Finalmente un Trattato sul Commercio delle Armi. Ma sarà efficace e credibile, come ha chiesto il Vaticano?

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La Santa Sede si era battuta per sul trattato del commercio delle Armi “efficace e credibile”. Ma quello che è stato votato a maggioranza all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York ieri rischia di essere solo “una foglia di fico”, sebbene si tratti di un risultato storico atteso per sette anni. Per la prima volta, c’è un trattato internazionale che regolamenta il commercio delle armi, e non si può che esserne contenti. Ma dà da riflettere il peso dei Paesi astenuti (23, tra cui la Russia e l’India e una manciata di Paesi Latino Americani), oltre ai tre Paesi contrari che hanno fatto saltare l’accordo definitivo già al termine della negoziazione lo scorso 28 marzo (Iran, Corea del Nord e Siria), dove era necessaria l’unanimità dei presenti. La Santa Sede, Osservatore Permanente e tra i principali promotori di un trattato sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty, abbreviato ATT), per ora non ha commentato il risultato.

 

Era comunque ovvio che non sarebbe potuto essere fino in fondo quello che si auspicava. Già lo scorso anno, all’ultima negoziazione fallita, la Santa Sede non si era potuta presentare all’Onu non con lo status di Osservatore Permanente, ma con lo status di Paese non riconosciuto, travolta dalle polemiche che hanno riguardato la presenza della Palestina nell’assise. La Palestina è osservatore all’Onu, come la Santa Sede. Ma il fatto che fosse diventato Stato membro dell’UNESCO ha creato non poche frizioni. E solo la partecipazione degli osservatori permanenti come Stati non riconosciuti ha sedato le polemiche.

E da quando lo Stato palestinese è stato riconosciuto, ecco che una certa ostilità da parte della comunità internazionale nei confronti della Santa Sede è cresciuta, nonostante le posizioni diplomatiche non siano più tutte sbilanciate verso la Palestina come erano invece  ai tempi della Segreteria di Stato di Angelo Sodano.

Eppure, la Santa Sede è stata tra le più attive nel promuovere la possibilità di un trattato, anche se ha sempre tenuto a precisare che un trattato sarebbe solo la scelta di un “male minore”, perché già parlare di un trattato implica il fatto che si stanno considerando le armi come un oggetto di commercio. Cosa che per la Santa Sede non possono essere, né saranno mai.

Il principio fondante del trattato è che ogni paese deve valutare, prima di ogni transazione, se le armi vendute rischiano di essere utilizzate da chi le acquista per aggirare un embargo internazionale, per commettere “violazioni gravi” dei diritti umani o per essere girate a gruppi terroristici o criminali. Il trattato non avrà vincoli coercitivi, ma favorirà la trasparenza su decisioni e numeri e dunque una maggiore possibilità di controllo dell’opinione pubblica sulle scelte prese dai singoli governi chiamati a riferire ogni anno ai rispettivi parlamenti.

Il trattato aveva ricevuto diverse obiezioni, tanto che addirittura negli ambienti diplomatici vaticani continuavano a pensare, ancora nella mattinata di ieri, che difficilmente il testo sarebbe passato.

Ma la campagna di lobbying portata avanti da Usa, Gran Bretagna e Francia, ma anche da organizzazioni non governative come Control Arms, e sostenuta da molte nazioni africane convinte che a lungo andare il trattato taglierà la vendita delle armi,  ha fatto sì che la maggioranza dei Paesi in Assemblea votassero a favore del Trattato. Ora ogni Stato sarà libero di ratificarlo, a partire dal prossimo giugno, ed entrerà in vigore solo a partire dalla cinquantesima ratifica.

Eppure, sono state diverse le nazioni che hanno obiettato che il Trattato, così come era stato delineato, era troppo sbilanciato in favore degli esportatori, dato che permette loro di dare giudizi soggettivi su quali siano le linee guida umanitarie. Così, hanno accusato in corso di dibattito diverse nazioni, tra le quali Cuba, Nicaragua e Siria, il trattato potrebbe essere abusato in futuro come un mezzo per fomentare pressioni politiche ingiuste.

C’è da registrare anche la posizione dell’India.

“Dal principio del processo per un trattato sul Commercio delle Armi – ha sostenuto in assemblea Sujata Mehta, ambasciatore d’India presso le Nazioni Unite – l’India ha sempre sostenuto che questo trattato dovesse avere un impatto reale sul traffico illecito delle armi convenzionali e il loro uso illecito, effettuato specialmente da terroristi e da altri attori non autorizzati e non stati fuori legge. L’India ha anche sottolineato fortemente che il trattato dovrebbe assicurare un equilibrio di obblighi da seguire tra gli Stati esportatori e gli Stati importatori. Tuttavia, la bozza del trattato annessa alla risoluzione è debole riguardo il terrorismo e sui gli attori non statali e queste preoccupazioni non sono nemmeno menzionate nelle specifiche proibizioni del Tratto. In più, l’India non può accettare che il Trattato sia usato come uno strumento nelle mani degli Stati esportatori per esercitare una forza maggiore contro gli Stati importatori senza conseguenze”.

