L’ambasciatore teologo saluta il Papa. E intanto arrivano tre nuovi ambasciatori

“You do the policy. I do the library”. Alcuni membri dello staff di Miguel Diaz, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, raccontavano divertiti questa frase dell’ambasciatore. L’ambasciatore/teologo l’aveva pronunciata prima di un incontro diplomatico, ospitato in una immensa biblioteca. E Diaz non riusciva a credere ai suoi occhi. Oggi, Miguel Diaz è stato da Benedetto XVI. Alla vigilia delle elezioni americane, scade il suo mandato come ambasciatore. Torna in patria, a fare il professore. Chi sarà il suo successore è una scelta non di poco conto negli Stati Uniti che per anni – fino alla gestione Reagan – non hanno voluto avere un ambasciatore presso la Santa Sede, per paura di compromettere la laicità dello Stato.
Professore di teologia, cattolico, sposato con una teologa, padre di quattro figli, la gerarchia di valori di Miguel Diaz si può riassumere così: la famiglia al primo posto, lo studio al secondo, o forse a pari merito. E, infine, l’esperienza della diplomazia, che ha affrontato con il piglio dello studioso e del professore universitario, e con un lavoro continuo sui temi della libertà religiosa e del dialogo interculturale. I suoi temi, in fondo.
Chi è Miguel Diaz? Prima di essere nominato da Obama ambasciatore presso la Santa Sede, era un professore di teologia alla College Saint Benedict e alla St. John’s University, in Minnesota. Si è occupato molto di teologia della migrazione, essendo lui stesso un immigrato, nato a Cuba e partito per gli Stati Uniti con la famiglia quando aveva 8 anni. L’interesse per gli argomenti “di frontiera” è parte della sua stessa storia. Quando fu scelto come ambasciatore, alcuni cattolici di stampo più conservatore si allarmarono. I polemici sottolineavano la sua vicinanza ad alcune istanze della Teologia della Liberazione, che riprendeva temi marxisti.
Ma per Diaz non bastano le etichette. L’ambasciatore uscente si definisce “un rahneriano cui è capitato di nascere a Cuba”, ed è stato anche presidente della Società Rahneriana d’America. Gesuita, uno dei “motori” del Concilio, Rahner ebbe posizioni teologiche innovative, senza però incorrere mai nelle inchieste dell’ex Sant’Uffizio. La sua è una teologia “dell’uomo”, e la sua visione dell’uomo come “via della Chiesa” è stata ripresa da Giovanni Paolo II durante tutto il corso del suo Pontificato.
Diaz segue le sue orme. Lavora sulla teologia trinitaria. Dialoga. La sua prima uscita pubblica come ambasciatore è stata a un convegno sulla prevenzione dell’Aids e dell’Hiv. La sua linea è stata semplice: mettere insieme posizioni anche discordi partendo da ciò che hanno in comune. Fa suo il motto degli Stati Uniti: “E pluribus, unum”, “da tanti una cosa sola”. Sulle politiche di prevenzione all’Aids, tra Chiesa e Stati Uniti c’è un abisso. Diaz si limitò ad osservare che “gli Stati Uniti sono il maggior erogatore di aiuti al mondo, la Chiesa cattolica il maggior distributore, e dunque la nostra collaborazione è realmente importante”.
Sul piano teologico, Diaz non è un radicale: nei suoi scritti, distingue tra l’opzione preferenziale per i poveri nell’America Latina e l’opzione preferenziale per la Cultura nella teologia ispanica degli Stati Uniti.
Dell’associazione che riunisce i teologi ispanici, Diaz è stato presidente. Il teologo Roberto Goizueta, che lo conosce da moltissimi anni, racconta che “come Latino Americano, Diaz ha ben presente la situazione della Chiesa Cattolica negli Usa, dove i trend demografici sostengono che, a partire dalle prossime due generazioni, la maggioranza dei cattolici degli Stati Uniti parlerà spagnolo. La sua teologia riflette il modo in cui la fede cattolica è vissuta oggi dagli ispanici Usa, e specialmente come quella fede si esprime nella pietà popolare e nella devozione. Diaz ha un profondo legame con la sua fede cattolica, e allo stesso tempo è un costruttore di punti che crede che le differenze si possano confrontare con un dialogo civile”.
Lo studio è la sua vita: anche sua moglie è una teologa, e entrambi ospitavano un party di Natale nella loro casa, invitando tutti i loro studenti, riempiendo la loro casa “fino a farla scoppiare”, racconta il professor Daniel Finn, per anni insegnante alla Saint John University con Diaz. “E’ una persona molto portata nei confronti degli altri, brillante, il professore preferito di molti studenti”, dice di lui Finn.
Più che ai possibili punti di contrasto con il Vaticano, Diaz ha guardato soprattuto ai punti in comune. Da sempre, ha sottolineato di avere in comune con Benedetto XVI la vicinanza con il mondo benedettino: Diaz ha insegnato nel loro college, Ratzinger si è laureato con una tesi sul pensiero di San Bonaventura. E a chi gli faceva maliziosamente notare che il teologo di riferimento di Ratzinger è Balthasar, e il suo Rahner, Diaz rispondeva con tranquillità che l’ultima tesi da lui corretta prima di partire per Roma riguarda proprio l’opera di Balthasar. Che si parli di teologia, di Ratzinger o diplomazia, il principio per Diaz è sempre lo stesso: valorizzare le cose che uniscono.
Diaz per ora torna negli Stati Uniti, in quell’ambiente universitario che lui ama. E, nel giorno del suo congedo, gli ambasciatori di Nigeria, Australia e Colombia hanno presentato le loro lettere credenziali. Sono rispettivamente Francis Chukwuemeka Okeke, John Anthony Gerard McCarthy e Germán Cardona Gutiérrez. Un medico, un giurista e un ingegnere. Anche per loro si prospettano compiti difficili: il primo dovrà fare da ponte con una Nigeria martoriata dagli attacchi ai cristiani, il secondo con un’Australia lontana geograficamente da Roma, il terzo con una nazione in cui la Chiesa è impegnata in prima linea nella lotta al narcotraffico.