“Est modus in rebus”. Video-telematica e disintossicazione
Esiste una misura nelle cose [*]
Accostarsi gli un gli altri
Sempre più telematicamente
Fino a che dubitar
Che la vita stessa sia vera.
E sciabordati dai sensi e dai sessi
Navighiamo sui relitti incompiuti
Dei nostri primitivi obiettivi.
Ma io che non amo poi tanto
Tutto ciò che attecchisce in un lampo
Manterrei sempre intatto uno spazio
In cui il trionfo non sia solo virtuale.
Non è mai stato facile in passato avere relazioni personali ravvicinate. Ma ad occhio nudo si poteva intravedere lo spessore dell’interlocutore che avevamo davanti attraverso il suo profumo, gli abiti indossati, il tono della voce, il tempo che aveva impiegato a raggiungerci, lo spazio che aveva percorso, il dono che ci aveva portato. Gli impegni che aveva tralasciato, per preferire quello con noi. La cura che avevamo impiegato per accogliere l’amico. L’emozione dell’attesa.
Eppure neanche in quelle occasioni eravamo preservati da sorprese, a volte sgradevoli. Figuriamoci oggi, che la vita è tutto un macchinato bla-bla.
La reclusione che ci è stata imposta dall’alto durante la pseudo-pandemia, che abbiamo tanto criticato e contestato, non è stata possibile imporcela a causa del fatto che spontaneamente dietro ad uno schermo vivevamo da tempo nascosti come sorci? E il transumanesimo non si imporrà sulla stessa premessa? E che senso ha combattere a suon di link la diffusione del 5G?
L’uomo è animale gregario per eccellenza [*]. Come può supporre anche la benché minima ombra di felicità, considerando il danno che il fasullo “imperialismo in proprio” del virtuale può generare al suo stato psico-emozionale?
E a quello fisico? Basta leggere questa sentenza della Corte d’appello di Torino (solo una, tra le tante): “Esiste un’elevata probabilità che fu il cellulare a causare il tumore anche in relazione all’esclusione dell’intervento di fattori causali alternativi. (…) in assenza di possibili cause, vi è la presenza di un unico fattore di rischio costituito da un’esposizione prolungata a radiofrequenze” [QUI].
E a quello spirituale? Quanti sedicenti Cattolici – che ormai cosa significhi solo Dio lo sa – hanno fatto dello schermo il proprio tabernacolo vivente?
È bene che tutto abbia una misura, per evitare lo scivolone nel delirio della menzogna. E la disintossicazione si impone in chi intenda restare ancora umano.
Sui social i contatti si chiamano amici. Niente di più falso. L’amico nel virtuale è spesso carne da macello e il suo valore è subordinato all’utilizzo, al servizio e al contributo che offre all’ingranaggio della propria amata macchina personale. Così nel virtuale la macchina è amata e l’uomo è usato, ma occorre rammentare che la macchina è fatta per essere usata e l’uomo creato per essere amato. Non il contrario, come lì avviene.
Il virtuale, quindi, fa solo il verso al virtuoso, che virtuoso non è.
Non stiamo certo qui a demonizzare la telematica. Volevamo solo ricordare che essa svolge una funzione corretta, quando il virtuale si trasforma in reale. Posso testimoniare che grazie ai social ho avuto modo di conoscere gente così bella ed interessante che in altro modo non avrei mai potuto raggiungere. Quando la stima che si può intravedere attraverso lo schermo è vera ed è reciproca, inevitabilmente l’incontro si realizza. Mentre nei casi in questo ciò non avviene, non si può non prendere atto che insieme alla dipendenza la disumanizzazione in sé è già compiuta.
Ora rileggete la poesia iniziale, valutatevi e traetene vantaggio.
Grazie per l’attenzione.
Veronica Cireneo
[*] «Est modus in rebus | sunt certi denique fines | quos ultra citraque nequit consistere rectum» [Orazio, Satire].
[Esiste una misura nelle cose; esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto].
[**] «Sed quoniam, ut praeclare scriptum est a Platone, non nobis solum nati sumus ortusque nostri partem patria vindicat, partem amici, atque, ut placet Stoicis, quae in terris gignantur, ad usum hominum omnia creari, homines autem hominum causa esse generatos, ut ipsi inter se aliis alii prodesse possent, in hoc naturam debemus ducem sequi, communes utilitates in medium adferre, mutatione officiorum, dando accipiendo, tum artibus, tum opera, tum facultatibus devincire hominum inter homines societatem» [Cicerone, Calllidae voces (Elogio alla parola)].
[Ma poiché, come ha scritto splendidamente Platone, noi non siamo nati soltanto per noi, ma una parte della nostra esistenza la rivendica per sé la patria, e un’altra gli amici; e poiché ancora, come vogliono gli Stoici, tutto ciò che la terra produce è a vantaggio degli uomini, e gli uomini furono generati per il bene degli uomini, affinché possano giovarsi l’un l’altro a vicenda; per queste ragioni, dunque, noi dobbiamo seguire come guida la natura, mettendo in comune le cose di utilità comune, e stringendo sempre più i vincoli della società umana con lo scambio dei servigi, cioè col dare e col ricevere, con le arti, con l’attività, con i mezzi].
Foto di copertina: Grotte di Lascaux.
«Le caverne dell’uomo preistorico sono ricche di dipinti, le rocce d’ogni parte del mondo sono piene di antichi graffiti raffiguranti svariati soggetti, specialmente animali, ma anche scene complesse: uomini e donne al lavoro, o mentre danzano ed eseguono cerimonie; o, ancora simboli astratti di difficile interpretazione, e mani impresse sulle pareti con tinture vegetali di svariati colori.
Per chi o per cosa dipingeva, l’uomo preistorico?
Ignoramus et ignorabimus.
Forse sono proprio i nostri pregiudizi scientisti ed evoluzionisti che andrebbero rivisti. Forse è proprio l’immagine dell’uomo preistorico che dovremmo modificare: non creatura recentemente e quasi inspiegabilmente evoluta da forme inferiori, ma creatura spirituale, semmai decaduta da forme superiori di organizzazione, di pensiero e di civiltà. Come insegnano tanti racconti che recano un riflesso della Tradizionale primordiale, da quello biblico a quello platonico relativo all’Atlantide…» (Francesco Lamendola).