Da Celestino V a Benedetto XVI: atto di viltade o di coraggio?

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“ Colui che fece per viltade il gran rifiuto”. Cosi disse Dante di quell’anima nel canto terzo dell’Inferno, dove sono puniti gli ignavi. Già i primi commentatori della Divina Commedia indicarono espressamente in quell’ombra Pietro da Morrone, che il 5 luglio del 1294 un conclave di 11 cardinali riuniti a Perugia elesse Papa e assunse il nome di Celestino V: incoronato il 29 agosto successivo, rinunciò al papato il 13 dicembre 1294. Celestino V come Benedetto XVI? Rinuncia o grande coraggio? Chissà cosa avrebbe pensato Dante al riguardo della Declaratio nel Concistoro ordinario pubblico dell’11 febbraio 2013, dove il pontefice ha rinunciato al ministero di Vescovo di Roma. I due papi hanno di certo in comune il fatto che lasciare un pontificato è un evento molto raro nella storia della Chiesa. Ma forse i motivi che li hanno spinti a farlo, nonostante la notevole distanza di anni, riflettendoci bene, non sono poi cosi diversi. E dare dei vili o dei “pusillanimi” a chi rinuncia a qualcosa di grande e responsabilizzante, non è mai troppo giusto. Anzi a volte il coraggio è proprio lasciare tutto e non sottostare a certe regole e poteri. Jacopo della Lana (1326) disse nei suoi commenti: Pietro da Morrone era un frate di grande penitenza che «sdegnava le baratterìe e simonie di corte» e si mise, per questo motivo, in urto con la corte pontificia.

I cardinali, non riuscendo a convincerlo con i ragionamenti che «le ricchezze mondane acquistate, usurpate e tolte» erano necessarie alla Chiesa, escogitarono l’inganno di parlargli di notte nella sua camera, fingendosi angeli inviati da Dio, per esortarlo a rinunciare al pontificato finché, «questo udito per più notti», Celestino «mise in cuore, credendo sé insufficiente essere e cattivo, di rifiutare; e così fece». Intorno agli stessi anni anche Guido da Pisa volle precisare che questi non rinunciò al pontificato per «ignavia di cuore», quanto per «conservare la sua anima nell’umiltà». Guido da Pisa ricorda ancora che Dante scriveva quando Celestino non era stato canonizzato, diversamente, a suo giudizio, non avrebbe osato mettere un santo nell’Inferno e nemmeno accusarlo d’ignavia. Quella di Celestino V non fu la prima delle rinunce al papato, siano esse storicamente accertate o meno. Già di figure di papi che sfumano nella leggenda come Clemente I, Ciriaco e Marcellino si parlò di rinuncia; seguono poi i casi di Ponziano, Cornelio e Liberio; ancora si parlò di dimissioni o di deposizione per Martino I, Benedetto V e Giovanni XVIII, fino ad arrivare alle rinunce di Benedetto IX, Gregorio VI, Pasquale II, Celestino III e Benedetto XVI .

Pietro da Morrone, sacerdote, condusse vita eremitica. Diede vita all’Ordine dei ‘Fratelli dello Spirito Santo’, denominati poi ‘Celestini’, approvato da Urbano IV, e fondò vari eremi. Uomo santo e pio si trovò di fronte ad interessi politici ed economici e a ingerenze anche di Carlo d’Angiò. Fu il primo Santo Padre ad esercitare il proprio ruolo lontano dallo Stato Pontificio, a L’Aquila, e inventò l’istituzione del Giubileo. Il suo atto più importante fu la Bolla del Perdono che elargisce l’indulgenza plenaria a tutti coloro che, confessati e pentiti dei propri peccati, si recano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio della città dell’Aquila dai vespri del 28 agosto al tramonto del 29 agosto. Un’indulgenza, cosa di non poco conto, gratuita e sottoposta al solo vincolo del pentimento personale. Da quell’atto e da 719 anni nella città dell’Aquila si celebra quindi questo antico rito religioso chiamato “Perdonanza” e questo evento, che può essere considerato precursore del Giubileo, fu istituito nel 1300 da Papa Bonifacio VIII. La sua morte è tutt’oggi avvolta nel mistero. Una fuga rocambolesca ai monti dell’Abruzzo,la fuga, la terribile prigionia nella Rocca di Fiumone e infine la morte tra gli stenti, o come sostengono alcuni studiosi dell’analisi dei suoi resti, per un grosso chiodo conficcatogli in testa. E il motivo è assolutamente ancora ignoto. L’atto originale di rinuncia di Celestino V è andato perduto: lo Stefaneschi scrive nel suo “Opus metricum” che Celestino, nel concistoro dell’8 dicembre del 1294, dichiarò di rinunciare al papato per la sua insufficienza sia fisica che dottrinale.

Forse fu giudicato troppo severamente da Dante, che ne fece più che altro nella sua Commedia, non una condanna morale, ma una condanna politica. La storia però è stata ingrata con Celestino:venne fatto passare, ma ancora oggi spesso è dipinto così, come un codardo e un incapace. Fu invece rivoluzionario e contro corrente e diede nuova forza e vitalità alla Chiesa di Roma. Il motivo vero della rinuncia è dunque riconducibile alla sua limpida condotta morale, alla volontà di non essere un servo del potere politico e al riconoscere, egli stesso, la sua incapacità di opporsi a tale organizzazione. Ricordiamo nel 2009 la visita di Benedetto XVI a L’Aquila, dove di fronte alla teca con i resti di Celestino V, il papa togliendosi il suo pallio pontifico, lo depose su quel cristallo. Chissà se Ratzinger, con quel gesto e in quel giorno lontano, già pensava alla sua decisione tanto difficile. Scelta controversa 719 anni fa, scelta che si ripropone oggi con un altro papa , in un altro tempo.

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