Solenne Santa Messa in suffragio dei caduti del Regno delle Due Sicilie a Nola
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 15.02.2023 – Vik van Brantegem] – Lunedì 13 febbraio 2023 alle ore 18.30, nella basilica cattedrale di Nola, è stata celebrata una Santa Messa in occasione del 162° anniversario della Capitolazione della Fortezza di Gaeta del 13 febbraio 1861, in suffragio di tutti i caduti del Regno delle Due Sicilie ed in ricordo dell’incendio doloso del duomo di Nola avvenuto nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 1861.

La celebrazione viene organizzata annualmente dalla Delegazione di Napoli e Campania del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, con il supporto organizzativo del Prof. Antonio De Stefano, Cavaliere di Merito con Placca, e i Cavalieri Costantiniani di Nola. Luigi Cerciello, Cavaliere di Merito, ha svolto il compito di Cerimoniere.

La Celebrazione Eucaristica è stata presieduta da Don Domenico De Risi, parroco della cattedrale, concelebrante Don Carlo Giuliano, Cappellano di Merito, assistiti dal diacono Dott. Giovanni Prevete, Cavaliere di Ufficio.
Nella sua omelia, Don De Risi si è soffermato sulla figura del Generale Cialdini, personalità molto discussa, riconoscendogli a dispetto delle ingiuriose accuse, un rispetto e una umanità nei confronti dei “vinti”, tanto da far celebrare nei giorni successivi alla presa di Gaeta una Messa funebre in suffragio dei tanti caduti.
Dopo la resa della piazzaforte di Gaeta il generale Cialdini il 17 febbraio 1861 divulgò un ordine del giorno, con parole di riconciliazione nei confronti degli sconfitti militarmente: «Soldati! Noi combattemmo contro Italiani, e fu questo necessario, ma doloroso ufficio. Epperciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioia, non potrei invitarvi agli insultanti tripudi del vincitore. Stimo più degno di voi e di me radunarvi quest’oggi sull’istmo e sotto le mura di Gaeta, dove verrà celebrata una gran messa funebre. Là pregheremo pace ai prodi che durante questo memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre linee quanto sui baluardi nemici. La morte copre di un mesto velo le discordie umane e gli estinti sono tutti eguali agli occhi dei generosi. Le ire nostre d’altronde non sanno sopravvivere alla pugna. Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdona».

Al termine del Sacro Rito, il Delegato Nob. Manuel de Goyzueta dei Marchesi di Toverena, dei Marchesi di Trentenare, Cavaliere di Giustizia, ha invitato il Consigliere di Delegazione Avv. Alessandro Franchi, Cavaliere di Merito, a recitare la Preghiera del Cavaliere Costantiniano.

La serata è proseguita con un’agape conviviale in un ristorante della zona.
La resa di Gaeta con l’onore delle armi
L’assedio di Gaeta tra il 5 novembre 1860 ed il 13 febbraio 1861 fu uno degli ultimi fatti d’armi delle operazioni di conquista dell’Italia meridionale nel corso del Risorgimento italiano. La Città di Gaeta, al confine tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio, era difesa dai soldati dell’esercito delle Due Sicilie, ivi arroccati dopo la Spedizione dei Mille e l’intervento della Regia Armata Sarda.

La caduta di Gaeta, insieme con la successiva presa di Messina e di Civitella del Tronto, portò alla proclamazione del Regno d’Italia. Da quella Piazza S.M. Francesco II rivolge ai popoli delle Due Sicilie un Proclama in occasione dell’8 dicembre 1860, giorno della solennità dell’Immacolata Concezione, Patrona del Regno delle Due Sicilie: Da questa Piazza dove difendo più che la mia corona l’indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felice». Riportiamo di seguito il testo integrale di questo proclama, con le parole del Re che risuonano ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo.
Il 13 febbraio 1861, nella villa reale dei Borbone (già villa Caposele, attualmente Villa Rubino, a Formia) venne firmato l’armistizio. Alle ore 18.15 le artiglierie di entrambi gli schieramenti cessarono le ostilità, entrando in vigore il cessate il fuoco a seguito della firma della capitolazione, e la guarnigione di Gaeta uscì dalla piazzaforte con l’onore delle armi. Il 14 febbraio il Re Francesco II e la Regina Maria Sofia salgono sul piroscafo francese Mouette e lasciano Gaeta diretti nello Stato Pontificio a Terracina, da dove proseguirono in carrozza per Roma.

