Il Cammino di Pietro, una raccolta di capolavori piena di sorprese
I commentatori più arditi hanno accennato al “percorso” della fede, alla bellezza come pungolo – per credenti e non – a mettersi davanti agli interrogativi ultimi, per il resto sul web rimbalzano dispacci con l’elenco di (illustri) nomi degli artisti chiamati a raccolta nella mostra “Il cammino di Pietro”, che questo pomeriggio 6 febbraio viene inaugurata dal Segretario di Stato vaticano e sarà allestita fino all’1 maggio a Castel Sant’Angelo, in occasione dell’Anno della fede. E se la presentazione alla stampa è stata sotto tono, non mancano spunti interessanti. Don Alessio è un giovane vice parroco di un piccolo paese della Carnia, amante ed esperto di arte. Con i suoi ragazzi e parrocchiani inizia ad allestire mostre, finché l’eco arriva a Roma. Al Vaticano l’onore di saperlo valorizzare: in pochi mesi ha costruito un percorso originale – sarebbe riduttivo definirlo una mostra, ben dice il titolo che si tratta di un cammino – con 37 opere da nove paesi europei, tra cui due prime assolute: “L’angelo libera Pietro dal carcere” di Luca Giordano e “Le lacrime di Pietro” del Guercino, mai esposti finora fuori dalla loro sede (il primo a Londra, il secondo a Bologna).
Altra curiosità è la sezione VI del percorso, dedicata alla “Fraternità”, in cui viene messo a fuoco il legame tra Pietro e Paolo, novelli Romolo e Remo, padri spirituali di Roma, così diversi in tutto, eppure così uniti in virtù della fede. In questa sezione le cinque opere esposte sono tutte icone dell’Oriente ortodosso. Un’idea da leggersi in chiave ecumenica, che ha ricevuto risposta positiva dalla Russia, da cui provengono quattro tavole, forse anche sotto i buoni uffici dell’ambasciatore italiano a Mosca, Antonio Zanardi Landi, che nel suo precedente ruolo di ambasciatore presso la Santa Sede ha scoperto, lanciato e sostenuto con forza l’opera di don Geretti, con cui condivide le origini friulane. E all’inaugurazione dovrebbe presenziare un rappresentante della Tret’jakov Gallery di Mosca. Il tragitto inizia con un cammino in penombra, lo stesso che quando Castel Sant’Angelo era ancora mole adriana, veniva percorso con il feretro dell’imperatore.
Del resto è proprio di fronte alla morte che più prepotentemente siamo messi di fronte alle domande ultime della vita, che non di rado dischiudono le porte della fede. E tra i chiaroscuri di un notturno di Georges de la Tour (“Pietro rinnega Cristo”) e di un’alba di Burnand (“Pietro e Giovanni corrono al sepolcro all’alba”), la “più bella della storia dell’arte” secondo il curatore, passando per due raffigurazioni delle lacrime di Pietro dopo il rinnegamento, il percorso si snoda fino a una finestra con vista su San Pietro. Il cammino di Pietro – in otto “tappe” – è volutamente colto attraverso opere in cui l’autore è riuscito a descrivere l’esperienza della fede/mancanza di fede dell’apostolo. Si tratta di una narrazione in cui i fatti non sono solo episodi, ma sono episodi in cui Pietro è colto nel dramma della fede. Un dinamismo “aiutato” anche da testi, recitati, riproduzioni grafiche, musiche (come la “Passione secondo Matteo” di J. S. Bach), luci, filmati (come il “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini).
Coincidenza. Tra le opere esposte ci sono “Gesù resuscita la figlia di Giairo” di Vasilij Polenov, e “San Pietro visita sant’Agata in carcere” di Simon Vouet. Proprio ieri la Chiesa ha ricordato sant’Agata, vergine e martire del terzo secolo, venerata sia dai cattolici sia dagli ortodossi. Dopo le torture subite in carcere (le furono strappate le mammelle), fu visitata da Pietro, che sanò le sue ferite. E proprio oggi, il Vangelo del giorno racconta l’episodio della figlia di Giairo, il capo della sinagoga a cui Gesù risuscita la figlia (il famoso “Talita kum”)