ultimi che sono il segno drammatico della crisi attuale (…) Gli impegni prioritari sono quelli che riguardano la gente tuttora priva dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione (…) Bisogna inoltre esaminare seriamente la situazione degli emarginati, che il nostro sistema ignora e perfino coltiva: dagli anziani agli handicappati, dai tossicodipendenti ai dimessi dalle carceri oppure dagli ospedali psichiatrici”.
Beatissimo Padre, a volte temiamo che la parola “ultimi” diventi un termine di moda, ma se riflettiamo bene su questo termine, riusciremo a capire che ci sono altri che pretendono di essere i primi. Oggi davanti a Lei chiediamo alla Chiesa di condividere le sofferenze e le difficoltà non solo con le preghiere, ma lottando insieme contro quelle situazioni che causano la sofferenza. Chiediamo che siano eliminate ogni forma di barriere, anche quelle architettoniche, di modo che le chiese possano essere accessibili a tutti, anziani, malati di cuore, handicappati.
Vogliamo esprimere la nostra gioia con una preghiera al Signore: “O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu che hai tanto amato il mondo da offrire il tuo figlio Gesù Cristo, ti chiediamo di aumentare la nostra fede affinché possiamo vivere la sofferenza come condivisione alla vita e alla passione di Cristo, e la diffusione della buona notizia soprattutto ai poveri. Ti vogliamo pregare per il nostro Papa, perché tu o Signore lo sostenga e lo illumini con la Tua Parola, per il nostro Vescovo Vincenzo, Pastore della nostra Diocesi e per tutti coloro che sono lontani da te”.
San Savino, 21 ottobre 1996

Breve schede biografica

Antonio Giuseppe D’Aprano nasce il 18 marzo 1952 a Ventosa, piccolo paese, frazione del comune di Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina, al confine con il casertano.
Il padre, Raffaele, è operaio, la madre Maria Gaveglia è casalinga. La famiglia vive in difficoltà economiche. Antonio è il secondogenito; prima di lui, nel 1950, è nato il fratello Salvatore e nel 1967 nascerà la sorella Nunzia.
Intorno ai 6 mesi è colpito da una febbre poliomielitica che danneggia il sistema nervoso causandogli tetraparesi spastica: Antonio non può muovere, perché irrigidite, né gambe né braccia. Conserverà solo un buon movimento del capo e dei muscoli facciali, che gli permetteranno di parlare comprensibilmente.
Dopo i primi tentativi di cura nella zona, la famiglia trova modo di ricoverarlo nell’istituto “Sol et Salus” di Torre Pedrera di Rimini, grande nosocomio che ospita bambini e adulti poliomielitici, spastici e con altri handicap. Antonio vi entra intorno agli 8 anni e, tranne qualche breve periodo passato in casa, vi rimane ricoverato fino ai 17 anni. In istituto, che ha una scuola interna, prende la licenza elementare. Nel 1969/70, a 17 anni, Antonio ritorna definitivamente a Ventosa.
Vive in famiglia come invalido fino al 1974, quando, aiutato da alcuni amici e dal giovane parroco arrivato nel 1972, Don Simone Di Vito, decide di fuggire dal paese per continuare gli studi, vincendo la più netta opposizione del padre. Nell’autunno 1974 ritorna dunque all’istituto “Sol et Salus” con l’intenzione di trovare un modo per continuare gli studi. L’istituto è visitato da alcuni giovani volontari cattolici del vicariato di Coriano, presso Riccione, tra cui Sergio Orsi, animati da alcuni sacerdoti tra cui Don Oreste Benzi, fondatore della comunità Associazione “Papa Giovanni XXIII”. Su loro proposta, il 27 settembre 1975 Antonio lascia l’istituto e entra a far parte della casa-famiglia di S. Andrea in Besanigo: figura paterna è Sergio Orsi (fino al 1976), figura materna è Rita Conti.
La casa-famiglia è promossa e sostenuta dal vicariato di Coriano e viene frequentata da molti giovani della zona, specie della parrocchia di San Martino di Riccione, da cui verranno molti obiettori che vi faranno servizio civile.
Antonio, intanto, come il resto della casa, si avvicina sempre più alla comunità “Papa Giovanni XXIII” fino a entrare a farne parte e nel 1978 la casa-famiglia si trasferisce a Misano Monte. Antonio ne diventa la figura paterna. Nel frattempo prende, studiando da privatista, la licenza media e inizia la frequenza dell’istituto magistrale a Rimini. Comincia un periodo di tensioni e di revisione critica dell’appartenenza alla comunità “Papa Giovanni XXIII” che porterà Antonio alla decisione di uscirne.
Nel 1980 prende il diploma magistrale. Antonio, ancora nella casa di Misano Monte, si iscrive alla facoltà di Psicologia dell’Università di Padova e nell’autunno del 1981 comincia a frequentarla, alloggiando negli appartamenti dell’opera universitaria, accompagnato da un obiettore della Caritas di Rimini.
Nel 1981 Sergio Orsi si sposa con Simonetta Cesarini; dopo un anno prendono in affidamento Giuseppe Callegari, ragazzo di 14 anni con deficit psichici e invitano Antonio ad una convivenza “di prova” nella loro casa, a Riccione. Simonetta e Sergio avranno poi due figli: Luca, nato nel 1983, e Agnese, nata nel 1988. Antonio accetta, ed entra “temporaneamente” in casa Orsi nel 1982: suo primo obiettore in quella casa sarà Agostino, un ragazzo di Milano conosciuto all’università. Da allora, tranne per brevi periodi, vi saranno sempre obiettori di coscienza assegnati alla casa, prima dalla associazione “Papa Giovanni XXIII” poi dalla Caritas di Rimini. Gli obiettori risiedono in casa e il loro servizio nei primi anni dura 20 o più mesi, mentre negli ultimi durerà 12 mesi e frequentemente con due obiettori alternativamente.
Nel 1983 comincia a frequentare, prima come tirocinante e poi come operatore la prima fase (Accoglienza) del percorso di recupero per tossicodipendenti della comunità “Papa Giovanni XXIII”; vi lavorerà fino al 1989.

