Cristo speranza dell’Europa. È tempo per un Progetto Culturale Europeo
Dal 23 al 26 settembre 2021, i Presidenti del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) si sono riuniti per la loro Assemblea Plenaria, che marcava i 50 anni dell’organizzazione. Il 24 settembre ho avuto l’opportunità, grazie al Cardinale Angelo Bagnasco, l’allora Presidente del CCEE, di presentare il mio libro Cristo speranza dell’Europa. 50 anni della Chiesa europea tra passato e futuro (Città Nuova 2021, 184 pagine) in uno spazio della Plenaria, durante il quale veniva anche presentato il lavoro della Federazione delle Associazioni Familiari Cattoliche in Europa (FAFCE), che ha ora un protocollo di intesa con il CCEE. Riporto il testo del mio intervento Per un Progetto Culturale Europeo, seguito dalla trascrizione di lavoro (leggermente ripulita o chiarita in alcuni casi) dell’intervento del Cardinale Bagnasco La missione del continente europeo si fonda sul Vangelo, nella presentazione insieme all’autore del libro Cristo Speranza dell’Europa, svoltasi l’11 marzo 2022 nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Genova, organizzata dalla Libreria San Paolo di Genova, grazie allo straordinario lavoro di Luca Valenziano, che ringrazio qui personalmente.
Il video integrale della presentazione che è durato circa 40 minuti ed è stato pronunciato a braccio, sulla base di copiosi appunti, si può trovare [QUI]. Il Cardinale, che è stato Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa dal 2016 al 2021, ha delineato la missione del continente europeo.
Per un Progetto Culturale Europeo
di Andrea Gagliarducci
Assemblea Plenaria del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa
Roma, 24 settembre 2021
Eminenze, Eccellenze, reverendi monsignori, amici.
Sono onorato di essere qui con voi, e ringrazio il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente del CCEE, per aver permesso ad un giornalista di tenere una relazione di fronte a voi. A Sua Eminenza va la mia stima personale, insieme agli auguri di una pronta guarigione. Non è qui con noi in presenza, ma è come se fosse con voi.
Questo libro nasce appunto da una telefonata con il Cardinale Bagnasco, cui avevo mandato i miei commenti su alcune situazioni della Chiesa che mi preoccupavano. Lui ebbe la cortesia di chiamarmi, e nella nostra conversazione mi resi conto che il CCEE era nel suo anno giubilare. Era tempo che lavoravo sui temi della Chiesa in Europa, e ancora più tempo che volevo scrivere un libro o qualcosa di più strutturato sulla Chiesa europea. L’anniversario del CCEE era per me l’occasione giusta, il punto di partenza necessario per un lavoro che non volevo essere storico. Volevo avesse una finestra verso il futuro.
Oggi non voglio parlarvi del libro che ho scritto. Mi limiterò a dirvi che non è un libro storico, ma è un libro giornalistico. È fatto con la necessaria sintesi. I tempi editoriali non mi hanno permesso di inserire tutti i contributi ricevuti, né hanno permesso a voi di inviarmi i contributi per tempo. Ho approntato un sito internet, dove dalla fine di questa plenaria comincerò ad inserire i vostri contributi integralmente. Questo perché un libro deve essere vivo, deve continuare a crescere, e questo è un assioma valido soprattutto per un libro giornalistico.
Più che del libro – che spero leggerete e del quale spero discuteremo, a più riprese, in un percorso di dialogo costante – vorrei però lasciarvi alcune impressioni e alcune idee che mi sono venute scrivendo questo libro. Si tratta dell’umile contributo di un giornalista, che però ha avuto modo di conoscervi, seguirvi e condividere alcune sfide e timori per il futuro della Chiesa. Ed è di questo che voglio parlarvi oggi.
Il libro si chiama Cristo speranza dell’Europa perché Giovanni Paolo II aveva usato queste esatte parole nell’esortazione post-sinodale ecclesia in Europa. Non avrei mai pensato che un titolo del genere potesse essere accettato dalla casa editrice, ed avevo altre proposte, più “secolari” nei termini, più didascaliche. Ma era questo il mio titolo prediletto, dall’inizio. Seguo il CCEE dal 2015, ho partecipato a varie plenarie. Mi ha colpito, in tutte queste assisi, la necessità costante, continua e crescente di centrare tutto su Cristo. Voi siete stati per me una sorta di sentinella dell’evangelizzazione. In un mondo caratterizzato da sfide secolari e sociali, di cui anche io mi riempivo la bocca, mi avete mostrato che il problema non sta in quello che facciamo, ma nel perché lo facciamo. Nel corso degli anni ho imparato a comprendere le sfide dell’ “ordine mondiale senza Dio”, il dramma della marginalizzazione della fede, e compreso anche i vostri sforzi per poter avere un peso cristiano, oltre che evangelico, nella società. Vi sono grato di avermi dato questa prospettiva, che ho voluto riportare poi in questo libro.
