Il Nobel per la Pace all’Europa senza radici
È un’Europa senza radici quella che ha ricevuto quest’anno il Premio Nobel per la Pace. E non tanto e non solo perché l’accenno alle radici giudaico-cristiane dell’Europa non fu inserito nella bozza di Costituzione europea. È un’Europa senza radici perché riceve il premio in un momento in cui l’istituzione europea vive una forte crisi. Una crisi di valori, prima di tutto, anche se sulle prime pagine dei giornali c’è sempre la crisi economica. Ma in fondo come possono stare insieme Stati con economie e prassi di governo diversissime tra loro se non attraverso valori e principi comunoi? E dove sono questi valori e principi?
Forse sarebbe il caso di chiederselo, nel momento in cui il Nobel per la Pace viene dato ad una istituzione che sembra in via di sfaldamento. Tanto che la Commissione Caritas in Veritate del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa – riunitasi lo scorso settembre a Cipro – ha pensato bene di dedicare la propria discussione alla coesione sociale. Ne sono usciti con più domande che risposte. E con la certezza che però le Chiese possono davvero contribuire a creare una cittadinanza europea.
D’altronde, è difficile pensare ad una cittadinanza europea quando a tenere insieme l’Europa sono soprattutto i principi economici. È stato un bene o un male iniziare l’unificazione a partire dall’economia? Se lo chiedeva Jean Monnet, che dell’unità economica fu il principale architetto e che pochi giorni prima di morire, confessava: “Se l’Europa fosse da rifare, comincerei dalla cultura”.
Eppure, c’era una cultura comune nei padri fondatori del sogno europeo. De Gasperi, Schumann, Adenauer prendevano l’ideale dell’unità nella differenza direttamente dal loro essere cristiani. La sussidiarietà era un principio fondamentale, e vi si riferiva con forza nel Trattato di Roma, nel 1957. E forse si devono proprio guardare le differenze tra il Trattato di Roma e quello di Maastricht del 1992 per comprendere quale è stata l’idea di Europa che ha avuto il sopravvento. Il Trattato di Roma parlava di sviluppo, quello di Maastricht di mercato. Se prima al centro del processo di integrazione europea (nato tra l’altro in una mentalità prettamente cristiana) c’era la solidarietà, oggi ci sono le sanzioni tra gli Stati.
Il Nobel per la Pace all’Unione Europea sembra quasi un premio di incoraggiamento. Vero – come recita si legge nelle motivazioni della premiazione – che in qualche modo l’istituzione ha garantito sessant’anni di pace, e ha contribuito alla difesa dei diritti umani. Eppure anche sui diritti umani ci sarebbe un capitolo a parte, una storia tutta da raccontare. È stato pubblicato qualche hanno fa in un libro, “Contro il Cristianesimo”, firmato da Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, in cui venivano sottolineati i ripetuti attacchi della commissione sui diritti umani del Parlamento Europeo, nelle sue relazioni annuali, contro la Chiesa cattolica accusata di “fondamentalismo” in ogni campo, ma soprattutto in quello sessuale.
Eppure, qualcosa si è mosso, in Europa. Lo scorso anno, una denuncia di Greenpeace ha portato alla sentenza della Corte Europea che sancisce che non ci possono essere profitti dalla distruzione di embrioni umani. La Corte di Giustizia Europea ha stabilito che non si può brevettare nessuna procedura che comporti la distruzione di un embrione umano. È invece possibile brevettare procedimenti che coinvolgono embrioni umani se risultano di una qualche utilità per l’embrione stesso. Ad esempio una diagnosi o una cura. Ma è solo un movimento. Nemmeno un mese fa, Con, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha bollato come “incoerente” la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita nella parte in cui pone il divieto di diagnosi preimpianto sugli embrioni.
Da una parte, una sentenza a difesa dell’embrione. Dall’altra, una sentenza che apre in qualche modo all’eugenetica. Due casi che raccontano di come l’Europa senza radici sia diventata soprattutto una burocrazia senza limiti. Non c’è un’idea di essere umano alla base, non c’è un valore comune. Si portano avanti idee e ideologie a colpi di soft law, di sentenze che si rimpallano dalle corti nazionali a quella europea che poi fa giurisprudenza per tutti.
È un’Europa molto tecnica e poco umana, quella delineata dal Trattato di Maastricht e dalle sue applicazioni. Un’Europa il cui senso è stato raccontato dallo stesso Mario Monti a Benedetto XVI, nella prima udienza privata, in occasione della quale il premier ha regalato significativamente al Papa la raccolta di saggi da lui firmata “Sul governo dell’Economia e della moneta”. Era il 1992, che era anche l’anno della pubblicazione del libro di Joseph Ratzinger: “Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti”. E si leggeva in quel libro: “Una società, che nella sua fisionomia istituzionale è costruita su basi agnostiche e materialistiche e autorizza l’esistenza di tutte le restanti possibili convinzioni soltanto a condizione che rimangano confinate al di sotto della soglia di quanto è pubblico e ha rilevanza civile, non sopravvive a lungo”
Parole forse profetiche, quelle che Benedetto XVI vergò nel 1992. Parole che fanno capire come forse, per uscire dall’impasse, basterebbe ricordarsi che l’Unione nasce dai valori cristiani. Valori che non sono stati inseriti nella bozza della Costituzione. Ma che sono presenti sin dalla bandiera della Comunità Europea, un vessillo che è anche un segno esplicito di omaggio alla Vergine Maria.