Un Paese sempre in cerca di un Cesare da pugnalare. Il draghismo, nome attuale del cesarismo
Questa mattina, una delle prime cose che ho visto, era un Tweet di Azzurra Barbuto: “Draghi sarebbe applaudito pure se dicesse: ‘Oggi è venerdì’. Qualsiasi ovvietà, pronunciata da Draghi, si trasforma per i suoi adepti di destra e sinistra in Vangelo. Non vi sembra un tantino di esagerare? Siete ridicoli”. Poi, subito dopo e restando in tema, l’articolo su Libero quotidiano dell’amico e collega Renato Farina, che parla di Draghi e Conte, ma non solo: “Parliamo di Mario Draghi, e del fenomeno del cesarismo che è una brutta malattia di molti popoli, ma che in Italia è endemica. Ne siamo appena usciti. Più che da un Cesare siamo reduci da un Cesarino, un mezzo Cesare. Parliamo – ovvio – di Giuseppe Conte”. Buona lettura.
Quando abbiamo un capo forte poi preferiamo abbatterlo
di Renato Farina
Libero, 19 febbraio 2021
Italia siamo e Italia saremo, siamo in un’epoca nuova, ma non così tanto da cancellare il carattere nazionale. E così, come da ricorsi storici, oggi abbiamo un altro Cesare, e con sollievo unanime, ci siamo messi nelle mani di un uomo trasformato in mito. Antiche letture avvertono: un’ora, un mese, un anno (non più un ventennio: il tempo fila a velocità altissima), e il busto marmoreo ruzzola nella polvere.
Ma certo che parliamo di Mario Draghi, e del fenomeno del cesarismo che è una brutta malattia di molti popoli, ma che in Italia è endemica. Ne siamo appena usciti. Più che da un Cesare siamo reduci da un Cesarino, un mezzo Cesare. Parliamo – ovvio – di Giuseppe Conte. A sua volta innalzato e poi eliminato da Matteo Renzi, un altro che per un po’ aveva svolto lo stesso ruolo in commedia. Ricordate? Pareva destinato a un decennio di gloria senza rivali, ma scivolò convinto della stabilità dei sentimenti popolari. Puntò alla propria consacrazione con un plebiscito, mal gliene incolse (il referendum del 2014), ma si è vendicato mica male.
Ci sono fior di studiosi che hanno approfondito il fenomeno del “cesarismo”. Al tempo di Napoleone il paragone con Giulio Cesare era ritenuto un complimento, e i cesaristi erano felici di essere considerati tali. Compagni e camerati, comunisti e fascisti, fratelli tutti in questa ideologia segretata: il ritenere la democrazia e i suoi parlamenti un passaggio appena tollerato per arrivare infine ad un regime con una cuspide vuoi rossa vuoi nera, ma tutti gli altri osannanti alla base della piramide.
Max Weber (1864-1920), prussiano, gran studioso della nascita del capitalismo e del sistema liberale che riteneva derivati dall’etica protestante, era convinto che questa pulsione dittatoriale fosse il terminale forse inevitabile delle democrazie di massa. Prima si vota, poi si finisce con i plebisciti, e si insedia un Cesare. Prevedeva che gli Stati Uniti d’America sarebbero arrivati per primi a questo stadio deplorevole. Ha sbagliato continente. Antonio Gramsci (1891-1937), sardo, marxista e comunista anomalo, intuì e mise sulla carta, nei suoi Quaderni dal carcere, la tipizzazione italiana di questa sindrome.
Relativismo morale
Spiegò che il cesarismo (un uomo solo al comando) è un fenomeno inevitabile quando «il vecchio muore e il nuovo non può nascere». La natura umana, e quella dei popoli, non sopporta a lungo la liquefazione delle certezze. L’istinto popolare esplode contro il marasma delle democrazie basate sulla delega, e guarda con favore il sorgere di chi si pone come autocrate, ancoraggio forte sulla roccia, e consulta sì le masse ma con plebisciti.
Vi aspettereste una condanna vibrata da parte di Gramsci del cesarismo. Niente da fare. Dipende. La morale è comunista e machiavellica. Il dispotismo può essere buono o cattivo. Esso è buono se aiuta le forze progressiste (in passato la borghesia, poi il proletariato) a prendere il potere; cattivo se favorisce le forze reazionarie. In soldoni. Se il cesarismo giova al potere della sinistra è una cosa meravigliosa; in caso contrario è un obbrobrio da abbattere. È il classico relativismo morale. Ed è esattamente quello che accompagna gli anni recenti della nostra vita italiana.