Che Cristo sia speranza dell’Europa sta però a noi dimostrarlo con i nostri gesti quotidiani, giorno dopo giorno. Da quando ho cominciato a frequentare le istituzioni europee, ho conosciuto persone straordinarie, cattolici che in situazioni di grande difficoltà, da soli, raccoglievano le grandi sfide e le portavano al dibattito. Sono per me come l’esercito di Gedeone contro i Madianiti, reso ancora più esiguo dal Signore perché si sapesse che la vittoria veniva da Dio, e non dal numero degli uomini impiegati (Giudici 1 – 23). Sono soli. Spesso non ascoltati, nemmeno dalle istituzioni ecclesiastiche. Sono un esercito di numero esiguo, silenzioso e costante, che resta nascosto. Dovrebbero essere ascoltati e supportati quando vanno in prima linea. Hanno bisogno dei loro vescovi, della loro Chiesa, ma anche dei media della loro Chiesa, della voce della loro Chiesa. Non sempre lo riescono ad avere, e certamente non sono supportati da una vera rete. Il fatto è che parlare di rete ci fa automaticamente parlare di lobby, e sembra quasi di cattivo gusto farlo. La verità è, però, che una vera rete nasce prima di tutto dalla formazione culturale. È forse il tempo di un Progetto Culturale Europeo.
La necessità di un rinnovamento prima di tutto culturale nasce da una considerazione: i grandi padri del CCEE erano profeti. Rileggendo le carte, ho visto che negli Anni Settanta si anticipavano sfide che sarebbero diventate realmente attuali solo negli Anni Novanta. Temi come le migrazioni, il dialogo con l’Islam, l’ecumenismo, ma anche il grande tema della libertà religiosa, venivano affrontati, discussi, anticipati. Scorrete i nomi di quei grandi profeti. Erano tutti studiosi. Erano tutti scrittori di libri, esperti, filosofi e teologi, persone che si facevano domande di senso e le cercavano poi di portare nella vita e nella loro missione. Negli anni, sembra essere prevalso sempre più un senso pragmatico che ha portato le cose urgenti a venire prima delle cose importanti. Il mondo è cambiato, è più veloce anche nello scambio delle informazioni, e ci sembra di essere sempre un passo indietro. Si deve ritrovare la spinta e l’energia di fare un passo avanti, di guardare oltre gli ostacoli. Non significa smettere di occuparsi del povero, dell’orfano, della vedova, come chiede la Bibbia. Non significa mettere la carità, l’amore per il prossimo, il dialogo, da parte. Significa includere tutto questo in un grande progetto di rinnovamento culturale, che parta dai vescovi e si dirami in tutti i territori, nel piccolo e nel grande. Tutti devono essere centro di questo progetto, perché la Chiesa non ha periferie: laddove c’è l’Eucarestia, c’è sempre il centro.
Un Progetto Culturale Europeo significa ripensare anche il modo di essere presenti nella società. L’Europa non ha perso la religiosità, ha marginalizzato la religione. Ma fin quando la religione non avrà un senso razionale, sarà sempre messa ai margini. E il senso razionale non viene dalle sfide del mondo. Come dice Papa Francesco, la Chiesa non può essere ridotta ad una Ong. Il senso razionale viene da una mentalità nuova, che è tutta da formare. Paolo VI diceva che “Il mondo soffre per la mancanza di pensiero” (Populorum progressio). Si tratta, allora, di smettere di far soffrire il mondo. È questa la grande missione.
