Il tweet del Papa e la benedetta umiltà che serve anche ai giornalisti

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Diffondere il Vangelo è l’obiettivo principale della Chiesa. Andare “là dove stanno gli uomini”. Ed è per questo che, fino ad oggi, la Chiesa è sempre stata all’avanguardia nello sperimentare e utilizzare i mezzi di comunicazione di massa. Forse, però, oggi c’è bisogno per la Chiesa di fare un salto ulteriore. Perché non basta essere presenti sui mezzi di comunicazione. C’è bisogno di giocare con il loro linguaggio, perché un messaggio passi nella maniera corretta nonostante le distorsioni. Distorsioni che sono state drammaticamente presenti anche nel periodo che ha portato all’elezione di Papa Francesco, e che ormai in qualche modo fanno parte del gioco. Distorsioni che sono raccontate nel libro di Francesco Grana, Il tweet del Papa (L’Orientale Editrice). Ci sono entrambi i punti di vista, nel volume di Francesco Grana.

L’attività della Chiesa nei mezzi di comunicazione è documentata a fondo nella seconda parte del volume. Una lunga disamina dei media vaticani, della loro storia, della loro diffusione. La prima impressione che se ne ha è quella di un momento in cui la Chiesa smette di anticipare i tempi, e comincia a rincorrerli. Leone XIII si fece riprendere da un operatore dei fratelli Lumiére, per andare nei pionieristici cinema. Guglielmo Marconi fu chiamato a dare vita a Radio Vaticana negli Anni Trenta, e i radiomessaggi di Pio XII durante la II Guerra Mondiale hanno il valore di un’enciclica. Pio XII promosse addirittura un film sulla sua persona, Pastor Angelicus. Addirittura, nel 1995 la Santa Sede entra in Internet, con tutta la ponderosità dei suoi documenti e l’universalità delle lingue, ed è un successo strepitoso. Ma poi sbarca clamorosamente in ritardo nel mondo di Twitter, in un esordio (sotto Benedetto XVI) che non manca di suscitare polemiche. Dà grande risalto alla creazione di un portale/aggregatore di informazioni in cui quello che manca davvero è un indirizzo delle informazioni. Ristruttura con lentezza i media vaticani, correndo dietro alle novità, piuttosto che anticiparle. Quale è il meccanismo che si è rotto? Più che un meccanismo è cambiato un modo di vivere l’informazione religiosa.

La prima parte del volume è tutta dedicata a quanti comunicano la Chiesa. La categoria del “vaticanista” è nata con il Concilio Vaticano II, e ha vissuto attimi di enorme specializzazione. Il dibattito conciliare necessitava di persone che sapessero “mediare l’invisibile”. Ovvero, raccontare un dibattito teologico, trovarvi una notizia, renderla appetibile per il grande pubblico. Gli anni del Concilio sono stati anni di grande fervore intellettuale, ma anche di grande studio per quanti scrivevano di Chiesa. Difficile non cadere nelle banalizzazioni. Ancora più difficile non cadere nella trappola della spettacolarizzazione. È l’allarme che aveva lanciato Benedetto XVI, nel suo ultimo discorso al clero romano. Il Papa emerito aveva sottolineato come ci fosse un Concilio dei media e un Concilio reale. Di più. Che il Concilio dei media aveva preso il sopravvento sul Concilio reale. Anche oggi, c’è una Chiesa dei media e una Chiesa reale. Grana riprende vari studi che sono stati fatti in questi ultimi anni, li mette in fila, li chiosa a modo suo. Tra questi, un autoritratto dei vaticanisti, i quali hanno segnalato alcuni problemi che a parer loro riguardano il giornalismo religioso: la tendenza alla istituzionalizzazione, la tendenza alla politicizzazione, la tendenza alla spettacolarizzazione e la tendenza alla polarizzazione.

