Comunicare la fede per una nuova evangelizzazione. L’università del Papa laurea Gianfranco Ravasi

E’ significativo come Gianfranco Ravasi, alla fine della sua riflessione, arrivi a parlare del silenzio. Perché alla fine come comunicare la fede, come diffondere una nuova evangelizzazione, se non si arriva all’essenzialità del messaggio evangelico, e poi al silenzio per ascoltare quel messaggio, ascoltare se stessi, e saperlo rendere essenziale? Ma è anche significativo come il percorso di Gianfranco Ravasi parti dalla pedagogia greca, arrivi a scalare le vette della retorica classica, e poi ritorni alla Bibbia, alle quasi sei mila parole dell’ebraico che contengono un mondo, comparate alle 150 mila del nostro vocabolario con le quali non riusciamo a raccontare il mondo. La comunicazione della fede viene anche da questa considerazione.
Pontificia Università Lateranense, 9 novembre. È l’anniversario della dedicazione della Basilica Laterana, ed è anche il giorno in cui si apre l’Anno Accademico dell’Università del Papa. Un anno che il rettore Enrico dal Covolo ha voluto significativamente dedicare alla “Comunicazione della Fede”, terminando l’anno con una commemorazione del cinquantenario della Inter Mirifica, il documento conciliare che ha aperto la Chiesa alle comunicazioni sociali. Perché nell’Anno della Fede, dice il rettore, si deve comprendere il modo in cui non solo comunicare la fede personale, ma anche la parte “oggettiva” della fede, quell’insieme di riti, segni, liturgie che scandiscono la vita del cristiano. E forse non possediamo più il vocabolario per comprendere questi segni, un po’ come non possediamo più il vocabolario per comprendere le biblia pauperum, le straordinarie vetrate delle cattedrali che raccontavano la Bibbia a quanti (quasi tutti) non sapevano leggere.
Gianfranco Ravasi, cardinale, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha fatto della comunicazione della fede la sua missione. Biblista affermato, commentatore fine e denso di citazioni di una Bibbia che conosce praticamente a memoria, pubblicista affermato su vari giornali e conduttore di una trasmissione televisiva di successo (e i passaggi della carriera sono ben delineati dal professor Cioli, decano), la Facoltà di Teologia dell’Università Lateranense decida di assegnare a lui il dottorato honoris causa in Sacra Teologia nell’anno della comunicazione della fede.
Come comunicare la fede? E’ la domanda di fondo che si fa Ravasi. E comincia il suo percorso dalla paideia greca, dai modelli di educazione che si rifacevano l’uno ad Isocrate (basato sull’eloquenza) e l’altro a Platone (basato sui contenuti). Arriva, con Pascal (“uno degli autori che preferisco”, dice) a sottolineare come sia necessario “modellare il pensare più che colmare il cervello di dati e modi espressivi”. Sostiene che “il segno più rilevante del mutamento in corso riguardo agli equilibri tra contenuto e comunicazione è il fatto che la comunicazione non è più un medium simile a una protesi che aumenta la funzionalità dei nostri sensi, ma è divenuto un ambiente totale, globale, collettivo, un’atmosfera che non si può non respirare”.
D’altronde, quando si estendono le capacità sensoriali, si rivoluziona il mondo. È successo a Galileo con il suo telescopio, e succederà sempre. Perché estendere i sensi, moltiplicare i dati offerti, manda in crisi. Ravasi delinea tre vizi della comunicazione. La prima, che “la moltiplicazione sconfinata dei dati offerti” può “indurre a un relativismo agnostico, a una sorta di anarchia intellettuale e morale, a una flessione dello spirito critico e di vaglio selettivo”. È qui che entrano in crisi le “grandi agenzie di comunicazione del passato come la Chiesa, la scuola e lo Stato”. Così, dice Ravasi, si arriva al principio di Hobbes che “è l’autorità potente e dominante che determina le idee, il pensiero, le scelte, il comportamento, e non la verità in sé oggettiva”. “La nuova autorità – afferma – è quella appunto dell’opinione pubblica prevalente”.
