Il canto del Mistero

Condividi su...

Dal felice connubio tra Mistero e arte, Rito e musica, Preghiera e bellezza, è fiorita una delle più affascinanti avventure dell’uomo, spirito e corpo, invisibile e visibile, silenzio e suono, eternità e tempo, trascendenza e incarnazione: la Liturgia in canto.

Nell’arte liturgica, la bellezza non è l’effetto dell’arte umana che si autocompiace e perciò si autocelebra: sarebbe idolatria! La bellezza liturgica è il riflesso della Gloria divina che si rivela. Dio si manifesta e l’artista lo mostra. Il Padre canta il suo Verbo e lo dona, l’artista incarna il Verbo e lo canta. Dal Logos, fonte e forza originante e originale, fiorisce il melos del canto liturgico che esprime il dia-logos tra Dio e l’uomo.

È questa l’esperienza di sant’Ambrogio, vescovo di Milano, giustamente considerato “il più musicale” fra tutti i Padri della Chiesa. Egli, da mistico, contempla il Verbo e lo incarna, da teologo si lascia plasmare dalla Parola, da Pastore la trasfonde nella catechesi e nell’omelia, da poeta traduce in poesia la “sobria ebbrezza” dell’esperienza mistica, da musico trasforma la parola poetica in canto.

Il canto dei credenti, dunque, non è espressione di vuota spensieratezza o di superficiale ilarità, non è nemmeno manifestazione di puro estetismo fine a se stesso, non è risuono di emozioni soggettive né ricerca di echi di un Dio lontano e sconosciuto. Il canto di chi crede è l’espressione di un cuore colmo di stupore e di gratitudine per la manifestazione dell’amore con cui Dio crea e redime. I cristiani cantano perché Cristo risorto vive in loro e li salva. Cantano perché percepiscono di essere inseriti nell’azione salvifica di Dio nella luce della sua epifania. I credenti in Cristo cantano, sia quando si trovino nella gioia, sia quando soffrano nel pianto, perché il loro cuore è colmo di speranza. Lì dove il canto muore, cedendo il posto al mutismo, lì si spegne anche la speranza. La libertà che spera, canta sempre l’amore che crede.

Lo scorso 11 ottobre abbiamo celebrato i cinquant’anni dell’apertura del concilio ecumenico Vaticano II. La prima costituzione Sacrosanctum Concilium situa il canto e la musica in quella prospettiva teologale che ne evidenzia due fondamentali aspetti: quello latreutico e quello soteriologico. Il canto, infatti, partecipa al fine stesso della Liturgia che è «la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli» (112). Poi, istruendo che il simbolismo sonoro non si riduce a soggettivo appagamento estetizzante, ma diventa elemento epifanico per celebrare il Mistero teandrico del dialogo salvifico, definisce che musica sacra «è quella che, composta per la celebrazione del culto divino, è dotata di santità e bontà di forme». Il gesto del cantare è, dunque, espressione della santità in splendore di bellezza.

E ancora la SC afferma che:

–        per il fatto che la tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio di inestimabile valore,

–        per il fatto che la musica sacra, unita alle parole, è parte necessaria e integrante della liturgia solenne,

–        per il fatto che la musica sacra è stata lodata dalla Sacra Scrittura, dai Padri della Chiesa e dai sommi Pontefici,

–        per il fatto che la musica sacra ha da svolgere un munus ministeriale all’interno delle celebrazioni liturgiche,

«la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più soavemente la preghiera, sia aiutando di più l’unanimità, sia nobilitando di più la solennità dei sacri riti» (SC 112). Il testo è un’armonia in crescendo che ci fa ascoltare il ritmo di una sequenza di maggiorativi che, partendo dalla “santità”, arriva alla “nobiltà”. È da notare, inoltre, che questi “più” non sono soltanto maggiorazioni quantitative, ma anche qualitative in rapporto al musicale e al liturgico, al pastorale e allo spirituale. E allora, la musica per la liturgia, per possedere questi requisiti, deve fare delle scelte fondamentali:

