Religione a scuola: assente. Vaticano nella vita: 10 e lode. La pagella di Giulio Andreotti

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Lingua italiana: 4 allo scritto e quattro all’orale. Lingua latina: quattro e quattro. Lingua greca: tre e due. E poi: quattro in francese, cinque in storia, quattro in geografia, cinque in matematica e fisica, cinque in educazione fisica. Ma il dato che spicca di più è il voto in religione: assente. Una delle tante ironie della sorte. Perché la pagella (riprodotta qui a fianco) è quella di Giulio Andreotti, il politico italiano che più di tutti ha tenuto insieme le due sponde del Tevere. Tanto che di lui è stato detto che “quando faceva politica estera era sempre utile al Vaticano, spesso utile anche all’Italia”. Tanto che Andrea Riccardi lo ha definito “un cardinale esterno. Tanto che Giuliano Ferrara ne ha parlato “come una sorta di cittadino vaticano naturalizzato, o come un oriundo italiano con specchiata carriera ecclesiastica”.

Ma che Andreotti e il Vaticano dovessero essere così vicini era destino. L’indirizzo sulla pagella – ritrovata da un professore negli archivi del Liceo Tasso – è quello di via dei Prefetti, 18. È la casa dove Andreotti è nato, ed è la casa di zia Mariannina. La quale era solita portare il nipote a fare lunghe passeggiate. Le quali – ha ricordato poi il senatore a vita – “erano quotidiane rievocazioni di memorie personali della zia, che aveva vissuto da sedicenne il grande cambiamento del 20 settembre 1870. Con una punta di ironia ripeteva che alcuni romani, che fino a quel giorno erano stati ostili al Papa, quando venne meno il potere temporale ne divennero apertamente nostalgici”.

Giulio Andreotti, classe 1919, dipana la sua vita sotto il segno di otto Papi. Quando nasce, è regnante Benedetto XV, che morì quando lui aveva appena due anni. In casa, però, c’era una vera e propria venerazione per Pio X: la madre di Andreotti ne era rimasta affascinata dopo averne ascoltato una messa a 20 anni. Mentre Andreotti comincia la frequentazione vaticana sotto Pio XI, infiltrandosi ad una udienza dell’Azione Cattolica Belga. L’impegno politico nasce dall’incontro fulminante e definitivo con Alcide De Gasperi. Seconda Guerra Mondiale, Biblioteca Apostolica Vaticana. De Gasperi lavorava lì, rifugiato in Vaticano. Andreotti vi era andato a cercare testi sulla Marina Pontificia, cui stava dedicando la tesi di laurea. “Ma lei non ha proprio niente di meglio da fare?”, gli dice De Gasperi. “Io mi seccai un po’ – ha raccontato Andreotti – Qualche giorno dopo mi chiama Giuseppe Spataro, che era stato presidente molti anni prima, e stava riorganizzando la Democrazia Cristiana, e ci ritrovo quel signore dei libri che mi dice: ‘De Gasperi vuole il suo nome’ […] De Gasperi io non lo conoscevo. Mi venne detto: ‘Vieni a lavorare con noi’. Allora ho cominciato, e non era affatto nei miei programmi. Poi, si sa, la politica è una specie di macchina nella quale se uno entra non può più uscirne”.

Se Andreotti non conosceva De Gasperi, questi conosceva bene Andreotti. Sapeva che era il direttore di Azione Fucina, la rivista degli universitari cattolici, dal 1939. E sapeva anche che dal 1942 era presidente della FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani), dopo aver raccolto il testimone di Aldo Moro, che era stato chiamato alle armi. È da questo impegno che nasce la sua partecipazione ai lavori che porteranno all’elaborazione del Codice di Camaldoli, nel 1943. La Dottrina Sociale applicata alla politica, un misto di sussidiarietà e attenzione per la persona che poi il gruppo della DC riporterà direttamente nel dibattito della Costituente. C’è molto del Codice di Camaldoli nella Costituzione Italiana. Arrivato per caso alla politica, Andreotti vi scopre una vocazione. I rapporti con la Chiesa sono stretti, ma non necessariamente contigui. È amico di Pio XII, che conosce dai tempi della Fuci. Frequenta Giovanni XXIII, il Papa del Concilio.

Ma, come tutti i ragazzi della FUCI, non può non avere un rapporto speciale con Giovan Battista Montini, che della Fuci è stato assistente ecclesiale. Sono rapporti che non si interrompono quando Montini viene eletto Papa con il nome di Paolo VI. Anche se, in fondo, molte cose cambiano. È terminato il Concilio Vaticano II, la Curia è diventata più internazionale, i rapporti più formali. Andreotti ne soffre, si lamenta di frequentare Paolo VI meno di prima. Resta, tra loro, un grande affetto, e comunque una enorme vicinanza intellettuale. Papa Montini è chiamato a puntellare la Chiesa del dopo Concilio, a rimettere la barra sulla fede, ad evitare le derive. Andreotti, dal canto suo, lavora di qua e di là del Tevere, come suo solito. E nel 1976 arriva il momento favorevole per dare una svolta ai rapporti tra la Santa Sede e l’Italia. C’è l’esigenza di revisionare il Concordato del 1929, e c’è anche la possibilità politica, dato che il governo Andreotti gode dell’appoggio di quasi tutto l’Arco Costituzionale, tranne il Partito Comunista di Berlinguer, che opta comunque per la “non sfiducia” (anche questa, una felice espressione di Andreotti).

