Riflessioni sparse nell’era dei bambini onnipotenti al potere. Per capire (spiegare non è giustificare) cosa sta succedendo realmente in Ucraina – Parte 4

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Prosegue da Parte 3: QUI.

Di seguito condividiamo tre articoli a firma del caro amico e collega Renato Farina, pubblicati su Libero Quotidiano:

  • La memoria dell’odio, 2 marzo 2022: L’uomo serva la pace con le armi in pugno. I popoli non sono angeli e l’esperienza insegna che il rancore in genere vince sul desiderio di concordia. Ogni conflitto lascia ferite insanabili. Con il Papa oggi digiuniamo e preghiamo per la tregua.
  • La vera guerra oggi è quella freddissima, 2 marzo 2022: Gli interessi in gioco. Scontro per l’Artico. Con lo scioglimento dei ghiacci gli incrociatori russi potranno raggiungere il nord per sfruttarne le enorme risorse e stabilire, con la Cina, una nuova vita della seta.
  • La nuova follia, 28 febbraio 2022: Quei missili puntati sulle nostre città. Lo Zar ci minaccia con le sue atomiche. Dopo 30 anni torna l’incubo della Bomba nucleare. Putin fa attivare i suoi ordigni nucleari. Prima di lui anche Joe Biden aveva evocato lo spettro del conflitto finale. Il Papa prega: sì, ci vuole un miracolo.

2 marzo, Mercoledì delle ceneri, Giornata di digiuno per la pace
Appello di Papa Francesco al termine dell’Udienza Generale del 23 febbraio 2022

Ho un grande dolore nel cuore per il peggioramento della situazione nell’Ucraina. Nonostante gli sforzi diplomatici delle ultime settimane si stanno aprendo scenari sempre più allarmanti. Come me tanta gente, in tutto il mondo, sta provando angoscia e preoccupazione. Ancora una volta la pace di tutti è minacciata da interessi di parte. Vorrei appellarmi a quanti hanno responsabilità politiche, perché facciano un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è Dio della pace e non della guerra; che è Padre di tutti, non solo di qualcuno, che ci vuole fratelli e non nemici. Prego tutte le parti coinvolte perché si astengano da ogni azione che provochi ancora più sofferenza alle popolazioni, destabilizzando la convivenza tra le nazioni e screditando il diritto internazionale.

E ora vorrei appellarmi a tutti, credenti e non credenti. Gesù ci ha insegnato che all’insensatezza diabolica della violenza si risponde con le armi di Dio, con la preghiera e il digiuno. Invito tutti a fare del prossimo 2 marzo, mercoledì delle ceneri, una Giornata di digiuno per la pace. Incoraggio in modo speciale i credenti perché in quel giorno si dedichino intensamente alla preghiera e al digiuno. La Regina della pace preservi il mondo dalla follia della guerra.

«Nessun digiuno sarà sufficiente, se non ci porterà ad avere fame di te, o Signore!» (Michelangelo Nasca).

Corpi senza vita di civili ucraini riversi sulla strada, su cui qualcuno ha posato una coperta. Sono immagini eloquenti del conflitto in atto (Foto LaPresse).

La memoria dell’odio
di Renato Farina
Libero Quotidiano, 2 marzo 2022


Questo articolo serve a dire una cosa antipatica. I popoli vogliono di sicuro la pace, specie in casa loro, ma non sono stuoli di angioletti, La guerra infatti ha due fonti: la sete di potere di chi comanda e vuole la sua statua a cavallo, e qui non ci piove; ma questa voluttà guerresca fa leva sulla memoria d’odio che ristagna nei popoli.

Questo non significa che non si debba perseguire la pace universale, come voleva Kant. Ma essa ha per nemici sì i fabbricanti di armi e i capi politici che le comprano e le usano per gonfiarsi, ma c’è qualcosa di velenoso nel cuore degli uomini e delle nazioni che non se ne va. Ed è questo l’humus della guerra, il suo terreno fertile. Un giorno è venuto Cristo a dire: “Pace!”. Ma non pare sia stato ascoltato neppure dai cristiani, eppure i Papi e qualche santo insistono. Ma non è ancora questa l’ora giusta, a quanto pare.

