La Sagrada Familia, una lode a Dio. E un libro che spiega come dovrebbero esserlo tutte le chiese

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“Una lode a Dio”. Così Benedetto XVI ha definito la Sagrada Familia. Una chiesa monumentale, in costruzione da circa 128 anni, che è sopravvissuta al suo geniale inventore, l’architetto catalano Andoni Gaudì, morto investito da un tram mentre il suo capolavoro era ancora in costruzione. E “una lode  a Dio” devono essere tutte le Chiese. Ci sono dei precisi canoni liturgici da rispettare. E monsignor Tiziano Ghirelli, responsabile dell’ufficio diocesano per i Beni Culturali della diocesi  di Reggio Emilia ha voluto dedicare un intero volume all’analisi degli edifici ecclesiali. Con l’obiettivo – spiega – di “Tentare di capire se e come gli spazi sacri e i loro complementi rispondano alle istanze che, a partire dalla Sacrosanctum Concilium, sono richieste per favorire una ‘actuosa participatio’ dell’intera comunità cristiana al fare liturgico” Il libro, Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero, è edito dalla Libreria Editrice Vaticana.

 

E il fatto che alla presentazione sia presente anche il cardinal Lluìs Martìnez Sistach, arcivescovo di Barcellona, è significativo. Anche perché la Sagrada Familia, la “prima delle cattedrali gotiche di una nuova era” come amava definirla Gaudì, è un’opera densa, perché piena di simboli. L’esatto contrario di molte cattedrali moderne, spoglie, geometriche, nelle quali a malapena si riconosce l’altare. Tanto che c’è chi ipotizza che è proprio nella freddezza di queste cattedrali, nelle loro spigolature, che un sacerdote può perdere la fede in Dio.

Ghirelli non è un purista dell’arte sacra. Ne è un esempio il controverso restauro della cattedrale di Reggio Emilia – che grande spazio ha nel libro – avvenuto sotto i suoi auspici. Il restauro ha creato molte polemiche sui giornali, a partire proprio dalla foggia della cattedra episcopale di arte povera in legno e ferro dello scultore di Kounellis, smontata per “motivi di spazio” quando a Reggio Emilia si è insediato il vescovo Massimo Camisasca. Una sconfessione per l’opera di restauro, che presentava altre scelte “artistiche” che hanno destato polemica?

In una intervista al Sir dello scorso novembre, Ghirelli aveva parlato proprio dei problemi della recezione degli spazi sacri da parte delle persone. “Intorno a noi – aveva detto – si registrano risultati che creano una certa insoddisfazione e in non pochi casi lasciano perlomeno perplessi, soprattutto perché rivelano – contrariamente alle indicazioni date dai vescovi italiani, e non solo – una mancanza di collegamento di competenze. Spesso, infatti, l’architetto e il progettista vengono lasciati soli, perché non c’è una presenza liturgica, oppure c’è l’architetto e il liturgista ma non l’artista. Si fa fatica, insomma, ad andare nella direzione della complementarità dei ruoli, e questo metodo di partecipazione può compromettere i risultati. In positivo, però, tutto ciò può essere uno sprone – sull’esempio di quanto, concretamente, affermava e realizzava Paolo VI – a recuperare lo spirito di quella grande committenza ecclesiale che nei secoli ha fatto della Chiesa una componente essenziale dell’evolversi della storia dell’arte. Il rapporto tra la Chiesa e gli artisti – come si evince dallo splendido discorso pronunciato da papa Montini nel 1964, nella Cappella Sistina – è essenziale, anche per sollecitare gli artisti a produrre opere non da destinare a un museo, ma da inserire e utilizzare in un contesto liturgico”.

Di questo si trova esempio anche nella Sagrada Familia. Ad esempio, Etsuro Sotoo è uno scultore giapponese  che da oltre trent’anni si occupa delle statue dellafacciata della natività della Sagrada Familia, ed è soprattutto membro della Junta Constructora, l’equipe di artisti che in collaborazione con architetti, designer e ingegneri dirige i lavori dell’eterno cantiere modernista, e nel suo piccolo studio non lontano dalla chiesa fa nascere le idee per i modelli che poi verranno consegnati ad assistenti perché li realizzino coprendoli di maiolica in piccole tessere. E il fatto che sia un artista giapponese, contemporaneo, a far parte della Junta fa capire come alcuni concetti riguardanti i rapporti tra la Chiesa e l’arte non sono mutati con la contemporaneità. C’è sempre la necessità di un immaginario che si misuri con l’eternità e la tradizione deve si parlare all’uomo, evolversi, ma deve anche fare i conti con la liturgia.

Lo sa bene Jordi Faulì, da poco nominato architetto della Sagrada Familia. La nomina del quinto architetto capo della celebre cattedrale di Barcellona ancora incompiuta è forse il segnale di come tradizione e modernità vadano di pari passo nella costruzione di questa cattedrale. Come in una cattedrale medioevale, dove nessuno ricorda i nomi dei costruttori,  per essere architetto della Sagrada Familia bisogna dimenticarsi di se stessi e seguire il progetto che un altro ha iniziato. Al contrario della tendenza attuale, purtroppo presente anche all’interno della Chiesa,  dove è l’architetto stella che impone il “suo” stile anche sopra i valori simbolici propri della tradizione cristiana, Jordi Faulí è un architetto che in continuità con quattro generazioni costruisce la Sagrada Familia. Dalla prima pietra posata nel 1882 ad oggi, il progetto di Gaudì è rimasto intatto. E la speranza di Faulì è di terminare la costruzione della cattedrale nel 2026, per celebrare i cento anni della morte di Gaudì.

