Il card. Scola a Londra parla di religione, società plurale e bene comune

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Giovedì 15 novembre 2012 a Londra, l’arcivescovo di Milano e presidente della Fondazione Oasis, cardinale Angelo Scola, ha partecipato a due incontri di presentazione della fondazione stessa: in  mattinata ad un seminario a Westminster, la sede del Parlamento (House of Lords, Committee Room 4°) e nel pomeriggio ha tenuto una conferenza pubblica presso l’Heythrop College, uno dei college dell’Università di Londra (Kensington Square). Ad entrambi gli eventi hanno già dato l’adesione qualificati esponenti del mondo politico e culturale e esponenti delle diverse religioni, in particolare cristiani delle varie confessioni e musulmani sunniti e sciiti. L’evento di Londra è l’ultimo di una serie di incontri promossi a livello internazionale da Oasis. Tra questi la presentazione all’Unesco a Parigi nel 2005, il dialogo con il rettore e i professori dell’Università di Al-Azhar al Cairo nel 2006, la conferenza nella sede dell’ONU a New York nel 2007, le riunioni dei comitati scientifici ad Amman nel 2008, a Jounieh in Libano nel 2010, a Tunisi nel 2012, la presentazione del libro delle catechesi del Papa in arabo a Beirut del settembre scorso.

 

 

Nell’incontro mattutino il card. Scola ha sottolineato le ragioni della difficoltà del rapporto degli europei con i mussulmani: “Prima di tutto, l’Islam, pur richiamandosi con chiarezza alla tradizione biblica, se ne distanzia su diversi punti, non potendo essere inteso come una variante interna al Cristianesimo. E’ ciò che, se non erro, i musulmani stessi affermano quando dichiarano che l’Islam rappresenta il ritorno a un monoteismo abramitico antecedente al Cristianesimo e all’Ebraismo storici, o se volete una loro riforma, secondo l’acuta espressione di Joseph Van Ess. Dunque, malgrado le evidenti somiglianze, l’Islam introduce nelle società occidentali una differenza comparativamente assai maggiore rispetto a quella esistente tra le diverse confessioni cristiane, per gestire la quale è storicamente nato l’assetto costituzionale dell’Europa moderna, poi esteso a comprendere ebrei e non-credenti. D’altra parte l’Islam mantiene ferma una ‘pretesa’ veritativa universale che la maggior parte delle religioni orientali non esprimono con uguale forza. Tale connubio tra una tensione universalistica analoga a quella cristiana e una differente visione del mondo costituisce la peculiarità della condizione dei credenti musulmani nell’Occidente contemporaneo. Con la loro semplice presenza, come singoli e come comunità, essi pongono il problema della convivenza di differenti mondovisioni universali nella sfera pubblica”.

Il cardinale ha ricordato che è stato lui stesso alcuni anni fa a parlare del processo di ‘meticciato di civiltà e di culture’, riscontrando in Italia scarsa attenzione: “A me pare che finora sia stato privilegiato in questo campo un approccio pragmatico. Il problema è stato confinare la diversità (anche fisicamente, nel caso di alcune politiche multiculturali) e limitare i conflitti, anche attraverso una concezione riduttiva del dialogo come contenimento della violenza. Certamente un obiettivo condivisibile, ma l’illuminazione culturale di cui parlavo all’inizio vorrebbe andare un poco oltre gli slogan tipo ‘crediamo tutti in un solo dio’, o ‘il problema non sono le religioni, ma i politici che strumentalizzano le religioni’. Per Oasis il punto di partenza per impostare adeguatamente la relazione tra i vari soggetti personali e comunitari in una società plurale risiede nel principio di comunicazione. Come si capirà, qui il termine è inteso nel senso più forte possibile, come un fondamentale ‘mettere in comune’ (che per i cristiani è riflesso della comunicazione più radicale che esista, quella tra le persone della Santissima Trinità) . Comunicazione è propriamente un narrarsi e lasciarsi narrare in vista di un riconoscimento reciproco. Proprio per la sua natura profonda, tale comunicazione non può mai essere presa come un dato scontato, ma va considerata come il frutto di una scelta, anche se talvolta largamente implicita”.

