Johannes Vermeer. Un primo bilancio

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La mostra, comunque, è risultata davvero affascinante anche se non vi erano quei dipinti a cui il grande pubblico è stato fidelizzato (come la Ragazza con l’orecchino di perla o La lattaia o L’astronomo), ma ciò che c’era è risultato più che sufficiente a saziare la “fame d’arte” dei visitatori. Ed è proprio su questa fame che mi vorrei soffermare. Come ci illustra la storia dell’arte, la vicenda della pittura (e del disegno) si è oramai conclusa: dal XIII secolo alla prima metà del XX – da Giotto a Picasso – si è disegnato e dipinto (a tempera, ad olio, ad acquerello, sul muro, sul legno, sulla tela …). Poi le arti visive hanno preso un’altra direzione. Non è questo il luogo dove discuterne: ciò che voglio evidenziare è altro. Benché confinata nei musei e nelle gallerie, più o meno antiquarie, la pur morta pittura richiama ancora migliaia e migliaia di appassionati.

E la fame di pittura è sempre più vorace, analitica e attenta in ogni museo del mondo: la qualità specifica e assoluta dell’immagine dipinta è ricercata e vogliosamente fruìta da una umanità che è quotidianamente bombardata da una miriade di immagini tecnologiche, pubblicitarie e digitali. Bene, i quadri di Vermeer – e di molti suoi contemporanei – compiono esattamente questo prodigio e fanno restare incollati per lunghi minuti i visitatori di fronte a pochi metri quadri di tela. Vermeer – in un secolo in cui la pittura italiana era pervenuta al manierismo ed al barocco – rinunciò quasi del tutto (ci sono, però, alcune significative eccezioni: Vermeer era un pittore cattolico) alle simbologie religiose post-tridentine e dipinse la quotidianità e la gente comune dell’Olanda del Seicento. Ma come la dipinse? La dipinse con una accuratissima ambientazione domestica, locale, sociale. E la dipinse ponendosi da un angolo visuale assolutamente contemporaneo e contingente: non vi sono in lui veduta aerea, luce trascendente, enfasi mitologica, ma soltanto la descrizione “fotografica” della realtà.

Dico “fotografica” volendo intendere che Vermeer ritraeva le persone stando “con loro”, ad altezza di pavimento e di viso, ponendo come sfondo della figura l’ambiente concreto e non già i fondali immaginari e idealizzati della pittura di maniera o barocca. Così come fanno i fotografi di oggi quando “immortalano” un vip o l’uomo comune. Verrebbe da dire che Vermeer fu il fotografo del secolo XVII, come Canaletto lo fu del XVIII. Ma l’immagine dipinta è molto di più di quella fotografica: in essa gli spessori simbolici e le risonanze oggettuali di quanto viene raffigurato sono infiniti. Le immagini dipinte tengono l’occhio incollato per un tempo che può dilatarsi fin quasi a raggiungere il tempo dell’azione del pittore.

Si può dire che, visto Vermeer, si comprenderà meglio la pittura di un Escher  o di un Magritte? Penso di si. La fruizione distratta, su cui hanno scritto gli esteti del secondo ‘900, diventa impossibile di fronte a questi dipinti, si sente il bisogno di capire, di interpretare, di conoscere meglio. Che era proprio quanto provava l’umanità del Seicento: vissuta in una lunga età di transizione, dal tramonto del mondo medioevale all’alba della razionalità moderna.

 

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