Ricordate? Abbiamo sostenuto, incantati da qualche ideologo di Harvard, che i grandi conflitti fossero finiti con il crollo delle ideologie novecentesche e delle loro utopie malvage della classe e della razza che ne fomentavano lo schifo. Balle. Gli uomini non sono angeli, in loro lottano il rancore del ricordo e il desiderio della concordia. Di solito vince quello che ho nominato per primo.

Questo vale, e proverò a raccontarlo sulla base della mia esperienza, nel conflitto tra Russia e Ucraina. Noi mettiamo uno contro l’altro Putin e Zelensky, (oltre alla Nato ecc) e non a torto. Ma c’è qualcosa di più profondo. Questi popoli fratelli, che hanno un’origine comune nella Rus’ di Kiev, nel cristianesimo ortodosso, che vuol dire pace e unità, hanno poi accumulato ragioni tremende di conflitto. Ed esse agitano le anime.

Provate a parlare con le badanti ucraine che aiutano le nostre mamme e nonne. Se sono dell’Ucraina occidentale odiano i russi, hanno figli che militano nelle formazioni che danno guerriglia in Donbass ai secessionisti, vorrebbero spellare vivo Putin; se vengono (più raramente) dall’Est o da Odessa la scena è inversa.

Mi fermo un istante per spiegarmi.

Trattative e genocidio

Le trattative diplomatiche – benedette! – servono oggi a fermare la guerra. A far tacere i cannoni. Non di più. Ed è tantissimo. Non scandalizziamoci se i russi nella trattativa, proprio quando ospitano i loro nemici ucraini sul confine bielorusso, appoggiano la pistola sul tavolo, e invece di attenuare l’offensiva tirano colpi micidiali. È orribile, ma sta nei manuali: si strappano condizioni migliori. Okei. Va bene. Purché si fermino presto le armi. E il popolo minuto non crepi più, e i carri armati rientrino nelle basi, e i missili nei loro foderi, mentre la gente comune torni alle sue occupazioni per guadagnarsi il pane che è già abbastanza amaro di suo. E per questo pregano e digiunano in tanti oggi ascoltando il Papa. La tregua, il cessate il fuoco. Accontentiamoci di questo, almeno che i bambini non righino più le loro facce sporche con le lacrime. Sarebbe già un miracolo.

(Di certo – è il mio parere personale – imbottire di armi letali, come ha deciso l’Italia pressoché all’unanimità la resistenza ucraina, quella militare e quella civile, a cui guardiamo con pelosa ammirazione non salverà nessuno. È come se procurassimo un Vietnam alla Russia, giocando con la pelle dei bambini degli altri).

Di due episodi sono testimone della frattura tra Russi e Ucraini e del sogno completamente assurdo di Putin di farne un popolo solo.

1. Aprile 2010. Sono deputato del Consiglio d’Europa a Strasburgo. Ci sono 47 Stati, la Russia e l’Ucraina tra questi. C’è una risoluzione in aula che rammemora la carestia che nel 1932-33 fece milioni di morti in Ucraina. Holodomor è il suo nome unico, come quello di Shoa. Non fu una carestia “normale”, ma un atto terroristico. Genocidio per fame. Stalin decise la collettivizzazione e fece scoppiare le pance dei kulaki. Intervenni sulla mozione. Diceva, su pressione dei russi che se ne sentono responsabili dopo 80 anni, che i kulakì erano i contadini ricchi, che si rifiutavano di dividere i loro beni. Mi opposi. Feci togliere quella paroletta “contadini ricchi”. Votarono a favore, a malincuore anche i russi. Ricordai che da lontano i testimoni ricordano il grido delle madri costrette al cannibalismo sui loro piccini morti di fame. Proposi il termine “carestia terroristica”. Non passò, i russi si opposero duramente, e la sinistra europea abbozzò. Poco dopo vennero da me i delegati ucraini, deputati macilenti, mi si inginocchiarono davanti per le mie parole. Restai di sasso. La memoria dura. Qualche volta ha un volto sereno, e somiglia al perdono; più spesso no. Lo sappiamo bene – in misura assai più morbida – anche da noi. Il ricordo delle ferite della guerra civile 43-45, delle foibe, delle deportazioni dall’Istria e dalla Dalmazia, nonostante la buona volontà di tanti, non si è placato in una pace capace di memoria se non condivisa, almeno rispettata.