Per farlo, però, dobbiamo prima di tutto smettere di soffrire inutilmente noi. Da tempo, la Chiesa non conosce se stessa. Non guarda al suo passato con lucidità, quasi vergognandosi che un tempo questo si sarebbe definito un passato glorioso. Presi dalla dittatura dell’opinione pubblicata – quella pubblicata sui media – si tende a scusarsi per ogni cosa, rischiando di mettere da parte lavori importanti pur di non sentirsi in colpa per gli errori commessi. Se la Chiesa è madre, allora comportarsi da madre anche con se stessa. Deve saper contestualizzare gli errori commessi e sottolineare ciò che di buono c’è stato. Perché c’è il buono, e lo dice la storia. Ma la storia va scritta, raccontata, discussa e soprattutto va evidenziata allorquando quello che viene pubblicato non corrisponde al vero, o è falsato solo per attaccare la Chiesa. La presa di coscienza non riguarda solo i nostri errori, ma anche le nostre profezie. Di fronte ai moti risorgimentali, Leone XIII disse che la storia sembrava essere diventata “un complotto contro la verità”. Ancora, ognuno di noi in questa sala è chiamato a sventare questo complotto. E lo deve fare rileggendo i documenti, facendoli rileggere, e imparando a guardare la storia con un “anticipo di simpatia”, necessario, in fondo, perché ogni testo si faccia leggere. Dobbiamo riprendere in mano la consapevolezza di chi siamo. Senza gloriarcene – non sono più quei tempi, ammesso che lo siano mai stati – ma senza metterlo da parte. Non si parte da zero. Si parte da lì.
Io vedo grandi possibilità, a partire da questa storia che ho provato a raccontare. Sento forti le radici cristiane dell’Europa nella rete delle cattedrali, presenti ovunque e volute dalla gente. Sento forti le radici dell’Europa quando alzo lo sguardo qui e vedo tutti voi, una Europa geograficamente unita sin dai tempi in cui era politicamente divisa, e addirittura fin da quando la Cortina di Ferro sembrava essere lì a far perdere ogni speranza. La Chiesa è rimasta. La Chiesa c’è. Noi ci siamo.
Sono queste le riflessioni che mi viene da fare, pensando a ciò che ho scritto, ma guardando al futuro, come mi sembra necessario fare oggi. Ho concluso il libro dicendo che per la Chiesa è il tempo dell’ascolto, e questo cammino sinodale in cui ci coinvolge Papa Francesco è, di fatto, una grande opportunità. Si tratta, ora, di rendere la Chiesa ciò che è, al di là degli slogan. Di radicarla in quello che siamo. Sono contento che oggi, a fianco a me, ci sia Vincenzo Bassi, Presidente della FAFCE. È uno di quell’esercito silenzioso di cui parlavo. Un anno fa, quando nessuno parlava del rapporto Matic che stabiliva l’aborto come un diritto umano, la FAFCE ne parlava. Ma non c’era quasi nessuno in grado di raccogliere e dare voce all’appello. E quel rapporto è stato poi approvato, tra proteste tardive e rimpianti ormai troppo consueti.
Per questo, serve un Progetto Culturale Europeo, che sia poi diffuso in modi diversi, attraverso nuovi media, fuori dai normali canali. Vino nuovo in otri nuovi. La Chiesa in Europa sta giocando una partita in un tavolo con le regole truccate a favore del più grande e forte. Può accettare di perdere, o può creare un altro tavolo. Con questo libro, in qualche modo, volevo offrire un punto di partenza per una riflessione più ampia su questi temi. Spero di esserci riuscito.
La missione del continente europeo si fonda sul Vangelo
di Cardinale Angelo Bagnasco
Presidente emerito del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa
Presentazione del libro Cristo Speranza dell’Europa
Chiesa dei Santi Cosma e Damiano
Genova, 11 marzo 2022
L’Europa ha bisogno di Europa. Soprattutto oggi. Deve ritrovare se stessa. Deve volersi più bene. Parlo del continente europeo, come diceva San Giovanni Paolo II, dall’Atlantico agli Urali. Deve tornare a pensare in grande. Se si guarda, infatti, come a volte succede anche oggi, solo al particolare, si perde la visione d’insieme. Anziché vedere la foresta che cresce si vede l’albero che sta davanti. E questa è una visione estremamente miope, che non aiuta a guardare lontano e non aiuta a camminare insieme.
Che cosa significa per l’Europa pensare in grande? Non significa solo parlare di globalizzazione, che è un fenomeno evidente, di ordine mondiale… se ne potrebbe parlare in lungo e in largo… si tratta di pensare a quali valori culturali e ideali (scegliere) e in quale modo raggiungerli. Ma io direi: prima ancora che raggiungerli, da cui partire per poter dentro a quel solco ideale, valoriale, dentro quella visione poter camminare insieme per arrivare a quel sogno che i veri padri dell’Unione Europea – Schumann, Adenauer, il nostro De Gasperi – avevano in mente: l’obiettivo di una unità nella diversità.