1. Compiere il salto di qualità dal sacro al  santo.

Sacro è cosa che si rapporta alla trascendenza di Dio misurandone l’intervallo tra noi sue creature e Lui, “Amico degli uomini”, “Creatore e Signore”, “Salvatore e Giudice”… trascrivendo questo intervallo in “distanza e lontananza” e guardando a Lui inafferrabile, intoccabile, inarrivabile. Santo dice lo stesso intervallo trascrivendolo, però, in chiave di prossimità e di presenza: il nostro Dio è vicino e avvicinabile, fatto nostra carne della nostra natura. La Liturgia, dunque, vuole un “canto sacro” per sacra distanza oppure un “canto santo” per santa partecipazione?

2. Avere una connessione più stretta con l’azione liturgica.

È l’azione santissima della Chiesa sacramentale. La celebrazione liturgica non vuole un canto di accompagnamento o di sottofondo o di spettacolo da colonna sonora, ma canto che sia icona sonora del Mistero celebrato.

3. Rendere “più soave la preghiera”.

Il termine suavitas indica amabilità della bellezza.

Lo canta il Salmo 143: «Lodate il Signore perché è buono, cantate inni al suo nome perché è soave» (v. 3). Lo descrive il Cantico dei Cantici: «Fammi vedere il tuo volto, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo volto è bellezza» (2,14).

La visione-ascolto del Logos-Icona diventa risposta in amabile bellezza nel dialogo teandrico sacramentale.

4. Dare più aiuto all’unanimità.

L’unanimità è dell’assemblea convocata e riunita per l’Actio Liturgica.

Il canto sarà tanto più santo quanto più realizzerà la compartecipazione alla ministerialità dei vari e diversificati ministeri che articolano la Sinassi per l’Azione liturgica.

5. Rendere la solennità più nobile.

La celebrazione, tanto più è “semplice” quanto più è “udibile”, tanto più è “nobile” quanto più è “semplice”. Nobilis significa illustre in chiarezza, eccellente in qualità. Sollemnis è ciò che s’impone per se stesso senza ricorrere a orpelli e fasti complementari. Simplex è sintesi di perfezione.

Perciò, l’eccedenza della sacramentale-santa Liturgia (non generica sacralità religiosa) non si degradi in ridondanze vacue e teatralità coreografiche. La celebrazione sarà «tanto più santa» quanto più la “solennità” sarà espressa in “nobile semplicità” (cfr. G. Liberto, Liturgica Poliphonia, Ed. LEV, presentazione di C. Valenziano).

Nella celebrazione liturgica, dunque, l’espressione canora è:

–        canto che celebra e interpreta l’Incarnazione della Trinità nella storia dell’uomo: componente teologica

–        canto che conduce il battezzato a entrare nel Mistero della relazione d’amore con la Trinità: componente mistagogica

–        canto che esprime il dialogo personale-comunitario che è duetto d’amore sponsale tra l’Eterno Infinito incarnato nello spazio e nel tempo e la fragilità creaturale che s’immerge sacramentalmente nell’Amore Trinitario: componente ecclesiologica.

Quando i Padri della Chiesa cercano di configurare la vita del cielo e il segno della gloria si riferiscono, quasi sempre, al canto. Il canto, che mentre è eseguito svanisce, porta in sé il germe dell’attesa dell’uomo che anela al compimento. Sant’Agostino così descrive la vita della gloria: «Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (De civitate Dei, XXII,3,5). Ogni canto della preghiera liturgica deve esprimere la quieta tensione umana tra l’incarnazione nell’affascinante e drammatica trama dell’oggi storico e la nostalgia piena di speranza dell’incontro con la terra promessa di un futuro annunziato e, in qualche modo, già presente, il cui desiderio e la cui realizzazione nella gloria è dono ineffabile dello Spirito.

151.11.48.50