Papa Francesco, l’uomo del guado
“È uno di noi”: un giornalista sa ormai per esperienza che prima o poi, al termine della sua giornata di interviste in piazza o nel mezzo di una conversazione su un bus di linea, da qualcuno gli arriverà, limpida e lapidaria, la spiegazione sull’amore a prima vista scoccato tra Jorge Mario Bergoglio e il mondo. “Il vescovo e il popolo” sono gli interlocutori di quel dialogo cominciato la sera dell’elezione al soglio di Pietro quando, dalla loggia delle Benedizioni, ai cattolici di Roma e del mondo papa Francesco chiedeva preghiera. A quasi quattro mesi da quel 13 marzo, Francesco è il pastore che ad ogni appuntamento pubblico richiama intorno a sé tanti pellegrini che piazza San Pietro non può contenerli, il suo sorriso fa più attraenti le copertine, raccoglie il ciuccio di un bambino ed ecco sorgere un evento comunicativo.
Si direbbe che siamo nel pieno della costruzione mediatica di un mito, un processo poderoso in cui una fabbrica inesausta di significati amplifica il gesto più spontaneo e lo celebra. Paradossalmente, il mito ogni giorno rende l’uomo che tutti cercano un po’ più distante e un po’ meno reale, alla sua persona toglie matericità e al suo messaggio l’efficacia. Eppure, nulla di tutto questo accade al vescovo Bergoglio e al suo popolo: per le migliaia di pellegrini che in una domenica romana attendono di vedere il pontefice in dimensioni che non superano quelle di un puntino bianco, papa Francesco resta l’uomo della prossimità, “uno di noi”.
Come se il guado del successo, una volta attraversato da “padre Jorge” al momento dell’elezione in Conclave, fosse evaporato, estinto nella sua vanità. L’illusorietà di questa separazione è tanto chiara a papa Francesco da fargli dire, alla folla che lo ascolta nell’ultima udienza generale prima della pausa estiva, che “nessuno è secondario”, nessuno è “anonimo” nella Chiesa. E poi: “Se qualcuno dicesse «senta, Signor Papa, lei non è uguale a noi!» Sì, sono come ognuno di voi, tutti siamo uguali!”
Per capire la portata di questo messaggio serve uno sguardo non superficiale sulla struttura della nostra civiltà, quella che papa Bergoglio ha chiamato a Lampedusa la “civiltà del benessere”: i punti d’equilibrio, le disparità, le mille barriere che drammaticamente separano chi ce la fa e chi soccombe, chi ha successo e chi muore. Chi ha voce e chi resta inascoltato. Viene in mente il deserto di Sonora, l’ultimo lembo di terra che dal Messico porta in Arizona. Ogni anno in centinaia tentano di attraversarlo illegalmente e muoiono di fame e di sete. In città come Tucson, o nel Texas della Rio Grande Valley, si raccolgono ossa, si cerca di identificare i corpi di chi di speranza muore.
Ma non è meno liminare la sopravvivenza nelle solitudini interiori delle società occidentali. Nel film Reality, Matteo Garrone mette in scena un altro guado, quello che separa l’anonimato dalla notorietà e regala la rovinosa illusione che solo nella celebrità – nella mediazione televisiva – sia possibile un’esistenza “reale” e degna. Percepiamo come un guado spietato anche la malattia e la morte. E un tremendo passaggio aspetta l’uomo lì dove il lavoro manca e la corruzione sembra l’unica risposta. Dove ci sono guerra e carcerazione. I guadi, le frontiere, sono i luoghi estremi lungo i quali si addensano le povertà, i dolori più crudi e le speranze più ostinate. Sono il discrimine tra vita nuova e morte, l’ultima linea della ragione sul mistero: per l’uomo di fede cristiana, sono l’intimità sconosciuta e vergine abitata da Dio. Povertà e speranza sono le due vedette della frontiera. E sono anche, finora, le due parole-chiave del pontificato di papa Bergoglio.
Non c’è da stupirsi, allora, che il papa “preso dalla fine del mondo” abbia scelto di accogliere l’invito di Lampedusa per il suo primo viaggio fuori dall’Urbe: è da qui, lungo questa frontiera d’acqua teatro di tragedie e speranza di popoli, che Francesco sembra voler farsi compagno dell’uomo. E dall’ultimo approdo d’Europa consegna al mondo le parole più vibranti di tutto il suo giovane pontificato, di un’intensità che nessun professionista della comunicazione può ancora amplificare, per risvegliare negli uomini la “responsabilità fraterna” ad essere “custodi gli uni degli altri”. Con una certa dose d’azzardo possiamo credere che sarà sempre lì dove c’è un guado dell’umano che si fermerà più volentieri e, custode e pastore, si lascerà trovare dal suo popolo. Papa Francesco è l’uomo della prossimità, “uno di noi”, perché è l’uomo del guado.