Ci chiediamo quale è la visione che è necessario avere perché l’Europa riscopra se stessa come continente o, come i padri pensavano, come comunità di popoli, comunità di nazioni, famiglia. E diremo una parola sul modo per camminare in una visione unitaria senza la quale non c’è fondamento, e un edificio senza fondamento non sta in piedi.
Certamente la visione ideale e culturale su cui ogni cammino unitario può procedere e che può essere garanzia e criterio del camminare insieme nelle diversità non può assolutamente prescindere dalla dimensione religiosa, perché qualunque altro valore, qualunque altro ideale, prescindendo dalla dimensione religiosa, risulta senza fondamento, fragile, debole, soggetta alle intemperie dei tempi, delle ideologie ricorrenti, delle mode. E allora la dimensione religiosa diventa fondativa – cercherò di spiegare e di dire perché – di una visione di insieme che è assolutamente necessaria per poter camminare insieme.
La visione e la dimensione religiosa non è assolutamente una dimensione vagamente spirituale. Oggi giustamente si parla di risveglio della spiritualità, di bisogno della spiritualità, e a livello europeo avendo dovuto, e continuando a riconoscere le diverse nazioni e i diversi popoli, ovunque sento che c’è questo risveglio e bisogno dello Spirito. Ma è ambigua questa affermazione.
È vera e ambigua allo stesso tempo, perché un bisogno di spiritualità non significa un bisogno di fede, tanto meno di fede cristiana. E un bisogno di spiritualità può trovare degli sbocchi che sono i più diversi, e che possono anche essere più ingannevoli. Agire cioè solo sul piano psichico, psicologico, emotivo, alla ricerca di un benessere interiore che non coincide automaticamente con la fede in Dio, e nel Dio di Gesù Cristo, ma con dei meccanismi, dei metodi, delle modalità, che sono altra cosa nella loro legittimità.
Dicevo quindi che la visione di fondo è essenziale, come una pietra miliare che non può essere sostituita da nessun altra pietra.
Non può essere sostituita la dimensione religiosa – e tornerò poi a spiegarmi meglio – né da un interesse economico, dalla moneta unica. (Con questo) mi sto spostando verso l’Unione Europea, ma tenendo sempre conto, e questo libro ce ne dà assolutamente testimonianza.
Ringraziamo l’autore per questa opera quanto mai utile, necessaria specialmente in questo difficile momento storico, perché ci riconduce ad una visione di insieme e ci riconduce ad una visione di fondo senza la quale tutti gli interessi legittimi, il mercato comune, la circolazione dei popoli e poi anche la moneta unica e poi la difesa, la sicurezza, e via discorrendo, certi organismi comunitari da cui non si può prescindere, sono delle espressioni soltanto di quello che è un fondamento.
Ma io mi chiedo se questo fondamento sia chiaro e distinto, tanto da reggere a tutte le contraddizioni, storiche, ideali, ma anche economiche, sociali che fanno il compositum di questo splendido continente che è l’Europa, e che ha bisogno di ritrovarsi come dicevo in partenza.
Infatti in ogni singola persona che abita il continente dovrebbero convivere, speriamo e vogliamo che convivano, possiamo dire due identità, che devono essere sempre meno contrapposte e sempre più sintetiche: la coscienza di essere una comunità di popoli e la coscienza di essere civis europaeus.
Se guardiamo al mondo, questa duplice composizione dell’unico soggetto che ha ciascuno di noi che vive il continente, in qualche modo non ha confronti nel mondo fino ad oggi.
Se pensiamo agli Stati Uniti d’America, possiamo pensare a questa duplice appartenenza. Questa, però, non è identica a quella del continente europeo. A esempio, come sappiamo, la storia dell’unità americana è una storia molto più omologata, molto più simile al proprio interno, non ha la complessità, le dimensioni, le tradizioni tipiche del nostro continente.
Potremmo dire che è più facile essere cittadino americano, civis americanus, e comunità americana che non cittadino europeo e comunità europea – ci sono delle differenze, delle difficoltà ma anche grandi bellezze, che derivano dalla pluralità di tradizioni e di culture.