2. Frequento Odessa. Ci andai come osservatore elettorale due volte. La situazione nel 2010-2012 pareva calma tra russofoni e ucraini, nessuna contestazione ai seggi elettorali, stravinse il partito filo russo. Stalin e Krusciov (ucraino) con le loro deportazioni mescolarono i popoli. Due anni dopo a Odessa furono bruciati vivi nella loro sede 50 rappresentati ritenuti amici della Russia, dopo i fatti di Crimea e del Donbass. Ma Odessa è Odessa, e ci tornai ogni anno. Odessa è la città sul Mar Nero dagli immensi faggi e i profumati tigli. È stata la città più cosmopolita dell’Ottocento. Ucraini, russi, genovesi, ebrei, turchi. dove ci fu la rivolta dei marinai della “Corazzata Potemkin” (e c’è la scalinata famosissima ormai irrimediabilmente fantozziana). Qui il maestro Di Capua, a fine 800, guardando l’alba sul Mar Nero, scrisse la melodia di “‘O sole mio”. I nazisti rumeni la invasero nel 1941 e assassinarono decine di migliaia di ebrei. E sotto la cipria dei bei negozi italiani e lo zucchero della splendida architettura liberty si sente che la terra è ferita e rimbomba ancora il grido delle madri.

Il grido delle madri

Le strade sono piene di bellezza mercantile, di note musicali (Oistrakh, il massimo violinista del secolo scorso; Wiatoslaw Richter, pianista eccelso), di poesia (Gogol, Puskhin, Babel) e del grido delle madri cannibali di figli morenti (Vasilij Grossman in “Vita e destino”). Entrai in molte case, solo dopo molto tempo chi ci accompagnava osò confidare di essere russa, il padre deportato da Stalin ma russa. E doveva tacere, per non rischiare di essere impalata, guai a parlare russo. Ma anch’essa ricordava come gli ucraini in percentuale non piccola stettero dalla parte di Hitler e massacrarono con le SS 1,4 milioni di ebrei. Per averlo scritto ricevetti lettere di minaccia. Le famiglie sono divise nel loro interno, si sono separati mariti e mogli, perché erano intrecciate nazionalità e persino i pensieri politici. E penso che questa potrebbe essere la civiltà europea orientale, così cristiana e aperta: Odessa! E adesso: guerra! Ma perché?

A sessanta chilometri verso l’interno grandi voli di cicogne e approdo in un luogo che si chiama Kirovo, ed ecco un podere che è tutto una distesa di rose, 700 specie, boccioli freschi e fiori spampanati, blu, vermigli, lillà, neri, candidi, screziati, marmellata e vino di rose. I contadini profumati di rosa ci raccontano le loro peripezie, e noi scorgiamo la profondità tesa, piana, ricchissima e poverissima della sconfinata campagna. Ci sono solo rondini nel cielo, le cicogne riposano. Tutti restiamo incantati quando un altro ci parla, e ci porge un bicchiere di vino, cognac, gazzosa, elisir che teneva in serbo per l’amico. Ma allora perché questo odio tra fratelli? Oggi sono tra i molti che prova a digiunare per loro.

La vera guerra oggi è quella freddissima
di Renato Farina
Libero Quotidiano, 2 marzo 2022


Guai a sottovalutare Vladimir Putin, trattandolo come una tigre crudele, ma nervosa e perciò strategicamente sprovveduta e lì lì per essere messa nel sacco dagli astuti cervelloni della Nato. In realtà la guerra in Ucraina è soltanto una di quelle che la Russia sta combattendo. Di certo è la più cruenta, ma altrove si sta giocando una partita che avrà un peso enorme e dalle conseguenze imprevedibili per l’ordine mondiale.