La festa per la laurea.

Nel 1986 si laurea in Psicologia all’Università di Padova con una tesi sulla tossicodipendenza. Nel 1987 e fino al 1990 opera nella cooperativa sociale “Riccione Servizi” dirigendovi un Centro di Consulenza e Terapia Relazionale che si occupa di terapie individuali e familiari per tossicodipendenti e altre forme di disturbi psicosomatici. Tra il 1988 e il 1990 frequenta un corso di specializzazione triennale in terapia familiare sistemica presso il Centro Studi System di Milano.
Finita l’esperienza con la cooperativa di solidarietà sociale “Riccione Servizi” Antonio continua a operare come terapeuta, soprattutto della famiglia, e promotore e supervisore di forme di sostegno alla vita familiare. Dal 1987 aveva iniziato un lavoro con un gruppo di auto-aiuto di genitori, da cui nasce, nel 1992, l’associazione di volontariato “Progetto Famiglia” di cui sarà per molti anni Presidente. Chiamato nel 1993 come consulente di gruppi di auto-aiuto dal Comune di Sant’Arcangelo di Rimini ne cura la supervisione e promuove la nascita, nel 1997, dell’associazione di volontariato “Famiglie in cammino”, attiva nella zona di Santarcangelo di Rimini e Savignano. Viene chiamato come esperto in numerosi corsi di formazione per famiglie e operatori; dirige il Centro di Consulenza psico-pedagogica dei comuni di Sant’Arcangelo di Rimini e Verucchio, e collabora a progetti di intervento per la prevenzione del disagio nella scuola.

Con la famiglia Orsi.

Dal 1994 Antonio con la famiglia Orsi si trasferisce nella residenza di San Savino, frazione di Montecolombo, sopra Coriano. In quella casa, nel suo letto, la mattina del 27 febbraio 1999, improvvisamente, Antonio muore.

Panoramica di Ventosa.

Ventosa

Ventosa è un piccolo paese di poco più di 100 abitanti, frazione del comune di Santi Cosma e Damiano, collocata su un’altura dei monti Aurunci a 200 m s.l.m. da cui si domina la valle del Garigliano sino a Roccamonfina, Sessa Aurunca. La vista arriva sino al monte Massico. L’ubicazione di Ventosa faceva parte della disposizione difensiva contro i Saraceni, infatti le sue due torri, di cui oggi ne resta una, servivano ad allarmare l’entroterra cassinate quando i saraceni approdavano al Garigliano. Attraverso le torri di Ventosa, di Castelforte e di Suio, che si guardavano reciprocamente, si aveva la visione del golfo di Gaeta e dell’arco dei monti Aurunci che lo chiudono.
La torre di Ventosa aveva funzione anche di approvvigionamento dell’acqua. Era, infatti, una torre-cisterna.

La torre romanica dell’XII secolo (a base quadrata, alta originariamente 24 metri, oggi 5 in meno) è il simbolo stesso della località, da cui si domina sia la piana del Garigliano sia parte dell’entroterra.