Queste pluralità – è un passaggio a mio parere molto importante – debbono essere riconosciute e rispettate da tutte le parti. Noi comprendiamo che per riconoscere e rispettare le diversità e le pluralità all’interno di un continente come l’Europa è necessaria una visione di insieme di partenza, altrimenti subentra il criterio non di una visione unitaria (devo ancora dire qual è), ma subentrano di volta in volta altri interessi – economico, politico, finanziario, nazionalista o che cosa.
Ma tutti questi valori, compresa la nazione, non il nazionalismo, i popoli, non i populismi, tutti questi valori hanno valore se non sono isolati gli uni dagli altri, ma sono all’interno di una visione unitaria e condivisa. Su questi valori tornerò dopo.
Per quanto riguarda la modalità per camminare insieme, dobbiamo fare una considerazione di questo tipo: non bisogna omologare. Non bisogna asfaltare, non bisogna livellare le culture. Questo è un punto, lo comprendiamo, metodologico, che nasce dalla visione unitaria, se c’è, dalla visione ideale, se c’è, di partenza.
Allora per camminare insieme, un primo punto, un primo criterio e un primo obiettivo importante è non la omologazione, che a me sembra nel mondo piuttosto in atto (cioè imporre criteri, categorie univoche, esclusive, nella illusione gravissima e pericolosa che creando un modo di pensare unico, un pensiero unico, necessariamente livellato al basso, si possa creare una costruzione positiva).
In realtà, da quello che a me pare accada – sia in Europa ma anche in altre parti del mondo, compresa Asia, Africa, Oceania – (è che) non si crea una unità di sentimenti, di visione, una appartenenza di destino, un entusiasmo fino al senso del sacrificio della causa del camminare insieme. Si crea un risentimento.
Quando un popolo, un individuo, un gruppo, una nazione, un continente non si sente rispettato, sopraffatto, ma in modo palese, quasi ricattatorio, e non attraverso altre vie che sono di dialogo, di rispetto, di volontà di comprensione e di riconoscimento dell’altro e degli altri; quando questo non avviene nasce un risentimento sordo che si accumula nel tempo e che può portare frutti devastanti.
Allora la via della omologazione, che può apparire più semplice, facile, efficace, produttiva, breve, non è la via per camminare nella diversificazione – i padri, unità nelle differenze, hanno sognato e hanno voluto.
Quale è l’altra via? È quella dell’argomentazione. È quella del ragionare. Il ragionare sulle modalità, sui criteri, sui valori, sugli ideali, è questo il ragionare insieme, l’argomentare pazientemente insieme, il dare a ciascuno il tempo di ricevere e di dare. Combattendo ognuno dentro di sé, ogni cultura per se stessa, la tentazione della superiorità e quindi dell’arroganza.
Io spero che quanto prima, passati, speriamo risolti nel modo migliore, prestissimo, oggi, e per questo preghiamo, il momento terribile che stiamo vivendo, che tanti stanno vivendo e noi guardiamo e cerchiamo di corrispondere nel modo migliore, il mondo intero, non l’Europa soltanto, il mondo intero faccia un serio, onesto, intelligente esame di coscienza, perché a certi momenti ci si arriva, non si improvvisa, non accadono. Ci si arriva.
Allora bisogna non arrivare a certi momenti, ed essere lungimiranti sul presente, sui singoli passi, perché certi eventi tragici non debbono e non possono accadere. Se questo esame di coscienza. Se questa presa di consapevolezza intelligente e onesta non avverrà, tante tragedie nel mondo del secolo scorso e di questa prima parte del nuovo secolo saranno servite a niente.
In questo contesto (si inserisce) la visione necessaria di partenza, l’ideale di ordine spirituale ed etico. Si parla volentieri e facilmente di spiritualità, ma poco di etica, perché sembra che l’etica sia contraria alla libertà di ciascuno. Al contrario, è la scuola della libertà.
All’interno del metodo, che non è quello di omologare e di appiattire, di livellare – coscienze collettive, come le coscienze individuali, le culture, le tradizioni e via discorrendo – il titolo del libro di Andrea Gagliarducci è particolarmente felice. Non è solo suggestivo “Cristo Speranza dell’Europa”, ma è sostanziale. E cercherò adesso di entrare meglio.