Andreotti comincia così a tessere i rapporti dietro le quinte per lavorare ad una revisione del Concordato. I tempi non sono ovviamente brevi, si istituisce una commissione, la commissione Gonella. E nel 1978 tutto si rompe. Aldo Moro viene rapito e ucciso, pochissimo tempo dopo muore Paolo VI. E ancora, lo scandalo della P2, la loggia massonica “coperta” cui fanno parte moltissime personalità del mondo politico e imprenditoriale. Cambia anche il mondo politico italiano, il leader socialista Bettino Craxi diventa presidente del Consiglio. Sarà lui a chiudere la questione del Concordato. Quando, in un convegno del 1984, Andreotti sarà chiamato a spiegare la revisione del Concordato, non farà mai il nome del segretario del PSI: in fondo, sentiva come sua quella revisione. Ma anche il mondo cattolico sta cambiando, c’è un nuovo Papa, Giovanni Paolo II (“il primo Papa più giovane di me”) e una nuova linea. C’è comunque un nuovo mondo alle porte. Andreotti lo sa. È un pontiere di professione, ha sempre tenuto stretto contatto con tutte le componenti del mondo cattolico, anche quelle meno ben disposte verso la Dc. Con Luigi Gedda – che, tra le altre cose, aveva riorganizzato l’Azione Cattolica e “inventato” gli Angelus domenicali del Papa – aveva un rapporto strettissimo; con il cardinal Fiorenzo Angelini ha coltivato una amicizia lunga una vita.

La sua vocazione di pontiere nasce da lontano. Ancora sotto il fascismo, Andreotti tentava di tenere i rapporti tra Pio XII e i giovani della “Sinistra cristiana” e soccorreva personalmente l’esponente di quella corrente Adriano Ossicini incarcerato a Regina Coeli per una manifestazione in piazza San Pietro. Era però anche abbastanza pragmatico per decidere di rompere i rapporti con un altro esponente del socialismo cristiano, Franco Rodano, considerato a rischio di deriva cattocomunista. Dieci anni dopo, dibatterà con Giuseppe Dossetti riguardo la sua idea di “partito guida” cristiano, e poi con la sinistra interna dei “professorini”. Anche lì lo scontro era, alla radice, tra una concezione tradizionale e “papalina” della politica e una tecnocratica, da partito etico. Uno scontro che si riproporrà negli anni Ottanta, nel confronto con Ciriaco De Mita che diventerà segretario della Dc, e poi ancora nel momento della resa dei conti, quando Pierluigi Castagnetti aveva fretta di “mandare a casa Andreotti e Gava idem”, fino alla dissoluzione della Dc (e raccontano che Andreotti non volesse più andare a palazzo Giustiniani, sede ormai di tanti piccoli partiti scaturiti dalla Balena Bianca, considerato “un condominio un po’ rissoso”).

Non erano semplici divergenze politiche: Andreotti non direbbe mai, come ha fatto Rosy Bindi, che “il compito dell’evangelizzazione da parte della chiesa è anche una forma di pedagogia alla cittadinanza, all’impegno civile e politico”. Senza questo, è difficile anche inquadrare la sua lunga navigazione in politica estera, anche questa giocata nel segno di creare ponti. Dai tempi in cui cercava di collegare la linea del governo italiano con la Ostpolitik di Paolo VI, fino in anni recenti post 11 settembre, Andreotti in fondo ha incarnato una visione molto “vaticana”, scaturita nella linea dell’ “equivicinanza” tra israeliani e palestinesi, fatta di accordi con il mondo arabo e di buoni rapporti con gli alleati americani.

Qualche aneddoto. Il cardinale americano Francis Spellman, amico di Andreotti, aveva commissionato all’Opificio di Pietre Dure di Firenze un tavolino in pietra con il suo stemma cardinalizio. Ma l’opera fu ultimata solo quando il cardinale era già passato a miglior vita. Così, il tavolino finì a casa di Andreotti. Il quale ha custodito anche le insegne vescovili che ha avuto in eredità dall’amico di infanzia e cardinale Angelo Felici. Si farebbe ingiustizia ad Andreotti se però non si tenesse conto della “storia minuta” di cui era protagonista. Una “storia minuta” fatta di battute salaci, racconti sulle zie, ma anche su pie suore, vescovi e semplici preti di Chiese sofferenti in giro per il mondo. Ricevuti, visitati, tenuti in contatto con una solerzia che ha dell’incredibile, per un politico professionista. In fondo tutti i movimenti e le congregazioni religiose possono dire di aver avuto da lui un aiuto, una spinta, un supporto, sia concreto sia morale. Un cattolico ecumenico, direbbe qualcuno più idealista.

Più che altro pragmatico, dicono altri. Che, negli Anni Ottanta, vede in Comunione e Liberazione la forza nuova del cattolicesimo, quella che più si confà a lui, che da sempre – dal tempo in cui aveva fondato nella Dc la corrente Primavera – ci ha tenuto a mantenere la sua identità cristiana. “Per lui, la Dc è un partito di notabili cattolici”, disse di lui Gianni Baget Bozzo, sacerdote con la passione della politica Ha detto di lui Francesco Cossiga: “Prima che grande leader democristiano, Giulio è stato un grande esponente del cattolicesimo politico. Chi non ha capito questo, non ha capito nulla della sua importanza e della sua funzione storica per la società civile e la Chiesa”. Oggi, alle 17, funerali privati nella Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, la sua parrocchia, dove lui è andato a Messa ogni mattina finché ha potuto. La chiesa è esattamente dietro casa di Andreotti, appena di qua del Tevere, con il Cupolone vaticano proprio lì, vicinissimo. Quasi che la casa del Divo Giulio stesse a simboleggiare quel legame con l’altra parte del Tevere che non lo ha mai abbandonato.

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