La voce del Madagascar al Sinodo. Intervista a monsignor Rosario Vella, vescovo salesiano

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Eccellenza, lei è nato su un’isola, la Sicilia, poi è partito per un’altra isola, il Madagascar. Può raccontarci i vari passaggi della sua vita?

Io sono un salesiano. Negli anni ’70 e ’80 la mia Congregazione fece la scelta di andare in Africa e la Sicilia assunse l’incarico del Madagascar. Mi sono dimostrato disponibile e sono partito nell’81. Durante questi 30’anni in Madagascar sono stato in molte regioni del Paese e ho visto le varie situazioni, che sono uguali perché l’anima è unica, ma anche diverse, perché ci sono tradizioni differenti. Tuttavia mi son trovato sempre bene, la gente mi ha accolto, abbiamo fatto subito famiglia. Noi missionari dobbiamo entrare in punta di piedi in una cultura che non è la nostra, pian piano la si deve apprendere. Questo si può fare quando si ama la cultura e la gente. Mi hanno aiutato molto i giovani, che sono il futuro del mondo e sanno accogliere la diversità come una ricchezza per il bene di tutti.

Nel suo intervento al Sinodo, ha adoperato la metafora della navigazione (con la barca di Pietro che sembra in mezzo alla tempesta, ma le onde impetuose, pur con i loro rischi, sono da preferire alle acque stagnanti e alle loro false sicurezze). Fuor di metafora, cosa intende?

Dinanzi a una situazione di pericolo non possiamo rimanere ad aspettare: bisogna, per entrare nella metafora, accettare i venti. Sappiamo bene che se le vele sono posizionate nel senso giusto, i venti possono condurre la barca fin dove deve arrivare. Però sono importanti anche le persone che vi lavorano: c’è chi deve remare, chi deve tenere il timone, ed in quest’opera siamo tutti Chiesa. In Madagascar c’è adesso una situazione di caos politico, sociale, economico, giuridico, morale. Noi non possiamo restare a guardare, ma dobbiamo accettare i rischi e andare avanti. La Chiesa in Madagascar in verità lo fa – possiamo dirlo a testa alta e la gente se ne accorge –, operando nel sociale, nel campo dell’educazione, andando incontro ai bisogni reali della vita delle persone. Laici, suore, sacerdoti, catechisti e insegnanti cercano di fare sempre tutto quello che è possibile.

Lei è un “figlio” di don Bosco, e una peculiarità del carisma salesiano è la cura dei giovani. Quali differenze riscontra tra i giovani malgasci, gli italiani e gli europei in genere?

I giovani nel mondo sono uguali perché hanno un cuore unico: chi si apre alla vita e la vuole scoprire manifesta tutte le ansie e le paure di affrontare il futuro, ma anche la forza per poterlo fare. Il loro animo deve però confrontarsi con le situazioni contingenti. In Madagascar i giovani contano poco, non ci sono prospettive rosee per loro. Tanti giovani, anche se hanno desiderio di impegnarsi, purtroppo non possono accedere agli studi a causa della povertà. Tanti altri si sono formati fino alle superiori o all’università, e noi stessi li abbiamo sostenuti, però non è possibile trovare lavoro in una struttura che non funziona. In Europa è molto difficile, ma lì è veramente impossibile.

Nel suo intervento, ha notato ancora che i giovani devono insegnare agli adulti il coraggio e la forza, l’umiltà, la gioia e l’amore alla croce. Le nuove generazioni possono essere protagoniste della nuova evangelizzazione, o sono ormai troppo distanti dalla Chiesa, dal suo messaggio e dalle istanze spirituali?

