Il Patriarca di Venezia dice basta ai funerali ridotti a show

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Il Patriarca di Venezia pone un freno alla moda delle esequie teatrali. La preghiera, invece di esser una domanda a Dio di ciò di cui ha bisogno il morto e noi, si trasforma in una passarella oratoria. Monsignor Francesco Moraglia dispone, in nome del ritorno alla sobrietà, di evitare durante la funzione canzoni profane e interventi di parenti e amici dal pulpito. Basterebbe accordarsi con i parenti. Un familiare e un amico che leggano testi brevi, e dopo la Santa Messa.

Tutta Venezia in queste ore non parla di Mose, ma di funerali. Il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, ha emanato una nota pastorale sulle esequie di immediata applicazione. In sintesi. D’ora in poi niente discorsi di parenti e amici dal pulpito per celebrare il defunto; niente più canzoni profane diffuse a tutto volume perché Milva o i Maneskin piacevano molto a quel signore deposto nella bara, la quale a sua volta non dovrà essere avvolta, nella sua permanenza in chiesa, da bandiere di partito o simili.

Da sempre sul tema ci sono due partiti che dibattono sullo stile delle esequie, sulla loro forma che non è mai formalismo ma dice il significato del gesto. Celebrare la memoria del morto, esaltarne la biografia, posare oggetti a lui cari (divise sportive, libri, peluche, dischi) al modo degli etruschi e dei faraoni delle Piramidi, oppure intendere le esequie come preghiera, come affidamento alla misericordia di un Padre che ci aspetta oltre la porta oscura.

Di gran lunga, statisticamente sono più trendy, e hanno maggior seguito i cultori del funerale come teatro dove il protagonista è colui o colei che salutiamo piuttosto che l’invocazione perché la sua anima sia lavata dai peccati e accolta in cielo. Anzi, magari fosse chi ha abbandonato questa valle di lacrime a essere al centro dell’interesse. La preghiera dei fedeli invece di essere una domanda a Dio di ciò di cui ha bisogno il morto e noi che restiamo, si trasforma in una passerella oratoria, dove i più bravi sono di due categorie: coloro che piangono riuscendo a contagiare gli astanti, e coloro che cercano di essere spiritosi e provano a far ridere.
Aneddoti

Un vescovo mi raccontava di aver combattuto a lungo per convincere familiari e conoscenti a distinguere i due momenti, quello dell’orazione sacramentale da quello più celebrativo-biografico, così da evitare la messa-longa di due ore e più oltretutto infarcita di cavoli a merenda con citazioni bislacche di poemi erotici tibetani. Nulla da fare. Anche forse per risparmiare: meglio far tutto in chiesa piuttosto che prenotare una sala da qualche parte.

Guai a essere unilaterali però. Ho memoria di lettere al papà di figli e dialoghi d’amore di coniugi davvero sobri e commoventi pronunciati sui gradini dell’altare, perfettamente conformi al mistero di quel corpo senza vita che giace lì, davanti al tabernacolo. Con il cuscino di fiori a rendere meno duro il legno. Ma capita spesso l’esibizionista: è lui, lo si riconosce subito, è il poeta incompreso che ha tratto dei versi dal proprio dolore di lontano parente o saltuario conoscente ricavando amare considerazioni sul nostro essere «pulvis et humbra». L’aveva già scritto Orazio, ma pare che i funerali in chiesa siano diventati il pulpito non per pregare o predicare il Vangelo, ma trespoli per pavoni che fanno la ruota.

Parliamo qui di funerali religiosi e cattolici. Di quelli musulmani, ebraici o di quelli laici, rimandiamo ad altra occasione, constatando peraltro che quelli celebrati con «rito civile» sono sempre più rari. È un paradosso: meno la gente va a messa, e si diradano i credenti, più si vuol far benedire la propria salma dal prete. Si evita di battezzare i figli, ma sui funerali alzi la mano chi è strasicuro di volere per sé quello laico, con i discorsi, la banda, e persino l’orchestra jazz. Non credo ci sia solo conformismo sociale in questa scelta per la chiesa: c’è qualcosa di più profondo di mezzo. Accettando di passare, gelati dalla morte in quella cassa di legno chiaro, davanti all’altare e al Nazareno Crocefisso, è come se ci si inchinasse davanti al mistero del nostro destino mortale, senza rassegnarsi al nulla, nel solo luogo dove è preservata una forza spirituale capace di dare speranza.

Io sono del partito della sobrietà. Oltre a vietare applausi al funerale nel mio testamento c’è scritto che non voglio discorsi di nessuno dal pulpito, basta il prete, anche per evitare che si presenti Ranucci a darmi dell’agente Betulla. Non voglio neanche – pare che sia un’usanza ormai quasi di precetto – qualcuno che metta il disco con la mia canzone preferita. Amo Lucio Battisti e stravedo per “Motocicletta 10 HP è tua se dici sì”, ma la so a memoria, non ripetetela, preferirei si pregasse per la mia assai incerta salvezza eterna.

Bacio e banchetto

Di certo il Patriarca mi pare – senza offesa – troppo schematico. Basterebbe accordarsi con i parenti. Un familiare e un amico che leggano testi brevi, e che questo avvenga dopo la messa. Sobrietà. Funerali religiosi, non edizioni straordinarie dell’«Ora del dilettante». Se si vuole una celebrazione con i fiocchi, si faccia come usa ancora in Russia e da tante parti. Prima il canto di dolore della vedova e dei figli, dove di solito si fa cenno anche abilmente all’eredità; quindi il funerale e il bacio al defunto; poi il banchetto in onore del defunto dove ciascuno potrà celebrarlo e ritrarlo, mangiando e bevendo, perché la vita è mangiare, bere, e morire.

P.S. Non sono cose vecchie o futili queste discussioni sulle esequie. Dell’importanza del funerale ci siamo resi conto quando fu proibito. Ve ne siete dimenticati? C’è stato un anno tremendo durante il quale non è stato possibile stringersi intorno al defunto, e si è dovuto rincorrerne le ceneri in crematori forestieri e ostili al nostro dolore. Allora ci rendemmo conto, quando ci fu inibito, dell’importanza esistenziale dell’accompagnare il feretro di chi amavamo alla sepoltura circondandolo di incenso e di preghiere per la sua resurrezione. Non c’è nulla di più umano che seppellire i propri morti. Giovan Battista Vico nella Scienza Nuova scrisse: «La parola umanità viene da humare, inumare, seppellire». Una etimologia non proprio scientifica, ma dice la verità.

Questo articolo è stato pubblicato oggi su Libero Quotidiano.

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