La cittadella di Messina si arrese a Garibaldi dopo due mesi, il 12 marzo e Civitella del Tronto – ultima roccaforte dell’esercito duosiciliano – riuscì a resistere all’esercito piemontese con 530 uomini appartenenti ai diversi corpi (gendarmeria, fanteria di riserva, reali veterani, artiglieria) con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e 1 colubrina in bronzo del museo, fino al 20 marzo 1861. Dopo due giorni di terrificanti bombardamenti – 7.860 proiettili per 6.500 kg di polvere utilizzata – i Piemontesi riescono ad entrare attraverso una breccia. Finisce il Regno delle Due Sicilie.
Il duomo di Nola
La basilica cattedrale di Nola, dedicata a Santa Maria Assunta in Cielo e ai Santi Felice Vescovo Martire e Paolino conserva le spoglie di San Paolino trafugate dal complesso paleocristiano di Cimitile tra il IX e X secolo dai longobardi e trasportate prima a Benevento e poi a Roma, ritornate a Nola soltanto nel 1909. Una cappella conserva le spoglie in un’urna bronzea mentre sull’altare maggiore svetta l’Immacolata Concezione fatta in cartapesta secondo l’artigianato tipico della città, famosa a livello internazionale per la festa dei Gigli come molti dettagli in essa presenti, gli angeli reggicero e il soffitto a cassettoni. L’opera è stata realizzata in collaborazione con manovalanza leccese.

La cattedrale sorge in piazza Duomo, dove su lato sinistro è visibile la statua dedicata all’imperatore Augusto legato al territorio nolano, nel punto in cui si costruì la basilica inferiore intorno alla sepoltura del corpo di San Felice Vescovo e Martire, mai ritrovato. La facciata è preceduta da un portico con cinque arcate sorrette da colonne in marmo.
La chiesa collega i due momenti storici, dalla fine del Trecento quando venne costruita per volere del Conte Niccolò Orsini al di sopra delle strutture più antiche relative alla basilica inferiore in cui sono ancora visibili una croce gemmata di V-VI secolo ed un altorilievo con Cristo fra gli apostoli di XIII secolo. Distrutta più volte durante i secoli, è una costruzione moderna, edificata tra il 1869 e gli inizi del Novecento su progetto dell’architetto Nicola Breglia in stile neorinascimentale: essa fu inaugurata nel maggio 1909 con la traslazione delle reliquie di San Paolino.