I giovani non sono lontani dalla Chiesa, hanno un modo diverso di accostarsi ad essa, ma vogliono farlo, sono pronti. Tutti noi insieme, vescovi, sacerdoti, religiosi, adulti, dobbiamo dargli uno spazio adatto alla situazione di oggi, al mondo giovanile e al loro cuore, poi i giovani reagiscono. Se guardiamo le statistiche, vediamo che in tante parti, anche in Europa, i giovani ricominciano ad accostarsi alla Chiesa, perché capiscono che in essa ci sono dei valori. In Madagascar le chiese sono piene di giovani. Abbiamo un potenziale grandissimo, c’è una folla di adolescenti e di giovani pronti a ricevere l’educazione che la Chiesa offre, e che sono la sua forza. Nonostante tutte le difficoltà degli spostamenti, si è celebrata di recente la Giornata nazionale dei giovani, che ha raccolto più di 30mila ragazzi in una città che ne avrebbe potuto accogliere cinque o seimila. Eppure son venuti in tanti, hanno lavorato bene, è stata un’esperienza bellissima. Tutti si sono meravigliati, dicendo che tramite i giovani abbiamo realizzato veramente l’unità in Madagascar e sono stati loro che ce lo hanno insegnato: c’erano tutte le tribù, tutti i tipi di persone, giovani che venivano dai quattro punti cardinali, ma l’anima era unica.

Concentrandoci sul Madagascar, qual è la realtà della Chiesa in questo grande Paese africano?

La Chiesa in Madagascar, anche se siamo minoranza, il 25%, ha sempre avuto e ricopre tuttora un ruolo importante. Dovunque – anche nelle zone delle coste, dove le percentuali sono molto più basse, o nei villaggi sperduti con al massimo il 10% di cattolici – la comunità è vivace e s’impegna, sia dal punto di vista religioso, che da quello sociale. Le scuole cattoliche, ad esempio, hanno in questo momento un peso notevolissimo: ormai i licei e le medie raggiungono più ragazzi che le scuole statali. È una grande responsabilità, oltre che un impegno ingente. Ma la Chiesa cattolica si occupa anche di tanti ospedaletti, di progetti agricoli o di lavoro insieme con i contadini. Tante strade sulle montagne, nelle zone più difficili, sono state costruite dai missionari, dalla Chiesa, dalla nostra gente, che ha voluto dedicare questo impegno per aiutare tutto il popolo.

25% i cattolici, e il resto?

C’è un 10% di protestanti, poi una piccola percentuale di musulmani, mentre la stragrande maggioranza sono animisti, di religione tradizionale.

Riguardo la situazione della fede, lei notava nell’Aula del Sinodo che quella del Madagascar è una Chiesa giovane. Parlate allora di nuova evangelizzazione, o riflettete piuttosto sulla prima evangelizzazione, e quali sono le prospettive missionarie?

Tutte e due. Da una parte c’è la prima evangelizzazione, perché tanti posti e tanti giovani non hanno ancora ricevuto l’annuncio della fede. Ma ci sono anche tanti luoghi in cui bisogna veramente rinnovare l’evangelizzazione. La “nuova evangelizzazione” dev’essere presentata con nuovo ardore, nuovo entusiasmo, nuovi metodi, nuove espressioni e tutto questo bisogna farlo anche nella prima evangelizzazione, o nei posti dove non è ancora arrivato niente.

In Africa si verifica spesso l’incontro tra religioni e culture diverse. Come portare avanti il dialogo in queste circostanze?

Il Madagascar per certi aspetti è molto fortunato, perché le religioni tradizionali e gli animisti, che sono la maggioranza, sono molto religiosi e ci sono tanti valori – come l’accoglienza, l’unità della famiglia, l’aiuto reciproco, l’interesse per i morti, che vuol dire anche rispetto per l’aldilà, il rivolgersi a Dio in tutte le situazioni della vita – che possiamo dire cristiani, per cui c’è un dialogo naturale. Quando vado nei villaggi io non incontro soltanto i cristiani, ma tutto il villaggio. Se c’è la messa, oppure una celebrazione particolare, non vengono solo i cattolici, ma si accostano anche tanti altri, si sta insieme, si discute, si fa pranzo in compagnia.

Non c’è il rischio del sincretismo?

Non credo, si sa bene che sono due situazioni diverse.

