Orrori letterari. Ovvero il gusto (perduto) delle porte chiuse con lentezza
Pochi giorni fa, in una libreria del centro di Roma: prendiamo in mano e sfogliamo uno degli ultimi best sellers tanto reclamizzati, , di James Renner, edito da Einaudi. Ci hanno promesso cose favolose, per chi ama il genere thriller mescolato all’horror, hanno tirato in ballo il nume tutelare Stephen King, maestro indiscusso del genere e altri mirabolanti confronti. Invogliati, cominciamo a sfogliare il libro, a caso e a caso leggiamo in una pagina – la citazione è a memoria e quindi incompleta e non puntuale – frasi del tipo e altre descrizioni ben più vivide. Chiudiamo il libro e decidiamo di non comprarlo per nessun motivo al mondo. Perché sconvolti dalle scene violente? Perché moralisticamente offesi da espliciti riferimenti sessuali? No, semplicemente perché una narrazione che ricorra costantemente a questi riferimenti, a queste descrizioni minuziose, all’abbondanza di turpiloquio è noiosa, debole, in una semplice parola, brutta.
In pochi hanno il coraggio di dire appunto semplicemente che siamo soffocati da tanta letteratura brutta, incapace di assolvere alla propria pretesa estetica e dunque sempre ricorrente alla sovrabbondanza di descrizioni sessuali, spesso del tutto irrealistiche, morbose, violente. Con la scusa che l’arte deve essere mimetica, ossia deve ricreare la realtà. A parte che qui si aprirebbe la millenaria questione intorno al rapporto della creazione artistica con la realtà e che noi, sbrigativamente e sommariamente, vorremmo riassumere in questo modo: se io voglio descrivere una condizione sociale, un luogo, una comunità, un periodo storico, una problematica sociale allora posso girare un documentario, scrivere un saggio o un libro di memorie. Creare è un atto diverso, come indica il termine stesso.
Perciò un romanzo, un racconto, un film, una poesia dovrebbero essere il risultato di un “fare artistico” unico, personale, riconoscibile. E rispondere ad un canone estetico. Charles Dickens, Fedor Dostoevskij, Guy de Maupassant, solo per citare qualche esempio illustre, hanno spesso e volentieri raccontato realtà estreme, di miseria, di violenza, di depravazione, ma nessuna di queste loro pagine suscita ribrezzo, stanchezza, voglia di saltarle a pie’ pari. Bella forza, si potrebbe facilmente obiettare, scrivevano nell’Ottocento, il linguaggio era diverso, certi argomenti erano tabù…
Beh, anche allora si era inondati di libercoli pruriginosi, di pubblicazioni oscene, di romanzetti che suscitavano pruderie varie. Ma le si classificava per quel che erano, non le si magnificava come prodotti artistici. Il vero, grande scrittore non aveva e non ha bisogno di usare un linguaggio “basso” per raffigurare una certa realtà, non ha bisogno di descrivere accuratamente un atto sessuale, o una violenza, per dare il senso di quanto sta accadendo nella narrazione. E se vogliamo ricorrere a un esempio visivo, riferendoci al cinema, quando in una scena di alcuni capolavori si vede la coppia protagonista avanzare verso la camera da letto e chiudere la porta, il potere evocativo, misterioso e insieme ammaliante della scena, la sua carica sensuale è infinitamente più forte di qualsiasi altra scena di sesso spinto che oggi ci viene propinato in ogni salsa.
Lo sono quelle porte chiuse con lentezza, quelle frasi accennate, in cui ogni parola ha un peso preciso: ne possiamo citarne una per tutte, la famosissima frase manzoniana , riferita alla vicenda di sesso e di morte della monaca di Monza. In quel pugno di parole c’è tutto, tutto il male, tutto l’abisso spalancato in cui un essere umano può precipitare. E dal quale, se avesse voluto, avrebbe potuto riemergere.