Cristo Speranza dell’Europa. Per annunziare Cristo Speranza dell’Europa è necessaria, come ben sappiamo, la fede dei cristiani. Per annunciare la fede, bisogna crederci, perché la fede non è una ideologia, non è un sistema valoriale, è l’incontro con il Signore Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, il redentore del mondo e l’unico salvatore del mondo. Questa è la nostra fede. D’altra parte, se Dio non ci insegnasse a come vivere, non ci interesserebbe granché. Il Figlio di Dio ci ha dato una prospettiva, incontrandoci, di amore, di comunione, di salvezza e di redenzione, e ci ha parlato della vita eterna, della vita presente che è proemio, che è pellegrinaggio verso la vita eterna che è risultato della grazia di Dio che è nostra responsabilità, nostra libertà.
Ma se non mi avesse detto anche come camminare verso, ecco la dimensione etica, a che mi servirebbe? A che pro?
E allora è giusto parlare di vita spirituale, ed è giusto e necessario parlare di fede, basta che non ci siano esclusioni sul piano comportamentale.
Questo lo sottolineo per il fatto che tutti lo sappiamo e lo vediamo: toccare il tema della libertà è un nervo scoperto oggi nella cultura nostra, perché si intende, come dicevo poc’anzi, si intende una offesa di lesa maestà. Anziché come una grazia di Dio – io sono la vita, io sono la verità, io sono la Via e questo vuol dire che questa è la Via, non ce n’è un’altra –.
E allora dicevo che per annunciare Cristo nostra speranza è necessario anzitutto crederci, avere una fede, ma non solo credere in Dio, è necessario vivere di Dio, perché è possibile professare la fede ma non vivere la fede – ecco ancora una volta la stretta unità tra la fede e la vita, tra la fede e l’etica, tra l’incontro con Cristo che mi attrae – il kerigma cosiddetto – e le conseguenze del pensiero di Cristo che devo far mie non come dovere, ma come grazia.
Ma è necessaria anche, insieme alla fede professata, alla fede creduta, è necessaria la nostra testimonianza. Io penso che se tanto secolarismo si è infiltrato nella nostra cultura e nel nostro continente che ha radici di materia cristiana ma non solo, in parte è dovuto ai venti della cultura, del pensiero moderno, con uno sbilanciamento, come ha scritto Papa Francesco nella Laudato Si, il quale parlando nell’ecologia integrale, notava che forse nella modernità c’è stato un eccesso di antropocentrismo. (L’espressione di Papa Francesco) è una espressione molto forte nella quale bisognerebbe entrare, ma basta ricordare che l’eccesso di antropocentrismo significa aver messo al posto di Dio, l’io, il soggetto.
In una visione sempre più solipsistica, sempre più isolazionistica dell’individuo, che è diventato centro di se stesso e questo può accadere nell’io dei popoli e delle nazioni. La nostra Costituzione traduce in termini giuridici la visione personalistica tipicamente cristiana dell’umanesimo cristiano che vede in ogni individuo una persona, e non solamente un individuo, una persona è persona in tano e quanto è costitutivamente e ontologicamente relazione e vive nella relazione – nella relazione con gli altri, ma senza la grande relazione trascendente, anche le nostre relazioni sono fragili e poco fondate.
Procedendo ancora per un attimo: tutti noi sappiamo che l’Europa, il nostro splendido continente, non è solamente un territorio, ma è un’anima. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Non dobbiamo lasciarci rubare l’anima europea. E quindi dobbiamo conoscerla e riconoscerla quest’anima europea che è la nostra, dall’Atlantico agli Urali.
Il CCEE, di cui qui si parla nei suoi primi cinquanta anni di vita (di cui ho avuto l’onore di essere presidente per un quinquennio e prima vicepresidente per un altro quinquennio, esperienza grande di cui sono grato ai miei confratelli) – ebbene i vescovi europei nel loro organismo di consiglio delle Conferenze Episcopali che raccoglie tutti i presidenti di consiglio hanno come compito l’annuncio di Cristo – parlo di statuti – hanno come scopo la conoscenza vicendevole della Chiesa Cattolica, dei diversi Paesi, quindi un continuo flusso, una continua circolazione delle varie realtà dei singoli Paesi ecclesiali e sociali culturali, e dall’altra parte l’analisi comune, il mettere a fuoco insieme i problemi più rilevanti che attraversano tutto il continente.
Per fare un confronto, nella diversità dei vari Paesi e individuare piste religiose, per arrivare alla sostanza di annunciare Cristo, di annunciare Gesù che è la vera speranza. Nelle varie pagine del testo questo emerge con molta forza.