Secondo vizio della comunicazione: il fatto che la comunicazione sia apparentemente “democratica”, ma che lo diventi a causa della deregulation. E così, dietro il principio di pluralismo si può celare un’operazione di omologazione e di controllo. “Non per nulla – dice Ravasi – le gestioni delle reti sono sempre più affidate alle mani di magnati o di mega-corporations, che riescono sottilmente e sapientemente a orientare, a sagomare, a plasmare a proprio uso (e ad uso del mercato e dei loro interessi) contenuti e dati creando, quindi, nuovi modelli di comportamento e di pensiero”.
Terzo vizio, la moltiplicazione dei contatti che porta la loro riduzione alla virtualità. “Paradossalmente – dice Ravasi – l’effetto dello spostarsi verso la realtà virtuale e veros mondi mediatici è stato quello della separazione gli uni dagli altri e della morte del dialogo vivo e diretto nel villaggio”.
Che fare? Ravasi parla dell’ottimismo della Chiesa, che ha da sempre incoraggiato ad entrare in questo che “è il primo areopago moderno”. La citazione è dell’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II. Ed è significativo che Ravasi, oltre a questa (enciclica che riportò al centro dell’impegno missionario la figura di Gesù), citi l’enciclica Evangeli Nuntiandi di Paolo VI, in cui Papa Montini segnalava le “esitazioni che avevano causato una rottura tra Vangelo e cultura, uno iato dai risvolti molteplici non solo comunicativi, ma anche artistici, musicali, sociali e culturali in senso generale”. E così, le nuove sfide della Chiesa sono di stare sui media, di comprendere il modo in cui utilizzarli per il bene comune, di comprendere come anche il cyberspazio è un dominio dotato di grandi potenzialità spirituali, come delinea padre Antonio Spadaro nel suo Cyberteologia, che Ravasi mostra di apprezzare.
Ma per i paradigmi comunicativi, per la Chiesa, vengono sempre dalle Sacre Scritture. Che sono un grande esempio di sintesi e contenuto. Ci sono le “Dieci parole del Sinai”, c’è il primato della Parola dell’incipit del Vangelo di Giovanni. E Ravasi ricorda le preoccupazioni di Paolo, la sua polemica “contro la degenerazione cui può essere sottoposta nella sua trasmissione l’autenticità del kerigma”, e allo stesso tempo il suo impegno per “attualizzare” la Parola di Dio. Ma ricorda anche il paradigma “simbolico” attuato da Gesù, il suo insegnare attraverso parabole e con autorità. Tanto che – “in un passo del Vangelo spesso trascurato”, dice Ravasi – quando degli uomini andranno ad arrestare Gesù e torneranno a mani vuote dalle autorità giudaiche, confesseranno: “Mai un uomo ha parlato così”.
Un messaggio sintetico, chiaro, quello di Gesù, un paradigma di comunicazione cui si deve rifare la Chiesa dei nostri giorni. Perché – annotava Montini nel suo primo dialogo con il filosofo Jean Guitton – “bisogna essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?”
E allora si torna incredibilmente alla Bibbia. “La chiarezza e la semplicità – dice Ravasi – sono paradossalmente più impegnative del linguaggio sofisticato ed esoterico”. Guarda, il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, al minimalismo dei 140 caratteri di Twitter, dove “il pensiero certamente si semplifica, ma diventa più incisivo”. Sostiene che “certo non bisognerà mai abbandonare l’approfondimento ove impera appunto la subordinata, ossia l’articolazione del pensiero, ma bisognerà anche essere in grado di comunicare il kerygma con la stessa essenzialità di Cristo”. Come incisivo (sapeva sedurre l’ascoltatore) è lo stesso Cristo, che nel suo primo intervento pubblico, ha detto semplicemente: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino. Convertitevi e credete al Vangelo”. “In greco – chiosa Ravasi – 8 parole in tutto, senza già gli articoli e le congiunzioni che comunque porterebbero a un totale di 78 caratteri”.
Così, dopo tanto parlare si torna al silenzio. D’altronde, lo stesso Benedetto XVI ha dedicato la Giornata della Comunicazioni Sociali del 2012 a “Silenzio e Parola”, alla necessità dell’ascolto. Una necessità che viene anche questa dalla Bibbia. Dio, sull’Horeb, non si rivela ad Elia nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto, bensì in “una voce di silenzio sottile”. “E’ solo per questa via – commenta Ravasi – che sboccia la parola sapienza e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: ‘Lo stupido dice quello che sa, il sapiente sa quello che dice’”.