Ed ha criticato chi escluderebbe dal processo comunicativo le religioni a favore di “una elaborazione di una super-religione che si sostituisca alle fedi storiche, ma quello di una coesistenza arricchente tra i fedeli delle diverse religioni. Tale coesistenza lascia del tutto intatta la questione se una di esse, per noi la fede in Gesù Cristo, Verità vivente e personale, sia in grado di accogliere in sé e compiere le verità delle altre . A ben guardare, è proprio su questo appassionante quesito, non su altro, che si gioca il dialogo interreligioso autentico, come anche il confronto con i non credenti, fin nel dettaglio delle questioni antropologiche ed etiche più scottanti, dal significato del matrimonio all’aborto o all’eutanasia. Ma perché un tale confronto possa esplicarsi in tutte le sue potenzialità, occorre riconoscere quel bene che precede e comunque accomuna, il bene della comunicazione appunto”.

Nella seconda relazione il card. Scola è partito dall’esperienza dell’ ‘humanum’, come punto di incontro: “Era ed è possibile comunicare, perché i soggetti condividono molte domande di fondo e una medesima esperienza a livello degli affetti, del lavoro, del riposo. Come ebbe ad affermare il Beato Giovanni Paolo II, ‘eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo’ . L’avversativa con cui si apre la frase mostra la non ingenuità della sua posizione. In effetti, se è vero che questa esperienza comune dell’humanum esiste, è anche vero che essa non si dà mai ‘allo stato puro’… Se dunque esistono domande ultime che attraversano le espressioni culturali attingendo alle radici profonde dell’esperienza umana, ciò significa che le diverse culture sono potenzialmente comprensibili le une alle altre. Si possono incontrare. Le esperienze delle une sono, per dir così, traducibili nelle altre”. Questo incontro può avvenire attraverso domande comuni: “Possiamo sintetizzare tali domande nella loro forma minima in questi termini: che uomo vuol essere l’uomo del terzo millennio? Un interrogativo solo apparentemente astratto, visto che la risposta ha fondamentali ricadute pratiche: ad esempio la possibilità o meno di arrestare il dissesto ecologico ; oppure la questione della tecno-scienza, il rischio di ridurre l’uomo al suo proprio esperimento; oppure ancora la forma che l’economia mondiale assumerà in risposta alla crisi finanziaria. In particolare, per quel che riguarda i rapporti tra cristiani e musulmani, mi pare che quattro siano gli ambiti in cui la comune domanda sull’umano si esprime oggi con particolare forza, in un interrogarsi reciproco che può risultare molto arricchente”.

Partendo da questo punto, cioè che l’ ‘homo religiosus’ è in cerca di una verità liberante, il card. Scola ha concluso, affermando che la centralità dell’ ‘homo religiosus’, aperto alla gratuità, potrebbe essere una soluzione alla crisi: “La crisi però potrebbe riservarci altre sorprese. Se la società tecnologica, debole in fatto di ideali, tende a espellere il senso religioso, non è impossibile che il suo stallo apra a un ritorno del trascendente. Dove stiamo andando al riguardo? I dati sono quanto mai contraddittori. Benedetto XVI non cessa di segnalare il preoccupante affievolirsi della pratica religiosa in Europa , un fenomeno da cui anche le comunità musulmane del Continente non sembrano andare esenti, a detta di diversi studi sociologici. E tuttavia l’esistenza di realtà che si sottraggono a questa diagnosi è un segno altrettanto evidente, come si può osservare con chiarezza, mi pare, anche nel Regno Unito. Per quanto riguarda invece i Paesi a maggioranza musulmana la pratica religiosa sembra aver toccato uno dei punti più alti della loro intera storia, al punto che di recente il giurista Yadh Ben Achour ha stigmatizzato quella che ha definito ‘indigestione di religione’ .

Tanto più sorprendente suona allora la diagnosi di vari analisti, tra cui l’islamologo tunisino Abdel Majid Charfi, che al Comitato di Oasis di quest’anno parlava di una secolarizzazione e addirittura di una secolarizzazione ‘rampante’, pur dietro la facciata di un’adesione religiosa formale…  Senza misconoscere il valore di tale approccio, occorre riconoscere che di per sé solo sarebbe limitante, per la sua natura essenzialmente difensiva. Resta comunque vero che su numerose questione etiche cristiani e musulmani, insieme a tanti altri uomini e donne, credenti e non, possono e anzi devono collaborare, tanto più che i problemi si presentano spesso in modalità quasi identiche. La ‘controversia sull’humanum’ di cui parlò Giovanni Paolo II potrebbe sfociare in ciò che Lewis definiva ‘abolizione dell’umano’ e sarebbe assurdo, in una società pluralista, rinunciare a far udire una voce sola tutte le volte che ciò sia possibile. La posta in gioco è troppo alta per permettersi un tale lusso”.

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