Quale sarà l’impatto che il trattato potrà avere sul commercio di armi convenzionali – e in quanto tempo – è tutto da vedere. Secondo il rapporto 2012 dell’Istituto di ricerca per la pace di Stoccolma, gli interessi del commercio mondiale delle armi sono enormi; un giro di affari pari a 1.740 miliardi di dollari, il 2,5% del prodotto interno lordo globale. Sei i Paesi che gestiscono il commercio, in testa gli Stati Uniti, seguiti da Russia, Germania, Gran Bretagna, Cina e Francia.

Più che guardare alle questioni economiche, Francis Chullikat, osservatore permanente presso le Nazioni Unite, ha chiesto di ripensare tutta la regolamentazione mettendo al centro la persona umana. Nel suo intervento all’ultima negoziazione, Chullikat aveva chiesto restrizioni al trasferimento di armi nei Paesi dove queste vengono usate contro la popolazione civile in aperta violazione dei diritti umani e delle norme concordate a livello internazionale umanitario e aveva ribadito la necessità di proteggere le donne, gli uomini, i bambini, le famiglie, i disabili, gli anziani, i migranti, i rifugiati, gli sfollati interni, le minoranze etniche e religiose.

La Santa Sede ha portato avanti un lavoro diplomatico ad ampio raggio, impegnandosi affinché nel Trattato fossero inclusi riferimenti ad una “coscientizzazione” dell’umanità, in modo da portare ad un disarmo integrale, e – più praticamente – perché il Trattato non riguardasse solo le sette categorie di armi convenzionali inserite nel registro ONU delle armi, ma che riguardasse anche le armi leggere e di piccolo calibro.

Ci sono, in fondo, due rischi. Il primo rischio riguarda il fatto che gli Stati più sviluppati tendano a considerare le armi più sofisticate, cosiddette “intelligenti”, compatibili con le norme su disarmo e controllo delle armi , o con il diritto internazionale umanitario. Questo porterebbe al fatto che le armi degli Stati meno sviluppati, meno sofisticate, sarebbero contrarie alle norme giuridiche, e quindi illecite. Il secondo rischio riguarda la possibile realizzazione di armi biologiche geneticamente modificate, o di applicazioni militari di biotecnologia.

Era uno sforzo diplomatico che andava al di fuori dagli aspetti “commerciali” e si concentrava sulla necessità di mantenere una serie di equilibri tra gli Stati. Scoraggiare la guerra, per arrivare al disarmo dei cuori, e conseguentemente al disarmo integrale: era questo l’obiettivo della Santa Sede, che aveva messo in campo anche la possibilità di non concedere brevetti alle invenzioni delle armi, considerando che un articolo dell’accordo internazionale che regola la proprietà intellettuale (i cosiddetti TRIPs) prevedeva la possibilità di non concedere il brevetto per le invenzioni dannose per l’umanità. Un modo, questo, per depotenziare la stessa convenienza economica della produzione e invenzione di armi.

Con la sua posizione, la Santa Sede ha dato supporto e voce internazionale anche a tutta quella diplomazia parallela che – fuori dalle varie conferenze per il disarmo – aveva raggiunto grandi risultati. Due esempi su tutti: la Convenzione delle mine antipersona e la Convenzione delle munizioni a grappolo. Ma si è adoperata in favore del trattato anche la diplomazia delle religioni, la cosiddetta “track two diplomacy”. In passato, le conferenze episcopali di Scozia, Galles e Inghilterra avevano avuto un ruolo decisivo affinché il Regno Unite non rinnovasse il sistema nucleare Trident.

Nel corso dei vari round di trattative, la Conferenza Mondiale delle Chiese si è distinta per un attivismo costante, fatto di dichiarazioni congiunte dei leader di tutte le Chiese cristiane facenti parte della sigla e della richiesta di mantenere nel trattato parti fondamentali come il riferimento all’assistenza delle vittime.

Il diritto delle vittime all’assistenza fu una grande vittoria della diplomazia della Santa Sede, che lo fece inserire nella Convenzione delle munizioni a grappolo nel 2008: era la prima volta che un tale diritto veniva incluso in una convenzione sulle armi.

La Santa Sede, ovviamente, proseguirà il suo sforzo diplomatico, puntando al disarmo integrale. D’altronde, Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, in un recente editoriale su Radio Vaticana ha affermato che “la pace nasce nel cuore, ma sarà più facile raggiungerla se avremo meno armi in mano”.

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