Per quanto riguarda l’istituzionalizzazione, Grana ricorda che “quando non ci sono mezzi, tempo e risorse a disposizione del giornalista, la tendenza naturale è quella di coprire il vertice, in questo caso il Vaticano”. Da una parte, questa tendenza è stata anche favorita dagli stessi vertici del Vaticano. In Il mio Vaticano, Benny Lai scrive con tristezza del momento in cui il Cortile San Damaso è stato chiuso all’accesso delle persone. Era in quel cortile che il decano dei vaticanisti raccoglieva indiscrezioni, fiutava l’aria, trovava notizie. Notizie che non sempre venivano dal vertice e che poco spesso erano istituzionali. Sempre Benny Lai ha sottolineato – in una intervista a korazym.org – come i vaticanisti abbiano sofferto l’essere stati “cacciati dal Vaticano” da Paolo VI, che volle la Sala Stampa fuori dalla Città Leonina. Questo ha creato una nuova generazione di giornalisti che scrive di Vaticano che ha molti rapporti istituzionali, ma che ha pochi rapporti con gli uffici, con gli impiegati, con la base insomma. Considerando che la Chiesa non è solo quello che ruota intorno al Vaticano, e che comunque pure i rapporti delle Chiese locali sono trattati al semplice livello dei rapporti con Roma, si comprende bene come ci possa essere un limite nel comunicare la Chiesa. Il secondo limite riguarda la “politicizzazione”. Si usano categorie “politiche” per raccontare tutto, si parla di “conservatori e progressisti”, si tende a creare un conflitto che a volte non esiste, a volte è persino più sfumato. Gli stessi lettori vengono influenzati da questo meccanismo, e adeguano le loro idee di Chiesa a questo linguaggio. Così si appiattisce l’identità dei leader religiosi, e appiattisce anche il dibattito.

Le categorie servono nella misura in cui permettono di capire. “Semplificazioni di questo genere – scrive Grana – distorcono una realtà che è molto più ricca, dove non sempre i conservatori sono poi tanto conservatori, né i liberali tanto aperti alle convinzioni altrui”. È qui che si inserisce la spettacolarizzazione. Secondo Grana, “l’informatizzazione del lavoro redazionale, con la conseguenza che la comunicazione tra i redattori d’agenzia, che lanciano a getto continuo le loro brevi nei rispettivi circuiti, e i capiredattori o capipagina quotidiani, che le ricevono sui propri terminali, diventa determinante per fissare il destino di una notizia: se verrà pubblicata, e soprattutto quale taglio avrà”. Ma è solo questo che porta all’omologazione dei vari quotidiani? Quello che si può notare, in linea generale, è una tendenza a peggiorare la qualità delle notizie. Si sceglie cosa fa notizia sulla base di presunti interessi pruriginosi dei lettori. È quasi un modo per andare oltre le realtà di una vita che spesso è banale. Ma qui si inserisce anche un problema etico: è davvero giusto, da parte di chi fa informazione, dare alla gente ciò che vuole, invece di cercare la verità? È davvero giusto spettacolarizzare e andare dietro al sentimento popolare, invece di cercare di leggere la realtà e spiegarla, senza voler per forza indirizzare il pensiero del lettore? Il caso di Vatileaks è stato in qualche modo emblematico.

L’uso spettacolarizzato delle carte, mentre sui giornali uscivano documenti di qualunque genere, ha messo su un velo opaco su quello che realmente avveniva nella mura vaticane. Dove ci sono i maggiordomi infedeli e i monsignori che passano le carte per i loro vantaggi personali (o i vantaggi dei loro amici), ma dove c’è anche una struttura che nonostante tutto questo lavora con umiltà, pervicacia e senso delle istituzioni. C’è una Chiesa nascosta anche nei vertici, non solo nelle parrocchie (delle quali, va detto, si racconta pochissimo). In questo caso, anche l’istituzionalizzazione delle notizie risulta fallace, perché troppo legata solo alle persone delle istituzioni che tendono – per natura o per furbizia – ad avere un rapporto con i media. Dalla spettacolarizzazione alla polarizzazione il passo è breve. Il “conflitto” è considerato un valore notizia. Grana Cita un articolo del 1996 del cardinale gesuita Avery Dulles, il quale spiega che “il contenuto principale della Chiesa è un messaggio di fede, al quale ci avviciniamo con atteggiamento di riverenza. I media invece tendono alla indagine, alla ricerca di ciò che è spettacolare e scandalistico. Convinta della validità permanente del contenuto dei Vangeli, la Chiesa cerca di mantenere continuità con il suo passato, mentre i media vivono delle novità. La Chiesa aiuta la gente a ricevere la grazia interiore con lo sguardo nella salvezza eterna: beni spirituali difficilmente plasmabili in un filmato”.