È la guerra dell’Artico, facendo gli spiritosi possiamo definirla freddissima, addirittura glaciale, ma sono aggettivi che hanno il loro perché non solo per ragioni di termometro.

L’Artico è una immensa miniera, l’appartenenza a questo o quello stato dei diritti a sfruttarne le risorse è un intrico dove alla fine l’interpretazione giusta sarà decisa secondo le consuetudini del diritto internazionale: cioè dai rapporti di forza. E fi la Russia già oggi è la più forte di tutte, di sicuro quella che vede più lontano, e nei piani di Putin consentirà a Mosca di riavere il ruolo di grande potenza, cui anche la Cina dovrà inchinarsi con rispetto.

Lo ripetono a ogni telegiornale: lo scontro con gli Usa, l’Unione Europea e la Nato – è persino ovvio – spinge Mosca tra le braccia non esattamente disinteressate della Cina. Da tempo Putin ritiene impossibile rapporti durevoli di collaborazione e amicizia con gli Stati Uniti.

Partita delicata

Non è questione di ideologia, ma è la memoria dei popoli a pesare, a costo di fare il gioco del terzo, immenso, incomodo: la Cina, la quale punta a un asse che da Pechino attraversi l’India, l’Iran e si congiunga con la Federazione Russa, povera di abitanti (150 milioni, in crisi demografica) ma con enormi risorse.

La Russia dà ormai per ineludibile questa alleanza con il Dragone, ed essa già si è espressa in esercitazioni navali congiunte. Putin però non è tipo da complessi di inferiorità probabilmente neanche con Zeus e Zaratustra, figuriamoci con Xi, e con il Dragone non intende svolgere un ruolo da partner junior, con un piccolo pacchetto di azioni nella multinazionale eurasiatica che vuole dominare il mondo. Per questo sta giocando le massime energie militari, economiche e persino mentali all’estremo Nord.
è lì che i suoi incrociatori a propulsione nucleare presidiano il passaggio di Nord-Est in attesa che il riscaldamento globale porti via la banchina polare ed estingua i poveri orsi bianchi, lo Zar Vladimir sta provvedendo alla loro sostituzione con l’Orso russo.

Non è noto al grande pubblico, ma oggi in Danimarca e Norvegia si sta giocando una delle più delicate partite di intelligence degli ultimi decenni. Con intrecci di rompighiaccio, incrociatori e sommergibili a propulsione nucleare, la Russia ha già conquistato senza colpo ferire la rotta artica che le permette senza alcun disturbo di rifornire di gas liquido la Cina.

I commerci

Il gasdotto su cui Pechino ha investito centinaia di miliardi sarà concluso nel 2025: un po’ tardi per sostituire le entrate dall’Europa. Come si vede dall’immagine che pubblichiamo, la rotta artica (o Passaggio a nord-est, in rosso) permetterebbe di accorciare i commerci verso la Cina rispetto al percorso attuale che attraversa lo stretto di Suez (in blu).

La rotta artica già oggi permette il passaggio di navi cariche di gas naturale liquefatto dal nord della Russia occidentale verso la Cina riducendo il tempo di percorrenza da 48 a 35 giorni, e senza alcun guaio o interferenza di Stati ostili. Un mare controllato interamente dalla Russia, tutto nella propria patria blu, rompendo il famoso accerchiamento da cui il Cremlino si sente oppresso.

Lì, in attesa che gli Usa facciano qualcosa, attorno al Polo, assistono inquieti alle manovre di Vladimir tre Paesi che temono la rapina del millennio: Danimarca, Norvegia e Canada. Lo scioglimento dei ghiacci rivelerà risorse naturali finora rimaste occulte (per un valore, stima l’autorevole sito svizzero di geopolitica “Il Federalista”, pari a 20 trilioni di dollari). Ci sono petrolio, gas e minerali rari, preziosi per alcune industrie sempre più importanti a livello globale (come quella aerospaziale, quella della difesa e quella energetica). Mosca si tiene stretto il boccone con navi da guerra a pattugliare tutta la lunghissima costa artica, oltre 6.000 chilometri.