L’Europa, che è un territorio, ma è soprattutto un’anima, mi è caro citare Platone nel suo testo “La Repubblica”, quando parlando delle polis, città Stato e un particolare Atene, si chiede come è stata possibile la costruzione di Atene come splendida città nel suo splendore nella sua civiltà tutt’altro che perfetta ma certamente grande emblematica e Platone si risponde dicendo che la base della gloria della bellezza delle città Stato vi era la cura dell’anima.
Cosa intendeva Platone per cura dell’anima? Intendeva la ricerca della verità, che oggi non è assolutamente scontata, perché viviamo e respiriamo in un clima di opinioni. Il soggettivismo e il relativismo tipico del secolarismo, che nega, che sfiducia la ragione come facoltà del vero, conduce al relativismo e al dominio e alla prevalenza delle opinioni. Ognuno ha la sua opinione e vale la sua in mezzo a tante altre e ogni opinione è sostanzialmente equivalente.
A fronte di questa autodistruzione antropologica, e ci avviciniamo sempre di più allo specifico della vocazione e della realtà e della missione europea, alla base vi è il valore della ragione e della fede, il rapporto tra fede e ragione che a volte viene contestato è invece ampiamente affermato e vissuto, praticato nella Chiesa cattolica, dalla fede cattolica.
Il rapporto tra fede e ragione, un rapporto virtuoso. Laddove la ragione è debole come oggi sul piano non scientifico, strumentale, positivista, ma sul piano positivo, metafisico, contemplativo, laddove la ragione è debole perché screditata ed è ridotta soltanto al piano scientifico e tecnico, la fede non è più forte, la fede anch’essa ne risente.
Anche di questo dobbiamo essere molto consapevoli, anche perché di solito in certi ambienti si ritiene che tra fede e ragione vi sia una certa incompatibilità. Al contrario, nella storia della dottrina, nella tradizione della Chiesa cattolica non vi è incompatibilità, ma vi è una reciproca ricerca. La fede cerca la ragione, la ragione cerca la fede. Ma su questo una citazione conclusiva sarà forse più chiara.
La ricerca della verità, con fiducia. Ma quale verità intende Platone? La cura dell’anima vuol dire ricerca della verità. Quale verità?
Anche qui Platone si risponde e parla delle grandi verità che stanno oltre le cose quotidiane, che riguardano l’esistenza, non le cose immediate, che sono parte della nostra esistenza, ma che stanno oltre le cose quotidiane e immediate. Quelle verità che danno unità e senso e spessore ad ogni azione personale e collettiva.
Qui entriamo nella questione più delicata ma anche più decisiva della nostra vita, ma della vita di un popolo, di un continente, della nostra vita, della vita umana. La nostra vita è fatta di cose immediate – il cibo, la casa, la salute, il vestire e via discorrendo – ma non solo di queste. Tant’è vero che chi ha abbondanza di queste cose, pur necessarie, non necessariamente è felice, perché non di solo pane vive l’uomo, ci ha detto il Signore.
Ed è dentro questa logica: le cose quotidiane che ci sono necessarie, che cerchiamo giustamente, ma che non sono il senso, che non danno lo spessore, il significato profondo, il perché ultimo del nostro vivere e del nostro morire. Queste verità. Ecco la cura dell’anima. E ci chiediamo se il nostro continente continui questa cura dell’anima o la stia perdendo, inseguendo le cose quotidiane, soltanto quelle, e volendo omologare, magari tacitare, le cose oltre l’immediatezza e la materialità della nostra vita.
L’anima dell’Europa affonda le sue radici nel cristianesimo, dicevo prima, e adesso vorrei entrare un po’ meglio in questo come conclusione. Noi sappiamo tutta la tensione, la dialettica, il dibattito circa le radici cristiane dell’Unione Europea, possiamo dire del continente, e dobbiamo dire del continente. Era una questione nominalista? Era una questione confessionale? No, né l’uno né l’altro.
Era un dato storico, è un dato storico, perché il cristianesimo per la divina provvidenza è approdato nel continente europeo e ha innervato attraverso le circostanze storiche dalla caduta dell’Impero Romano a San Benedetto, alla diffusione del monachesimo in tutta Europa, alla diffusione della liturgia, della cultura, delle verità della fede, dei valori morali, della liturgia, eccetera, ha creato un tessuto dentro alle culture più diverse di allora, ha creato un tessuto unitario, dei vincoli che hanno reso i popoli più diverse che si riconoscevano tutto sommato, che avevano delle basi comuni. Ecco le radici.