Ventosa fu anche eremo distaccato di Montecassino, aspetto non di poco conto nel governo del territorio; infatti è depositato presso l’abbazia un documento di compravendita risalente al 980. Il piccolo monastero, intitolato inizialmente a San Giovanni Battista e poi a San Martino di Tours, accolse per alcuni secoli, nel periodo medioevale, i padri cassinesi, i quali svolsero un’opera altamente meritoria, assicurando terreni e assistenza spirituale alla popolazione locale e facendo del villaggio una parrocchia di fatto. Andati via i monaci benedettini, il monastero divenne, insieme ai terreni ad esso annessi, una commenda cardinalizia, cioè un beneficio ecclesiastico di proprietà della Curia Romana, e come tale rimase sino alla fine del ‘700. Il beneficio di San Martino di Ventosa fu poi incamerato dal Regno Borbonico. Questa realtà ebbe forti riflessi sociali. La collina, tra l’altro, fu “vietata” ai contadini del posto, i quali, se desideravano possedere un proprio terreno, dovevano spingersi oltre. E così, per secoli, gli uomini di Ventosa scesero nella vicina valle dell’Ausente. Quando, poi, la terra non riuscì più a sostenere le loro famiglie, molti contadini diventarono emigranti. Non ebbero paura di affrontare il mare sconfinato e terre sconosciute e lontane.
Il borgo di Ventosa è stato sede di vari frantoi oleari, che apportavano prestigio e benessere; oggi purtroppo, questa attività è in decadenza come pure il centro storico sancosimese.
In epoca preromana, l’antico popolo che abitava da tali alture fino al Mar Tirreno era il popolo degli Aurunci. Il territorio di Ventosa in tale epoca doveva appartenere alla città di Vescia.
Ventosa nasce nell’Alto Medioevo. Nell’anno 830 entra nella storia: Ventosa allora era territorio di Gaeta, città bizantina; nei verbali di un processo per una controversia su alcuni beni ecclesiastici appare tra i giudici tale Siceramit de Ventosa. Allora Ventosa era già un villaggio dove avevano trovato rifugio gli abitanti della pianura dalle invasioni barbariche. Nel 1064 i Normanni conquistano Gaeta e 1078 Giordano, principe normanno di Capua dona la contea di Suio all’Abbazia di Montecassino, guidata dall’abate Desiderio. Il controllo della foce del Garigliano attraverso l’acquisizione della contea era di importanza strategica per il monastero cassinate perché questa era un diretto sbocco verso il mare.
Ventosa era uno dei casali più cospicui della contea di Suio; entrando a far parte della Terra di San Benedetto il villaggio s’accresce: all’incirca in quest’epoca si ha la realizzazione di un piccolo monastero benedettino, una cella, dedicata a San Giovanni Battista; probabilmente la cella benedettina fu costruita su di una chiesetta rurale preesistente.
Nel XV secolo, visse a Ventosa la giovane Aurimpia, ispiratrice del poeta in lingua latina Elisio Calenzio, che l’amava corrisposto.
Nel giorno di Pasqua del 1799, durante la napoleonica Repubblica Partenopea, la popolazione di Castelforte in particolare, ma anche degli adiacenti Santi Cosma e Damiano e Ventosa, dovette difendersi dall’incursione punitiva francese contro le comunità che sostenevano le truppe comandate dall’itrano Michele Pezza, detto Fra Diavolo, fedele al Re delle Due Sicilie. Si racconta che i Ventosari si difesero casa per casa dall’avanzare delle truppe a colpi di pietre.

Chiesa parrocchiale di San Martino in Ventosa (Foto di Antonio Ricciardi).

L’attuale chiesa di San Martino è costruita sul piccolo monastero benedettino preesistente, abbandonato dai benedettini nel Trecento. Il 3 novembre 1819 l’allora vescovo di Gaeta Francesco Bonomo, con apposito provvedimento, decretava la nascita della parrocchia di San Martino in Ventosa. Le festività proprie di Ventosa sono l’8 settembre (festa della Madonna del Riposo, patrona di Ventosa) e l’11 novembre (festa di San Martino di Tours, a cui è dedicata la chiesa parrocchiale).
Nel 1943-44, trovandosi sulla Linea Gustav, per oltre nove mesi il territorio fu sottoposto all’occupazione dei tedeschi e ai bombardamenti degli alleati che cancellarono una gran parte dell’abitato; gli abitanti furono sottoposti a vessazioni dagli occupanti tedeschi e poi sfollati.

Scorcio di Ventosa.

La produzione caratteristica di Ventosa, con le tecniche tramandate da padre in figlio, è la produzione di oggetti in strame (Ampelodesma tenax, vegetale dalle foglie lunghe e fibrose), dalla raccolta della materia prima nei campi fino al prodotto finito. La falciatura si esegue prima del levar del sole, quando il cespuglio è ancora umido di rugiada; il materiale poi è sottoposto a battitura e ridotto a strisce intrecciate. Lo strame, detto stramma, viene utilizzato per l’impagliatura di sedie, per la produzione di cestini e sporte da lavoro, suppellettili etc. Una volta questa era l’attività principale di molte famiglie, complementare al lavoro agricolo; oggi è un’attività amatoriale.

Segue Parte 2 [QUI]

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