La nuova costruzione fu necessaria a causa del devastante incendio che avvenne nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 1861, ad opera di facinorosi rivoluzionari e massoni. La cattedrale fu prima saccheggiata e poi incendiata, quando la capitolazione della Fortezza di Gaeta era già concordata e firmata, e ne era giunta la notizia anche a Nola. L’incendio doloso distrusse completamente l’antica chiesa gotica; di essa si salvarono soltanto alcuni manufatti, le statue dei santi patroni, la cripta, la cappella e la statua dell’Immacolata.
Nel marzo del 1954 Papa Pio XII ha elevata la cattedrale di Nola alla dignità di basilica minore.
Il proclama reale dell’Immacolata 1860
Da questa Piazza dove difendo più che la mia corona l’indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici. Traditi ugualmente, ugualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo delle nostre sventure; che mai à durato lungamente l’opera della iniquità, nè sono eterne le usurpazioni. Ho lasciato perdersi nel disprezzo; ò guardato con sdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona; ò combattuto non per me ma per l’onore del nome che portiamo. Ma quando veggo i sudditi miei che tanto amo in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portando il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore napolitano batte indignato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell’astuzia. Io sono napoletano; nato tra voi, non ò respirato altra aria, non ò veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni. Erede di una antica dinastia che à regnato in queste belle contrade per lunghi anni ricostituendone l’indipendenza e l’autonomia, non vego dopo avere spogliato del patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa ad impadronirsi con forza straniera della più deliziosa parte d’Italia. Sono un principe vostro che à sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra’ suoi sudditi. Il mondo intero l’à veduto; per non versare il sangue ò preferito rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore, io non poteva credere al tradimento. Mi costava troppo punire; mi doleva aprire, dopo tante nostre sventure un’era di persecuzione, e così la slealtà di pochi e la clemenza mia ànno aiutata l’invasione piemontese, pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionarii o poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà dei miei popoli, il valore dei miei soldati. In mano a cospirazioni continue non ò fatto versare una goccia di sangue, ed ànno accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore il più tenero pe’ miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nella onestà degli altri, se l’orrore istintivo al sangue meritano questo nome, sono stato certamente debole. Nel momento in che era sicura la rovina de’ miei nemici, ò fermato il braccio de’ miei generali per non consumare la distruzione di Palermo: ò preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che ànno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona. Ho creduto di buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutt’ i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi nè dichiarazione di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure a’ trionfi de’ miei avversari. Io aveva dato una amnistia, aveva aperto le porte della patria a tutti gli esuli, concedendo a’ miei popoli una costituzione. Non ò mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere che consacrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica rimuovendo ad un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento. Aveva chiamato a’ miei consigli quegli uomini che mi sembrarono più accettabili all’opinione pubblica in quelle circostanze, ed in quanto me lo à permesso l’incessante aggressione di che sono stato vittima, ò lavorato con ardore alle riforme, a’ progressi, ai vantaggi del comune paese. Non sono i miei sudditi che mi ànno combattuto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l’ingiustificabile invasione d’un nemico straniero. Le due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte. Che à dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia? Vedete lo stato che presenta il paese. Le Finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’amministrazione è un caos; la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti: in vece di libertà. Lo stato di assedio regna nelle provincie, ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano alla bandiera di Sardegna. L’assassinio è ricompensato; il regicidio merita un apoteosi; il rispetto al culto santo de’ nostri padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono pensioni che paga il pacifico contribuente. L’anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri àn rimestato tutto per saziare l’avidità e le passioni dei loro compagni. Uomini che non hanno mai veduta questa parte d’Italia, o che ànno dimenticato in lunga assenza i suoi bisogni, formano il vostro governo. In vece delle libere istituzioni che io vi aveva date e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura e la legge marziale sostituisce adesso la costituzione. Sparisce sotto i colpi de’ vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le due Sicilie sono state dichiarate provincie di un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da Prefetti venuti da Torino. Ci è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire. Unitevi intorno al trono de’ vostri padri. Che l’oblio copra per sempre gli orrori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ò fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele ai miei popoli ed alle istituzioni che ò loro accordate. Indipendenza amministrativa ed economica tra le due Sicilie con parlamenti separati; amnistia completa per tutti i fatti politici; questo è il mio programma. Fuori di queste basi non ci sarà pel Paese, che dispotismo o anarchia. Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non abbandonare così santo e caro deposito. Se l’autorità ritorna nelle mie mani, sarà per tutelare tutt’i diritti, rispettare le proprietà, garantire le persone e le sostanze de’ miei sudditi contro ogni sorta di oppressione e di saccheggio. E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero l’ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza sana con incrollabile fede, con immutabile risoluzione; ed aspettando l’ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria; per la felicità di questi popoli, che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia. Preghiamo il Sommo Iddio, onde si degni sostenere la nostra causa.
Gaeta, 8 dicembre 1860
FRANCESCO
Foto di copertina: particolare dell’affresco raffigurante i combattimenti nei pressi dell’arco di Adriano a Santa Maria Capua Vetere, durante la Battaglia del Volturno tra il 26 settembre e il 2 ottobre 1860. La battaglia fu l’ultimo tentativo fatto da Francesco II di respingere i garibaldini e riconquistare il proprio regno, ma il suo fallimento segnò definitivamente la fine del Regno delle Due Sicilie. Il Re decise di chiudersi a Gaeta con i resti delle forze a lui fedeli, in attesa di un eventuale aiuto straniero alla sua causa, che tuttavia non giunse mai. Si arrese definitivamente il 13 febbraio 1861, dopo cinque mesi di assedio da parte dell’Esercito Piemontese.



























