Colori forti d’Africa…
L’africano, Edizioni Instar Libri, Torino 2007, pp. 102. Le Clézio ripercorre la propria infanzia nelle lontane terre d’Africa. Ne emerge il racconto di una vita, anzi due; il difficile rapporto tra padre e figlio si miscela con le descrizioni di un continente misterioso in un tempo abitato dal colonialismo e dallo spettro della guerra. Immagini sempre attuali.
“I bambini non usano molte parole (e le loro parole non sono ancora consumate). A quel tempo ero molto lontano da aggettivi e sostantivi. Non riuscivo a dire e nemmeno a pensare “meraviglioso”, “immensità”, “potenza”; però ero in grado di sentire” (pp. 7). Il libro “L’africano” può quasi essere definito un’ode al sentire, all’esplosione dei sensi percepiti da un bambino occidentale in una terra calda e lontana come può essere il “continente nero”. Si tratta di un racconto autobiografico teso all’identificazione, graduale, del mondo circostante scritto con frasi ellittiche ed un gioco vorticoso di parole che dona immediatezza alla lettura: alla fine si resta immersi in un insieme di pennellate che fanno intravedere numerose sfumature. Se molto si deve all’autore, altrettanto in questo caso tocca riconoscere alle traduttrici (ben 14!!) che hanno lavorato in squadra sull’originale francese per renderne l’emotività in evoluzione.
L’infanzia è al centro del racconto: nel 1948, ad appena otto anni, l’autore Jean-Marie-Gustave Le Clézio, lascia Nizza, città natale, per andare in Nigeria con la madre e il fratello. Là, il padre, che non ha mai conosciuto, esercita la professione di medico nell’esercito britannico. Il libro, scritto cinquant’anni dopo i fatti raccontati, rivive luoghi e persone con naturalezza e talvolta irruenza. In questo nuovo mondo “nero” il bambino scopre la vera libertà, quella fisica ma soprattutto quella mentale. Il filo conduttore è il rapporto con il padre, descritto come un uomo duro e, per colpa della guerra, abituato alla solitudine: “Oggi, a distanza di tempo, capisco che mio padre cercava di insegnarci la parte più difficile dell’educazione, quella che non si impara in nessuna scuola. L’Africa non l’aveva trasformato, ne aveva solo acuito il rigore (…) Autorità e disciplina, fino alla brutalità. Ma anche precisione e rispetto – regole fondamentali delle antiche società camerunesi e nigeriane” (pp. 88).
Il padre tenta di recuperare il tempo perduto con i figli, ma il suo modo di relazionarsi è ormai distante da loro, che comunque dimostrano ammirazione verso un uomo che ha dato la sua vita per il lavoro, “la sua ossessione”. Medico coloniale lontano dagli ideali colonialisti, l’uomo è nato a Mauritius ed ha trascorso gran parte della sua vita in colonie africane lontano dalla famiglia a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale. Nonostante un distacco quasi formale dalla situazione politica e sociale convenzionale, Le Clézio adotta uno stile descrittivo che pare richiamare la letteratura coloniale miscelando istinti e colori forti. Dapprima un po’ timidamente, poi più consapevolmente, compare l’ombra della guerra e dello spirito colonialista. Ciò che lega la vita privata dell’autore al contesto storico è inequivocabilmente il padre, ciò che fa e dice. Il ragazzo – ormai uomo, quando prende in mano la penna per fissare su carta i ricordi – trae così spunti di riflessione che diventano attuali (e condivisibili) anche per il lettore: “Non è facile trasformare un intero popolo quando il cambiamento è imposto con la forza: una lezione che mio padre ha sicuramente appreso dalla solitudine e dall’isolamento in cui la guerra l’aveva sprofondato” (pp. 78).
La suggestione che evocano le parole è accompagnata da quella delle immagini scattate dallo stesso padre: una natura selvaggia e sconfinata, dalle forme e dai colori aspri (evidente sebbene le foto siano in bianco e nero). Capanne con il tetto di paglia e fiumi larghi come grandi laghi; bambini che attingono l’acqua e danze di stregoni. Poi immense distese, “una regione in cui mio padre e mia madre assaporano una libertà mai conosciuta prima; dove camminano tutto il giorno” (pp. 64). E ancora, lunghi ponti di corda e volti di anziani, piccoli infagottati alla schiena delle madri e alte palme contro il cielo limpido…