Il carcere: luogo ricco di umanità e casa della carità
“Di solito in carcere si sta male. Sporcizia è la parola che meglio riassume la condizione di vita in quel luogo”. Così don Luciano Gambino, giovane sacerdote piemontese collaboratore parrocchiale ad Orbassano, introduce la sua attività di direttore di zona per l’agenzia formativa CFPP Casa di Carità Onlus che si occupa di orientamento, formazione professionale e inserimento socio-lavorativo di detenuti ed ex detenuti (www.cfpp.it).
Don Luciano organizza i corsi nel carcere Le Vallete di Torino e in quello di Ivrea: un impegno che lo porta quotidianamente ad incontrare e riscoprire un luogo ricco di umanità…
Chi sono i detenuti? Come descrivere l’ambiente in cui vivono?
“Non sono bestie allo zoo ma persone che hanno sbagliato: è giusto che paghino per quello che han fatto, ma restano persone. Oggi è molto facile finire in carcere, a volte basta una firma sbagliata. Spesso si sente dire che i detenuti in carcere vivono bene: non è così. Sporcizia è la parola che mi viene in mente per descrivere quel luogo. Ma il carcere è anche un luogo ricco di umanità perché ci vive chi ha toccato il fondo. Di sicuro, lo spettacolo più brutto è vedere bambini piccoli che fanno la coda e vengono perquisiti per andare a visitare il genitore ed è ancora peggio per quelli che vivono dentro il carcere, anche se per loro le suore vincenziane hanno aperto un asilo…”.
Qualcuno può chiedersi perché ci si occupi della “feccia” della società…
“La risposta è semplice, se si crede: in questo si mette in pratica il Vangelo, così come insegna Gesù con il centurione o con i lebbrosi. Gesù trasforma nell’incontro. Anche nelle persone che vivono un’esperienza degradante c’è la possibilità di rinascere, c’è un barlume di luce”.
Cosa spinge i detenuti a frequentare dei corsi di formazione e quali sono i criteri di partecipazione?
“Ci sono diversi filtri per essere ammessi ai corsi: prima di tutto la questione sicurezza e poi le indicazioni degli educatori; gli interessati devono sostenere un colloquio iniziale, possedere la licenza media e avere volontà sincera. A volte possono essere mossi anche semplicemente dal non stare in cella ma poco per volta si valuta il grado d’interesse. Per molti, il partecipare ai corsi rappresenta una sfida per dimostrare ai parenti e a se stessi di riuscire a fare qualcosa di buono e di potersi reintegrare una volta usciti dal carcere; purtroppo però non è così per tutti, ad esempio i tossicodipendenti che sono dentro per spaccio sono meno affidabili e costanti”.
Quali corsi attuate e come vengono finanziati?
“Ogni anno ne vengono aperti circa 50, la cui durata varia tra le 50 e 1.200 ore. I corsi per operatori agricoli e giardinieri sono i più gettonati perché si sta all’aria aperta e ci si muove; i risultati sono anche incoraggianti se si pensa che ad esempio a novembre distribuiscono circa 10 – 11mila grisantemi ai comuni. Corsi di grafica, taglio e cucito, falegnameria e cucina. Logicamente sono molto richiesti i corsi che offrono maggiori sbocchi lavorativi, come quello per manutentori e installatori di impianti termici e solari. Al termine dell’anno i detenuti devono sostenere un esame con una commissione esterna. I finanziamenti arrivano dal Fondo Sociale Europeo che destina una somma alla Regione e questa a sua volta li distribuisce alle Province. Prima avevamo un interlocutore solo, la Regione, ora dobbiamo fare più riunioni e quindi ne consegue maggiore burocrazia. Arrivano fondi anche da altri enti e Fondazioni ed in minima parte pure dagli uffici diocesani Pastorale Migranti e Pastorale Sociale del Lavoro”.
Quali possibilità di lavoro ci sono al termine della detenzione?
“In Italia ci sono ampi sgravi fiscali per le ditte che assumono ex detenuti. Un ufficio si occupa di far incontrare le domande con le offerte, anche se poi possono nascere problemi correlati come permessi di soggiorno e situazione abitativa. L’inserimento nel mondo del lavoro dipende da vari fattori, tra cui la volontà di accontentarsi di uno stipendio basso all’inizio”.
Che rapporto hai con i detenuti?
“So che spesso vengono a messa nella mia parrocchia mogli e figli di detenuti per conoscermi, qualcuno mi chiede piccole cortesie e nel limite del legale cerco di soddisfarle, dalla telefonata ad un parente al portare un libro. Sembrano cose piccole, ma per chi è in difficoltà significa molto. All’inizio pensavo che tanti mi mandassero a stendere, invece in carcere c’è molto più rispetto per la figura del prete di quanto non ce ne sia fuori. Per loro è una persona che ha fatto una scelta. Mi vogliono bene, anche i musulmani e chi non frequenta corsi o partecipa alle funzioni perché capisce che sei li per lui. Si instaurano bei rapporti di amicizia: è capitato che mi preparassero la festa di Natale con la torta e solo dopo scoprii che l’avevano cucinata di notte sul fornelletto in cella. Un anno, ho tenuto un corso nel carcere di Saluzzo a persone che godevano dell’articolo 21 per la semilibertà: per loro ero diventato padre, amico e fratello. Sono esperienze commoventi”.
Don Luciano è inarrestabile nel raccontare il suo lavoro e subito, dalle parole e dagli occhi, si percepisce come la sua sia una vera missione che va ben oltre il fare. Non nasconde le difficoltà che trasuda il carcere sia per chi lo vive sia per chi lo visita un momento, ma l’ascolto gli ha insegnato a leggere tra le righe delle storie personali. E conclude la sua testimonianza con una frase che colma il silenzio di riflessioni: “Dov’è carità e amore, li c’è Dio, recita un canto: è vero! Se lo cantiamo dobbiamo crederci e metterlo in pratica. Cristo vive nella carità”.