Saviano e la lotta all’illegalità. Non un simbolo, ma un ragazzo
Roberto Saviano vuole una vita. Vuole una casa, vuole innamorarsi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliersi un libro leggendo la quarta di copertina, vuole passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla la madre. Vuole vivere una vita normale questo ragazzo di 28 anni che una vita normale non avrà più, dopo il successo di un libro che ha fatto troppo parlare di sé.
C’è il bravo scrittore, c’è l’uomo diventato un simbolo della lotta alla criminalità, c’è la fierezza di un tipo onesto che è dalla parte del giusto, sa di esserlo, e descrive la realtà della sua terra. C’è il simbolo e poi c’è l’uomo, solo l’uomo, il ragazzo al quale ogni particolare di una vita spensierata è stato tolto e che per sopravvivere è costretto a fare la vita di un sorvegliato speciale.
“Andrò via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà…”, dice. “Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido – oltre che indecente – rinunciare a se stessi, lasciarsi piagare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. ‘Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l’odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri – oggi qui, domani lontano duecento chilometri – spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me”.
Forse sì. Se Saviano andasse via dall’Italia – come qualcuno dice – si potrebbe pensare ad una sconfitta per la parte buona del paese. Ma da qui ad appellarsi a lui perché resti, perché non vada all’estero, passa il sottile filo della voglia di una vita normale. Il filo sottile di una esigenza umana e umanissima in un ragazzo come tanti. Se allontanarsi, anche solo per poco tempo, fosse ritrovare momenti di maggiore serenità, fosse poter passare un po’ di tempo a fare le cose di una volta, almeno alcune, non solo si potrebbe, ma si dovrebbe fare. Pazienza per una volta se il messaggio lanciato fosse interpretato come una resa: non di questo si tratta, ma di un semplice e sano realismo che intende restituire anche solo qualche momento di normalità ad una persona costretta suo malgrado a vivere sulle barricate, continuamente nel sospetto e nella paura. Roberto Saviano non è un simbolo. E’ un ragazzo. Lasciatelo andare dove si troverà meglio.