Il Papa ai vescovi italiani: “Siate solleciti verso i vostri sacerdoti”
“Madre del silenzio, che custodisce il mistero di Dio, liberaci dall’idolatria del presente, a cui si condanna chi dimentica. Purifica gli occhi dei Pastori con il collirio della memoria: torneremo alla freschezza delle origini, per una Chiesa orante e penitente”. Papa Francesco termina la sua meditazione con una preghiera, che inizia con queste parole. Davanti a lui, i vescovi italiani riuniti in Assemblea generale. I quali quest’anno, invece di ascoltare le parole del Papa in un intervento, si sono riuniti in Basilica Vaticana per una solenne professione di fede. A loro, il Papa ha chiesto di amare specialmente i loro sacerdoti. Ed è tutta sull’idolatria del presente la meditazione di Papa Francesco. Il quale riprende con forza alcuni dei temi portanti del suo pontificato: la necessità di essere pastori, di stare con il gregge fino a prenderne l’odore, di “toccare” il corpo di Gesù; e l’attacco, diretto e forte, ad ogni carrierismo, a non diventare “chierici di Stato”, offuscando “la santità della Chiesa”, che Papa Francesco ci tiene a definire gerarchica. Vuole una Chiesa che sappia infondere speranza, e che metta da parte ogni forma di supponenza.
Già nella preghiera introduttiva, Papa Francesco chiede a Dio di fare “un rogo solo dei nostri orgogli”. Poco prima, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, gli aveva rivolto un breve indirizzo di saluto (“Ci anima la sollecitudine di aiutare tutti, credenti e non credenti, a ritrovare fiducia nella vita, consapevoli che proprio dal Vangelo discende la proposta di una vita buona, di una vita riuscita”). E dopo, il Papa aveva preso irritualmente la parola, parlando a braccio e sottolineando che “il dialogo con le istituzioni sociali e politiche è cosa vostra”. Parole che sembrano fare piazza pulita di una antica polemica nata quando Angelo Bagnasco era stato nominato presidente dei vescovi italiani, e il cardinal Tarcisio Bertone, segretario di Stato, gli aveva inviato una lettera sottolineando come i rapporti con le istituzioni spettassero alla Segreteria di Stato.
Un gesto che forse rispecchia anche la volontà di Papa Francesco di dare sempre più importanza e peso alle Chiese locali. Anche perché – e lo dice parlando a braccio ai vescovi italiani – “il lavoro che fate, il mettere insieme tutto quello che dicono le conferenze regionali, anche la commissione per diminuire il numero delle diocesi, così grande, è meraviglioso”.
Dopo, si susseguono le letture della Liturgia della Parola. Papa Francesco segue, serio e composto come di consueto.
E poi, viene il momento della meditazione. Il Papa stacca gli occhi dal testo all’inizio, e parla a braccio: “Queste letture mi hanno fatto pensare molto, a me per primo, vescovo come voi, e ora le dono a voi”. Parte dal Vangelo di Giovanni appena ascoltato, da quella richiesta insistente di Gesù a Pietro: “Mi ami tu?”. Una domanda – dice il Papa – rivolta a ciascuno di noi. “Del resto – afferma Papa Francesco – la conseguenza dell’amare il Signore è dare tutto, proprio tutto, fino alla stessa vita per Lui: questo è ciò che deve distinguere il nostro ministero pastorale; è la cartina di tornasole che dice con quale profondità abbiamo abbracciato il dono ricevuto rispondendo alla chiamata di Gesù e quanto ci siamo legati alle persone e alle comunità che ci sono state affidate”.
In fondo – dice il Papa – “non siamo espressione di una struttura o di una necessità organizzativa: anche con il servizio della nostra autorità siamo chiamati a essere segno della presenza e dell’azione del Signore risorto, a edificare, quindi, la comunità nella carità fraterna”. È il tema fondante del pontificato, enunciato sin dalla Missa pro ecclesia, la prima Messa del Papa davanti ai cardinali in cappella Sistina, e reiterato più volte. Ovvero che la Chiesa non è una Ong, e che le strutture sono importanti fino a un certo punto, perché prima di tutto bisogna mettere al centro Gesù.
Non è scontato. “Anche l’amore più grande – dice il Papa – quando non è continuamente alimentato, si affievolisce e si spegne”. Si deve vegliare, dunque. “La mancata vigilanza – dice Papa Francesco – rende tiepido il Pastore; lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell’organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora, come l’Apostolo Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda”.
La domanda di Gesù ci rende “maggiormente consapevoli della nostra libertà”, insidiata “da mille condizionamenti interni ed esterni”. Ma sono sentimenti – dice il Papa – che non vengono da Gesù. “Piuttosto, di essi approfitta il Nemico, il Diavolo, per isolare nell’amarezza, nella lamentela e nello scoraggiamento”.
Pietro, che pure ha rinnegato Gesù, è “purificato dal fuoco del perdono”, perché “Gesù, buon pastore, non umilia né abbandona al rimorso: in lui parla la tenerezza del padre, che consola e rilancia; fa passare dalla disgregazione della vergogna al tessuto della fiducia; ridona coraggio, riaffida responsabilità, consegna alla missione”.
Cosa significa essere pastori? Significa – afferma il Papa – “credere ogni giorno nella grazia e nella forza che ci viene dal Signore, nonostante la nostra debolezza, e assumere fino in fondo la responsabilità di camminare innanzi al gregge, sciolti da pesi che intralciano la sana celerità apostolica, e senza tentennamenti nella guida, per rendere riconoscibile la nostra voce sia da quanti hanno abbracciato la fede, sia da coloro che ancora «non sono di questo ovile» (Gv 10,16)”.
Ma essere pastori – aggiunge il Papa – “essere Pastori vuol dire anche disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge: capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza. Dalla condivisione con gli umili la nostra fede esce sempre rafforzata: mettiamo da parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato alla nostra sollecitudine”.
Il Papa poi chiede di riservare “un posto particolare ai nostri sacerdoti: soprattutto per loro, il nostro cuore, la nostra mano e la nostra porta restino aperte in ogni circostanza”. È anche un richiamo a quello che lui faceva come arcivescovo a Buenos Aires, quando si rendeva sempre disponibile per i suoi sacerdoti. Una esperienza che vuole sia comune per tutti i vescovi. “Loro sono i primi fedeli che abbiamo noi vescovi. Amiamoli di cuore. Sono i nostri figli e i nostri fratelli”, aggiunge il Papa a braccio, accoratamente.
E la professione di fede “non è un atto formale”, ma “rinnovare la risposta al ‘seguimi’ con cui si conclude il Vangelo di Giovanni. E, prima della professione, affida tutti in una preghiera alla Madonna. In cui si chiede di “purificare gli occhi dei pastori”, e prega: “Destaci dal torpore della pigrizia, della meschinità e del disfattismo. Rivesti i Pastori di quella compassione che unifica e integra: scopriremo la gioia di una Chiesa serva, umile e fraterna”.
Poi, la professione di Fede, la preghiera di Fede, il canto del Padre Nostro, la benedizione. E il Papa alla fine si reca di fronte alla statua di Maria Salus Populi Romani: vi si ferma in preghiera, vi depone dei fiori e la incensa mentre il coro intona il Salve Regina.