Vuole l’esclusiva

Una vera e propria “via della seta polare” di cui Mosca vuole l’esclusiva, dove però la Russia non ha l’esclusiva: i pretendenti sono cinque, Canada, Danimarca, Norvegia, Russia e Usa. La Russia non scherza, si comporta come il pioniere del Far West che ha segnato i confini del suo ranch nella prateria. E al diavolo gli indiani.

Per rifornire di energia i territori artici la Russia ha addirittura costruito una centrale nucleare galleggiante. Dispone di quaranta incrociatori a propulsione nucleare, capaci di tenere il mare per mesi, gli americani dispongono di quattro mezzi di questo tipo. La prossima guerra, se intanto non scoppierà quella nucleare, si giocherà da quelle parti.

La nuova follia
di Renato Farina
Libero Quotidiano, 28 febbraio 2022


Come capita agli animali, che avvertono i terremoti in arrivo prima dei sismografi, e si agitano, e si accucciano, e sperano che non sia vero, allo stesso modo uno stridore nella testa alle 7 del mattino di mercoledì scorso ci aveva avvertito che l’aggressione della Russia all’Ucraina non era una questione locale, con qualche guaio anche per noi, ma niente di più. Quel brivido lungo la schiena pre-razionale, è entrato nelle nostre case come avviso di guerra prossima per noi. Dai che lo sappiamo, era paura della bomba atomica, il presentimento che ci nascondevano qualcosa là in alto.

L’eventualità per la prima volta plausibile sul serio dell’evento apocalittico che tutti noi ci raffiguriamo così: un momento prima girare il cucchiaino nella tazza con o senza zucchero, sorridere ignari per strada, e un attimo dopo zero, vaporizzati a milioni. Bisogna pur vivere però, e nei giorni successivi abbiamo acquietato la premonizione con il balsamo delle preoccupazioni quotidiane.

Ma certo che era paura della bomba, sin da subito lo è stata, anche se nessuno in tivù lo ha detto. Non una semplice e pur orrenda guerra di carri armati, o di commando con bazooka, e le povere madri con le piccole valige e i bambini che piangono. Quello l’abbiamo davanti agli occhi, e per fortuna ci scuote le viscere. Ma la paura che toma in queste ore è quella da sprofondamento dei continenti per decisione di nostri simili, e che fece il suo ingresso nella psiche dell’umanità il 6 agosto 1945 a Hiroshima.

Ce n’eravamo dimenticati di questa paura. Se sul motore di Google si cerca “paura nucleare” per pagine e pagine non sono nominate le armi, ma le centrali che generano energia con quel nome disgraziato. Quest’ultima generazione detta Z non sa che sia. Bisogna tomare indietro per ricordarsene. Per decenni, dalla crisi di Cuba (1962) in poi, il timore aleggiava persino nelle aule delle elementari, con la maestra che parlava di “fungo atomico”. Poi tornò quando alla fine degli anni 70 ci fu il confronto sui missili sovietici SS20 puntati contro le nostre città: minaccia definitiva all’Europa. L’urlo delle piazze pacifiste, comuniste, verdi e cattoliche era un’invocazione di resa: «meglio rossi che morti». La risposta di Germania e Italia, che grazie a Schmidt, Craxi e Cossiga accettarono di dotarsi di razzi Cruise e Pershing azzerò la minaccia (si chiama deterrenza). Ci furono timori successivi all’abbattimento del Boeing coreano nell’estremo est della Siberia da parte dei sovietici nel 1983. Ora temiamo i missili di qualche potenza periferica: Pakistan, Corea del Nord, Iran, ma è come se riguardassero Giappone, India, Corea del Sud, Israele e a noi che importa?