Silvio Berlusconi fu accusato di cesarismo. La paroletta circolò nei circoli iniziatici dell’intellighenzia progressista che la sapeva lunga. Nelle casematte della magistratura, del giornalismo e della sinistra cattolica e laica si covò il tentativo di rovesciarlo per via non proprio democratica. Non per cancellare il cesarismo, ma per cambiargli di segno, sostituendo il Cavaliere di Arcore con il Professore di Bologna, cioè Romano Prodi, con il suo bofonchiare magico. Alla caduta sua e poi di D’Alema in vista di elezioni che vedevano favorito Silvio, apparve il famoso manifesto dei due cognomi, nel senso che quasi tutti i primi firmatari ne avevano due. salvo Norberto Bobbio (nessuno è perfetto). C’erano Paolo Sylos Labini, Alessandro Galante Garrone, Alessandro Pizzo-Russo e altre migliaia di antifascisti d’avanguardia felici di mescolarsi a simili maestri. Era il 2001. I guru della sinistra definirono il voto di quell’anno come l’ultimo che ci sarebbe stato in Italia, qualora avesse vinto Berlusconi. Ah il cesarismo di Berlusconi, che orrore. Misero in bocca questa categoria gramsciana persino a un Gianfranco Fini, che nel 2008 usò questo lessico attingendolo a un libro di Pino Pisicchio per rinnegare l’uomo che l’aveva sdoganato nel 1993. Nel caso del Cavaliere il cesarismo era il diavolo. Caduto lui nel dicembre del 2011, il cesarismo è diventato salvifico.
Prima Mario Monti, portato a spalla da Napolitano, Merkel e dal buon Bersani. Durò poco. Prima osannato. Poi trattato come un Balanzone impagliato. Intanto ne veniva su un altro di Cesare, ma non di quel tipo. Si trattava di Beppe Grillo, perfetto cesarista secondo il modello prima esposto di Max Weber (che Di Maio confonde con l’inventore del Web: no, non è lui). C’è stato l’intermezzo di Matteo Renzi, ripudiato dalla sinistra, e perciò chiamato bullo. E alla fine la stessa banda ha rifilato al popolo quel Cesarino incredibile di Conte, del quale si è arrivati – prima di smutandarlo – a elogiare “la colonia al limone” (Francesco Merlo).
Consigli al Premier
Ed ecco Mario Draghi, preparato da un duello all’ultima forchettata nelle gengive per stabilire chi avrebbe avuto la precedenza nello stendere il tappeto più bello e più rosso sotto i suoi piedi.
C’è bisogno di raccontare i peana di cui è stato sommerso il suo nome al lieto annuncio? Volentieri il sottoscritto si associa nella stima e nella considerazione per l’uomo e le sue virtù. Tra le quali c’è senz’altro la perfetta consapevolezza dell’ipocrisia che lo circonda. Già il suo Bruto si sta allenando con dei manichini, e Draghi lo sa. Siamo sicuri sia pienamente avvertito del vezzo italiano di innalzare statue equestri all’eroe voluto dal destino, e poi abbatterle quando il condottiero, come un Gattamelata, si è appena abituato alla cavalcatura trionfale. Però sappiamo anche che non esiste nessuno vaccinato alla lusinga della devozione sapientemente indotta nel popolo dalla furbizia delle classi dirigenti, che non vedono l’ora di scaricare su un eroe intemerato la propria incapacità di assumersi la responsabilità del fare e del rischiare.
Il nome nuovo del cesarismo, diverso da tutte le forme precedenti, è il draghismo. Il quale serpeggia serpeggia tentatore nelle prime scelte di Supermario. Lo combatta, signor Premier,se vuole fare del bene a sé stesso e all’Italia. Tranne qualche bel caso si è contornato da ministri la cui incompetenza saccente è stata timbrata dalla storia della fallimentare lotta al Covid-19. Sbaglia a far così. E’ un atto di superbia dragoniana. E’ un modo per dire: non preoccupatevi, tanto ci penso io. La invitiamo a sottovalutarsi un po’. Anche lei, signor Premier, sarà misurato dalle opere e non dalle pose di commossa e sincera dedizione alla patria. Scenda in fretta dal gigantesco cavallo dove l’hanno imbragata.