Per non dimenticare. 58 anni fa, il 9 ottobre 1963, la tragedia del Vajont. Tre minuti di Apocalisse e morte quasi duemila persone. L’Italia di oggi assomiglia a quella del Vajont

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Il 9 ottobre 1963 nell’Italia nord-orientale vengono uccise 1.917 persone, quando alle ore 22.39 dalle pendici settentrionali del monte Tóc nel Parco delle Dolomiti Friulane, si staccò una frana che cadde nel bacino idroelettrico artificiale sottostante. L’invaso appena ultimato del torrente Vajont, al confine tra il Friuli Venezia Giulia e il Veneto, conteneva 115 milioni di metri cubi d’acqua dei quali almeno 30 milioni arrivarono a superare la diga del Vajont e portarono morte e silenzio nella valle del Piave.

I paesi che stavano sotto furono travolte, e Longarone, Erto, Cassio, Pirago, Castavallazzo e Codissago vennero cancellati da onde che raggiunsero la velocità di 108 chilometri l’ora e che, all’origine, toccarono i 250 metri d’altezza. Furono sommerse da 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti, radendolo al suolo. Dei quasi duemila morti, 487 erano bambini e più di 1000 i dispersi, i cui corpi non vennero mai ritrovati. Un doloro indelebile.

La prima pagina de L’Unità dell’11 ottobre 1963.

Dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 si tenne il processo che si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la prevedibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi. Un processo ingiusto, in cui tra l’altro il risarcimento ai superstiti fu insignificante, perché era un disastro annunciato.

Un reportage di 28 articoli firmati da Tina Merlin e pubblicati su L’Unità non erano stati sufficienti per accendere qualche preoccupazione. Che la diga del Vajont fosse sicura e che non si potevano correre rischi lo accreditavano i vertici delle istituzioni, i municipi e tutti quegli ordinamenti cosiddetti intermedi che, sulle grandi opere, avevano un qualche ruolo di controllo. Il primo articolo di denuncia a firma di Tina Merlin fu pubblicato il 21 febbraio 1961, due anni e mezzo prima del disastro e per tutto quel periodo lei continuò a insistere per richiamare l’attenzione delle autorità. Inutile.

Si sapeva che il Tóc si muoveva, ma erano tanti gli interessi economici che stavano dietro il bacino idrico. Tra colpe ed errori, per mano dell’uomo, vi fu l’aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico, l’aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza, e soprattutto il non aver dato l’allarme la sera del 9 ottobre per attivare l’evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.

Tina Merlin.

La giornalista Tina Merlin de L’Unità, che aveva anticipato i problemi della diga e ha continuato a raccontare , all’epoca scrisse:

«Inizia l’ultimo giorno. Il 9 ottobre è una stupenda giornata di sole. Di questa stagione la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali. La gente di Casso va e viene ancora dal Toc, portando via dalle case e dagli stavoli più cose possibili. Ma altra gente non vuole abbandonare le case e i beni, malgrado l’avviso fatto affiggere dal Comune, pressato dalle richieste provenienti dal cantiere (Viene la sera) e la gente, adesso, è tutta nei bar a vedere la televisione. Sono ancora pochissimi i televisori privati e in Eurovisione c’è la partita di calcio Real Madrid-Rangers di Glasgow. Due squadre molto forti, una partita da non perdere. E infatti molta gente è scesa dalle frazioni a Longarone, e anche da altri paesi della valle, per godersi lo spettacolo nei bar. La gente si diverte, discute, scommette sulla squadra vincente. Sono le 22.39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile, centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont”, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».

L’inchiesta sul Vajont di Tina Merlin – corrispondente per il Triveneto del quotidiano de Partito Comunista Italiano – è durata quasi una vita. Prima con i suoi articoli su L’Unità, poi con i suoi interventi e il libro “Sulla pelle viva”, pubblicato nel 1983. Aveva fatto il suo mestiere, con interviste, confronti, verifiche, lavoro “sul campo” e lavoro “a tavolino” studiando i progetti. L’Unità era un giornale schierato ideologicamente, ma chi ci lavorava, specialmente nelle redazioni di cronaca, come anche Merlin, che era comunista fino al midollo, il mestiere da giornalista lo faceva seriamente e senza pregiudizi. Possono servire come esempio e monito per tanti loro colleghi oggi.

Nel ripercorrerne i tratti salienti con le sue parole, scopriamo che ci racconta anche degli “altri Vajont” che gli Italiani hanno subito.

Il disastro del 1963 è “un monumento alla vergogna”. Lo scambio tra interessi economici e coperture politiche continua. Gli italiani continuano ad essere “offesi, umiliati, tirranneggiati, uccisi in mille altre maniere” (Tina Merlin).

Il monumento della vergogna

“Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente, vent’anni fa, quasi tutti gli accademici illustri al potere economico, in questo caso al monopolio elettrico Sade. Che a sua volta si serviva del potere politico, in questo caso tutto democristiano, per realizzare grandi imprese a scopo di pubblica utilità – si fa per dire – dalle quali ricavava o avrebbe ricavato enormi profitti. In compenso il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva. La regola era – ed è ancora – come in tutti gli affari vantaggiosi, quella dello scambio. Il monumento si chiama Erto. Anzi, Erto e Casso” (Tina Merlin, Sulla pelle viva, 1983).

Una storia sul potere

“Oggi, dopo vent’anni in cui l’Italia e gli Italiani sono stati offesi, umiliati, tiranneggiati, uccisi in mille altre maniere, forse questa storia sembrerà una delle tante casualmente accadute. Forse più pulita di quelle che accadono oggi. Ma non è così. Assomiglia molto a quelle di oggi. È contrassegnata dallo stesso marchio: il potere. E dall’uso che ne fanno le classi politiche e sociali che lo detengono” (Tina Merlin, Sulla pelle viva, 1983).

Diventare famosa

“Non sono né più brava né più coraggiosa di tanti miei colleghi. Non volevo certo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita” (Tina Merlin – L’Unità, 13 ottobre 1963).

Fonte: Veneto Uno, Corriere delle Alpi, Giornalisti Italia.

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