L’orologio dimenticato di Hiroshima e Nagasaki è tomato a far sentire il suo tic toc. Bomba atomica significa polverizzazione dell’umanità, ma in questo terzo millennio con esiti centomila volte più devastanti da quelli provocati da piccoli aggeggi sperimentali. Ed ecco che, dopo giorni e giorni in cui si è fatto finta di nulla, e si è cercato in ogni modo di silenziare le parole evocatrici di ecatombe. adesso tutto è diventato fottutamente chiaro. In ballo non c’è una bombola di gas (anche), o un porto sul Mar Nero, e neppure la sostituzione di un presidente a Kiev con un fantoccio. C’è la vita e la morte del mondo. Non in generale. Ma la tua e la mia esistenza, quella di figli e nipoti. Si chiama guerra nucleare. Non è teoria, è questione di qualche bottone da premere. La valigetta è aperta sui tavoli delle potenze mondiali.

«O sanzioni o guerra»

Sabato sera Joe Biden ha detto lapidariamente: «O sanzioni o terza guerra mondiale». E sappiamo bene cosa vuol dire «terza guerra mondiale»: non sarebbe una disfida tra leader come capitò a Barletta con le spade di gommapiuma, dove chi vince sventola le sue bandiere sui castelli del nemico, e il giorno dopo tutti a lavorare. Non è un tè con i biscotti, una battaglia coi cuscini, quella che adesso gli strateghi usano chiamare “guerra a bassa intensità”, che ammazza la gente, ma lontana dalle grandi capitali e dai Paesi con il Pil ipermiliardario.11 messaggio di Biden era chiaro e finalmente simmetrico alle allusioni minacciose di Vladimir Putin. Traduzione: se i russi non cedono davanti alle durissime sanzioni economiche, o se qualcuno tra i Paesi Nato, per viltà o calcolo non le appo zi a, vuol dire guerra nucleare.

Il 7 febbraio Putin in conferenza stampa a Mosca con Emmanuel Macron aveva lanciato il messaggio, aveva estratto dalla fondina il missile nucleare, pur senza nominarlo, ma si è fatto finta di niente, si è pensato forse a un’esagerazione propagandistica. Disse: «Lo capite o no che se l’Ucraina si unisce alla Nato e tenta di recuperare la Crimea con mezzi militari, i Paesi europei saranno automaticamente coinvolti in un conflitto con la Russia?». Poi la buttò lì: ricordando che la Russia è «una delle principali potenze nucleari». Nessuna risposta all’altezza della provocazione. Non si si è usata l’arma della deterrenza dicendo: anche noi le abbiamo, non facciamo sciocchezze che si muore in due (miliardi). Ancora mercoledì Putin ha tirato uri altra cannonata atomica: se qualcuno interviene tra noi e Kiev «subirà conseguenze mai viste prima». Nessuna contro cannonata ad altezza d’uomo.

Occhio per occhio

Biden ha atteso sabato per ammettere di aver capito il messaggio e di voler reagire con l’occhio per occhio. A questo punto l’effetto è stato quello di sventolare il fazzoletto rosso davanti al toro ormai scatenato. Putin ha risposto ieri pomeriggio: ah sì? Io accendo le lucette rosse delle rampe missilistiche a testata devastante. In tivù ha annunciato: «Dopo le dichiarazioni bellicose della Nato, conferisco al ministro della difesa e al capo di stato maggiore l’autorità di mettere le forze di deterrenza dell’esercito russo in allarme speciale di combattimento». Domanda: questo può includere una componente nucleare. «Certo che sì» ha confermato il ministro della difesa Sergei Shoigu.

Le armi le ha, eccome se le ha. Gli esperti, a maggioranza, prevedono che sia una boutade, salvo Héloïse Fayet, coordinatrice del programma Deterrenza e proliferazione al Centro di studi sulla sicurezza dell’Ifri.
Se avrà avuto ragione lei, nessuno le farà i complimenti: saremmo tutti morti. Il Papa confida nella forza della preghiera alla Madre di Dio per la pace e sulla buona volontà degli uomini. Basterebbe il buon senso. Figuriamoci. Punterei tutto su un miracolo della Madonna.

Segue la Parte 5: QUI.

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