Novalis, nel 1700, scrive: Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo, allora essa cesserebbe di essere. Nessuno nega che il cristianesimo è stata la radice fondamentale e che altri contributi religiosi e culturali hanno arricchito, si sono congiunti per costruire questo continente, ma è altrettanto vero, e la storia ancora conosciuta ci ricorda e ci testimonia, che il cristianesimo è stato come l’alveo di un grande fiume, con molti, diversi affluenti, che hanno trovato dentro questo alveo del Vangelo la sintesi, l’armonia per arrivare al continente europeo.
Allora a questo punto ci chiediamo seguendo l’affermazione di Novalis, ripresa poi molto più recentemente da Eliot – ma sappiamo che potrebbe apparire di parte essendo un cattolico: come possiamo argomentare questa identità, questa radice profonda, ineliminabile? (Una radice che) se si vuole tagliare, come sembra che sia tagliata, veramente (porta) una decadenza di identità, di storia, di appartenenza, di valore che non fa andare avanti il cammino unitario, ma che lo frena – speriamo non lo fermi mai.
Tra le diverse testimonianze, ne porto due.
La prima è di Karl Loewith. Nel suo testo “Da Hegel a Nietszche” – lui è un ebreo, non crede al cristianesimo, non so se nel buon Dio – scrive alcune pagine affermando questo – lo riassumo – “Il fatto che ogni uomo che viene alla luce abbia una dignità incomparabile non deriva dal Rinascimento, né dall’Illuminismo, cosa che a volte si afferma, ma dal cristianesimo”. E aggiunge: “perché solamente grazie all’Uomo Gesù, ogni altro uomo può essere riconosciuto con un volto unico irripetibile e inviolabile. E conclude queste pagine dicendo: con l’affievolirsi del cristianesimo è diventata problematica anche l’umanità. Si affievolisce il cristianesimo ed emerge il problema dell’uomo, la sua dignità, la sua inviolabilità, la sua bellezza sembra diminuire diminuendo la fede cristiana, perché si perde quello che è il fondamento della dignità di ogni uomo che appunto Loewith vede in Gesù.
Allora è questa la missione del continente europeo, perché il continente europeo ha una missione. Non è il vecchio eurocentrismo, chiaramente, che non esiste più. Ma ogni continente nel mondo ha delle specificità, ha dei doni suoi propri da regalare, da offrire al resto dei continenti, e la missione del continente europeo sta proprio nel suo umanesimo personalistico, che si fonda nel Vangelo, perché fa dell’uomo l’immagine e la somiglianza di Dio: quale più alta dignità, quale più alto valore possiamo pensare di attribuire ad una persona in nome dell’immagine e somiglianza di Dio?
Tanto che Rosmini definisce la persona come “diritto sussistente” – anche questa è una espressione grandiosa se ci pensiamo un attimo, perché ogni persona precede la legge, precede il diritto positivo, cosa che oggi invece viene invertita facilmente, il giuspositivismo ha sostituito il giusnaturalismo che affonda le sue radici nell’essere umano.
Ultima citazione, che recito a senso, è di Norberto Bobbio, che in una conferenza del 1970 a Cattolica ha delle espressioni che mi hanno colpito quando la prima volta le ho lette, perché parla della religione, parla del cristianesimo e parla della Chiesa e dice: “Nonostante tutte le dichiarazioni della morte di Dio, espressioni tipiche degli anni post-Sessantotto, o nonostante tutte le demitizzazioni che sono state affermate, dichiarate, volute, proclamate, dichiarate, nonostante tutto questo, l’uomo resta e resterà un essere religioso”. Lui diceva di non essere credente, poi il buon Dio vede il cuore di ciascuno. E poi spiega: “È inutile dire che la Chiesa non deve esserci, che la religione non deve esserci, perché c’è”. Interessante il metodo: inutile negare una cosa che c’è, bisogna prenderla in considerazione. C’è. E perché c’è?, si chiede. E si risponde così: “Perché la scienza e la filosofia pongono le domande, il cristianesimo dà le risposte ed è per questo che ci sarà sempre”. Grazie.
I testi sono stati pubblicati dall’autore sul suo sito CristoSperanzaEuropa.it [QUI].