Si può andare oltre il “materialismo” insito nei media? Molto sta alla bravura dell’operatore della comunicazione, capace di cogliere la novità nelle sfumature, nel saperle rendere al lettore, nell’inserirle nel linguaggio di un modo che giocoforza è diverso, perché ha regole diverse da quelle del mondo stesso. Fedele al precetto evangelico di “essere nel mondo, ma non del mondo”, la Chiesa va raccontata attraverso categorie differenti. Ma i media sono ormai così presenti, così pervasivi, che decidono in anticipo quale linea narrativa utilizzare, quale deve essere il centro del racconto. Prima ancora di sentire un discorso, prima ancora di vedere cosa realmente sta succedendo. Si prova a prevedere quello che succede, si costruisce un titolo prima dell’evento, e poi i giornalisti devono stare dietro a quella costruzione. Ma in fondo è semplice stare dietro categorie precostituite. Il limite è che dietro una linea di pensiero unica si esalta solo la tecnica (se il giornalista è più bravo o meno a raccontare con pathos un evento, se la testata è più brava o meno a venderlo al grande pubblico), ma si perde di vista la qualità umana del giornalista, la sua sensibilità e delicatezza nel porre gli argomenti, la capacità di andare oltre l’evento, di essere fini osservatori dell’intero prisma della realtà, e non della sola realtà percepita. Raccontare la Chiesa vera è allora la sfida per i mezzi di comunicazione di oggi. I quali sono chiamati a dare profondità al dibattito, spiegare in che modo questo coinvolge anche la vita dei fedeli. Ad andare oltre le polarizzazioni. Ad andare in profondità, rischiando di essere anche pedanti, ma precisi e corretti. Ad osservare la realtà attraverso la lente dell’umiltà.

Un lettore attento ora dovrebbe andare a scorrere le pagine centrali del libro di Grana, cliccare su tutti i siti di informazione religiosa che vi sono censiti, e valorizzare gli articoli (ce ne sono sempre) che fanno questo lavoro di analisi e di informazione. Lo dovrebbero fare anche gli uomini di Chiesa. Perché l’impressione finale è che da una parte gli uomini di Chiesa hanno sviluppato una certa diffidenza nei confronti dei mezzi di comunicazione, lasciando il campo a quanti – all’interno della Chiesa stessa – hanno utilizzato i media per fini personali, più che per aiutare a diffondere la verità. Dall’altra parte, è che la comunicazione istituzionale della Chiesa ha dei problemi generali che non saranno risolti dalla maggiore o minore mediaticità di un Papa, o dal modo semplice o complicato in cui rende il messaggio. Forse per la prima volta nella storia, la Chiesa si trova a rincorrere la velocità dei mezzi di comunicazione. Ma il motivo della rincorsa si trova proprio nei messaggi per la Giornata Mondiale della Comunicazione Sociale di Benedetto XVI, in appendice nel volume. Nei messaggi, nessun medium è demonizzato. Tutti possono concorrere alla promozione della verità. Ma, perché questo avvenga, c’è bisogno di una profonda formazione umana. Forse è il momento che tutti facciamo un passo indietro e osserviamo il punto in cui siamo arrivati. Sappiamo comunicare la Chiesa? Riusciamo a cogliere quello che la Chiesa vuole dire? E – visto dall’altra prospettiva – la Chiesa riesce davvero a comunicarsi?

Per saperne di più l’appuntamento è a Napoli il 4 maggio alle ore 11.00 nella sede dell’Emeroteca Tucci di Napoli. Intervengono i giornalisti Antonello Perillo (caporedattore centrale Tgr Campania), Paola Saluzzi (Sky Tg24) e Angelo Scelzo (vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede).

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