Ha parlato anche di una liturgia “più gioiosa, più partecipata”, animata da “canti e danze”…

In Madagascar ci sono liturgie veramente vivaci. All’occhio europeo possono apparire lunghe, perché una liturgia, quando è breve, dura due ore e mezza, ma può arrivare anche a tre-quattro ore. Nessuno però avverte stanchezza, perché ci sono i canti, le danze, si partecipa. È adatta alla situazione della gente ed è per questo che la stessa liturgia è anche un modo di presentare il Vangelo. Sono esperienze molto belle, tutti ne rimangono meravigliati. Nei villaggi più lontani ci sono dei canti bellissimi che si fanno durante le liturgie, anche se non c’è una chiesa e si è sotto un mango o qualche altro grande albero, ma è la vita della Chiesa.

Può dirci qualcosa sulla diocesi di Ambanja?

La mia diocesi si estende per 36mila chilometri quadrati, vuol dire due regioni italiane… Cerchiamo di fare degli sforzi per arrivare da tutti, anche se è difficile. La popolazione è di un milione 300mila abitanti, di cui solo 100mila sono cattolici, però noi ci occupiamo di tutti e non facciamo alcuna distinzione: nelle nostre scuole e nei dispensari accogliamo chiunque, quando facciamo un’attività siamo tutti coinvolti. Gesù non è morto e risorto solamente per i cattolici, ha dato la vita per tutti. Quindi noi ci sentiamo vescovi di tutti.

Un suo giudizio su questo Sinodo. Quali i ricordi che conserverà?

È il primo Sinodo a cui partecipo. Sono contentissimo e mi reputo davvero fortunato, perché è stata un’esperienza molto forte. Tra i vescovi s’è creato un rapporto veramente bello: ognuno si sentiva libero di dire quello che aveva nel cuore, lo ha espresso e penso che tutti gli interventi lo dimostrino. Ma anche al di fuori degli incontri emergeva un interesse generale. Tanti vescovi mi domandavano: “Cosa fate in Madagascar?”. Anch’io chiedevo agli altri cosa facessero. E ognuno si rendeva partecipe della vita delle diocesi degli altri. Poi ci si dava forza e speranza reciproca, perché raccontare i problemi che si vivono incoraggia sia chi ascolta sia chi ne parla.

Quali le risposte specifiche che questo Sinodo può dare alla Chiesa che è in Madagascar?

La Chiesa si è occupata di tante cose, ma un nuovo approccio alla vita della gente darà prospettive importanti e profonde al popolo. Penso che sarà veramente un modo di rinnovare e di presentare la Chiesa nella sua bellezza.

Le parole-chiave di questo Sinodo?

Credo che il Sinodo in questo momento ci faccia dire che il Vangelo è la ricchezza più grande nella nostra vita. Bisogna anzitutto accoglierlo, da cui l’insistenza di tanti Padri sinodali sulla conversione, sull’evangelizzare prima noi stessi. Segue lo slancio di comunicarlo agli altri. Come? Con la vita, in forma umile, sapendo che non siamo soli, ma abbiamo Gesù che è morto in croce. La croce è la nostra forza e la nostra speranza. Gesù è risorto e ci dona la sua presenza e la sua grazia.

Di cosa ha veramente sete, secondo lei, il cuore dell’uomo in ogni continente?

Penso che il cuore dell’uomo abbia due desideri profondissimi: comunione con Dio e comunione con gli altri. Comunione con Dio perché da Dio veniamo e a Dio ritorniamo e quindi, come dice sant’Agostino, sarà sempre inquieto il nostro cuore fin quando non riposeremo in Lui. Però nella nostra vita concreta abbiamo bisogno anche di relazioni, di vivere insieme con gli altri: la nostra famiglia, il prossimo che abbiamo vicino e il prossimo che è lontano.

Un pensiero che l’accompagna e le dà forza nel suo ministero?

La croce di Gesù è la nostra speranza e la nostra vita.

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