In una intervista a Radio Vaticana, Faulì stesso ha sottolineato il valore della continuità dell’opera. “E’ molto importante la continuità – ha detto – e il segno della continuità è stato sempre presente nella storia della Sagrada Familia. La stessa continuità che si ha nella costruzione di una qualsiasi cattedrale, dove ammiriamo l’edificio terminato, ma del quale non ci ricordiamo quali siano stati gli architetti, perché questo non è necessario. Qui, nella Sagrada Familia, c’è l’architetto ed è Andoni Gaudì. Dopo la sua morte, c’è sempre stata una continuità con lui su diversi piani: anzitutto la continuità nello studio, nelle indagini e nella fedeltà al progetto di Gaudì. In secondo luogo, la continuità nelle generazioni, nelle persone. Nella Sagrada Familia, hanno sempre lavorato architetti del secolo di Gaudì, architetti ormai di quinta generazione, e la conoscenza è stata trasmessa da una generazione a quella successiva”.

E ripercorriamola, questa cattedrale, per comprenderne la simbologia. Tre sono i libri dai quali Gaudì ha tratto ispirazione per la sua monumentale opera: il libro della natura, il libro della Sacra Scrittura e il libro della Liturgia. Da lì è partito per il suo intreccio architettonico, unendo realtà del mondo e storia della salvezza. C’è molto di liturgico nell’opera di Gaudì, molta attenzione per il dettaglio sacro, per il modo in cui la narrazione biblica viene resa presente nella liturgia. La Sagrada Familia è una chiesa sorta al centro di un chiostro e concepita come un luogo all’interno di un giardino (il Paradiso terrestre) nel quale Dio e l’uomo possono parlarsi faccia a faccia. Il chiostro non è dentro, come in tutta l’arte cristiana, ma è intorno. E fuori del chiostro, il deserto.

Per Gaudì, anche Barcellona era deserto. Avanti negli anni, si fece “monaco nella città”, con una vita di una semplicità disarmante, in una casetta a ridosso del cantiere. Ma ogni giorno la Sagrada Família cresceva di nuove pietre e lui gridava alla sua città che la nuova creazione è già iniziata, che il deserto inizia a fiorire.

 

Anche dentro l’edificio sacro, ci sono pietre, alberi e vita umana:  tutta la creazione doveva convergere nella lode divina. Allo stesso tempo, portò fuori i “retabli”, per porre davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. In questo modo, attraverso l’arte, Gaudì ha superato la scissione fra coscienza umana e cristiana. Non lo ha fatto con le parole o con la liturgia, lo ha fatto con la regolarità delle pietre.

Il solo vedere a distanza la chiesa dà un forte senso di sacro, come un vero e proprio richiamo. Era nelle intenzioni di Gaudì.  Le torri campanarie sono ciò che impressiona di più e subito chi per la prima volta si accosta alla Sagrada Família. Ce ne sono quattro per ciascuna delle due facciate laterali, In tutto dovranno essere diciotto: altre quattro sulla facciata principale; altre cinque sopra la crociera centrale, con la più alta dedicata a Cristo e le altre agli evangelisti; e infine una sopra l’abside, dedicata alla Madonna. Su ogni torre sono scolpite le parole “Sanctus” e, verso la cima, “Hosanna in excelsis”. Sono le parole del canto che introduce la grande preghiera eucaristica, la liturgia della Chiesa terrena e celeste che si celebra in ogni messa.

Niente manca di senso, nella chiesa progettata da Gaudí. Che avrebbe anche voluto orientare la chiesa verso il sole che sorge. Non gli fu possibile: la Sagrada Família è sorta sull’asse nord-sud. Allora ideò due facciate laterali, quella a oriente dedicata alla Natività e quella a occidente dedicata alla Passione. Se Cristo è il “sole di giustizia” e “il giorno che il Signore ha fatto” (Salmo 118, 24), allora entrare nella basilica e partecipare alla liturgia è vivere “in” questo giorno.

Gaudí, con le due facciate sulla Natività e la Passione, interpreta anche la Chiesa come “passaggio”. Mentre il sole che è Cristo passa attraverso la Sagrada Família da oriente a occidente, dalla nascita alla morte redentrice, la città degli uomini – a cominciare da Barcellona situata prevalentemente a ovest della basilica – è chiamata a fare il cammino inverso, dalla morte alla nuova nascita.

Dalla perdita delle sue radici a nuova nascita nella fede cristiana: è il cammino che dovrebbe fare l’Europa? Forse è dalla simbologia della Sagrada Familia che si può ripartire per riempire di senso lo spazio sacro, e ritornare alle radici della fede. Un percorso che si fa anche attraverso la bellezza. È proprio attraverso la bellezza che si può aiutare la partecipazione dei fedeli. “La bellezza della liturgia – aveva detto Ghirelli – nella sua dimensione terrena, deve essere un riflesso della bellezza perfetta, assoluta, della realtà celeste. Quello che diventa molto rischioso, complicato, è che il concetto di bellezza e la sua attuazione nella pratica è assolutamente soggettivo, perché ciascuno la realizza secondo i propri canoni. Ecco perché è importante avere una forte consapevolezza del proprio limite. Quando Giacobbe, dopo la lotta con l’Angelo, dice ‘è terribile questo luogo’, non fa riferimento a un luogo di minaccia o paura, ma alla consapevolezza di chi si rende conto del suo essere assolutamente impari nei confronti di tanta grandezza”.

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