Irene Nemirovski racconta Anton Cechov

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Le botte, le imprecazioni, il freddo, le scarpe bucate, i libri letti alla luce tremolante di una candela, i lunghi pomeriggi bui passati rintanato in un angolo di una bottega fumosa e sporca: l’infanzia di Anton Cechov, uno dei più grandi scrittori russi, dalle cui pagine sempre si sprigiona una nostalgia incontenibile quell’incanto mai più ritrovato, nella vita. Eppure la sua, di infanzia, è stata quasi tragica, contrassegnata appunto da una costante miseria, dalla presenza di un padre terribile e da un insopprimibile voglia di libertà. Questa infanzia e l’intero corso di un’esistenza difficile e logorata è stata magistralmente narrata da Irene Nemirovski e ora viene tradotta e pubblicata in Italia dalla casa editrice Castelvecchi.

Quasi ciclicamente torna il momento di occuparsi di questa straordinaria scrittrice che – lo diciamo chiaro e forte – rimane come una delle poche, vere, grandi scoperte editoriali degli ultimi anni. Anzi una riscoperta, dato che, come ormai è noto, essendo caduta nell’oblio, anzi nella dimenticanza, dopo essere stata molto famosa in Francia negli anni Venti e Trenta, e dopo la sua tragica scomparsa ad Auschwitz nel ’40, sempre in Francia è stata ripubblicata non molti anni fa e in seguito in tutto il mondo. Di lei ormai si conoscono i grandi romanzi, ma anche i piccoli capolavori come  “Il ballo”, pubblicato in Italia dalla casa editrice Adelphi. Adesso però possiamo leggere questa biografia romanzata su Cechov che è davvero commovente e che fa rifulgere il grande talento narrativo e insieme poetico della scrittrice, sempre affascinata dalla figura e dall’opera dell’autore di “Zio Vanja” e degli inarrivabili racconti.

Leggendo le pagine che la Nemirovski dedica appunto all’infanzia “senza infanzia” di Cechov si ritrovano le tracce di quella “Steppa” cecoviana che nessuno, una volta letto, riesce a dimenticare, in cui si concentrano i grandi temi della natura sublime e indifferente, dell’umanità dolente, dello stupore dello sguardo infantile, del mistero del dolore e della morte. Temi cari a Cechov, certo, ma anche alla sua “biografa”, che in Cechov vedeva un maestro, un riferimento costante. Di più, un’anima gemella. Per uno strano caso del destino, Cechov morì nel 1902, un anno prima della nascita di Irene, nel 1903, entrambi in Russia. “La vita di Cechov” si trasforma anche in un saggio sulla letteratura russa, una riflessione sui fili che legano Cechov, Tolstoj e Gorkij. Commuove anche il fatto che lei lo scrisse velocemente, durante il suo rifugio nella campagna francese, dove si era rifugiata con la famiglia dopo l’invasione nazista della Francia (Irene e suo marito erano ebrei di origine, anche se lei si era convertita al cattolicesimo).

Il senso di una fine incombente, non solo personale, ma di un intero mondo, di un’epoca, si respira nelle pagine che descrivono prima il successo inaspettato di un autore giovane e inconsapevole del proprio talento, preoccupato quasi solo di guadagnare rapidamente per la sua numerosa famiglia con gli “schizzi” e le scenette che vendeva a raffica per i giornali di Mosca. Poi arrivano gli anni della popolarità, ma anche delle delusioni, della malattia sempre più aggressiva (la tisi che porterà Cechov alla morte) e del senso di solitudine, di stanchezza, dell ‘”infinita vanità” di ogni cosa, dell’inaspettato dono dell’amore che però contiene sempre il suo peso di dolore e di incomprensione. Fino agli ultimi giorni, anzi, fino all’ultima notte.

“Una farfalla notturna”, scrive Irene, “enorme e nera entrò in camera nello stesso istante. Volava da una parere all’altra, si lanciava sulle lampade accese, ricadeva dolorosamente con le ali bruciate, e riprendeva il suo volo cieco e fatale. Poi ritrovò la finestra aperta sulla dolce notte buia e scomparve. Cechov però aveva cessato di parlare, di respirare, di vivere”.

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